Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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La legge di Roma

Arringa al popolo di Roma accalcato nelle vie e acclamante, la sera del XII maggio MCMXV

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La legge di Roma

Arringa al popolo di Roma

accalcato nelle vie e acclamante,

la sera del XII maggio MCMXV

Romani, Italiani, fratelli di fede e d’ansia, amici miei nuovi e compagni miei d’un tempo, non a me questo saluto d’ardente gentilezza, di generoso riconoscimento. Non me che ritorno voi salutate, io lo so; ma lo spirito che mi conduce, ma l’amore che mi possiede, ma l’idea che io servo.

Il vostro grido mi sorpassa, va più oltre, va più alto. Io vi porto il messaggio di Quarto, che non è se non un messaggio romano alla Roma di Villa Spada e del Vascello.

Dalle mura aureliane stasera la luce non s’è partita, non si parte. Il chiarore s’indugia a San Pancrazio. Or è sessantasei anni (contrapponiamo la gloria all’onta) in questo giorno, il Duce di uomini riconduceva da Palestrina in Roma la sua Legione predestinata ai miracoli di giugno. Or è cinquantacinque anni (contrapponiamo l’eroismo alla pusillanimità), in questa sera, in quest’ora stessa, i Mille, in marcia da Marsala verso Salemi, sostavano; e a piè de’ lor fasci d’armi mangiavano il loro pane e in silenzio si addormentavano.

Avevano in cuore le stelle e la parola del Duce, che è pur viva e imperiosa oggi a noi: «Se saremo tutti uniti, sarà facile il nostro assunto. Dunque, all’armi!».

Era il proclama di Marsala; e diceva ancóra, con rude minaccia: «Chi non s’arma è un vile o un traditore».

Non stamperebbe dell’uno e dell’altro marchio, Egli il Liberatore, se discendere potesse dal Gianicolo alla bassura, non infamerebbe Egli così quanti oggi in palese o in segreto lavorano a disarmare l’Italia, a svergognare la Patria, a ricacciarla nella condizione servile, a rinchiodarla su la sua croce, o a lasciarla agonizzare in quel suo letto che già talvolta ci parve una sepoltura senza coperchio?

C’è chi mette cinquant’anni a morire nel suo letto. C’è chi mette cinquant’anni a compire nel suo letto il suo disfacimento.

È possibile che noi lasciamo imporre dagli stranieri di dentro e di fuori, dai nemici domestici e intrusi, questo genere di morte alla nazione che ieri, con un fremito di potenza, sollevò sopra il suo mare il simulacro del suo più fiero mito, la statua della sua volontà vera che è volontà romana, o cittadini?

Come ieri l’orgoglio d’Italia era tutto volto a Roma, così oggi a Roma è volta l’angoscia d’Italia; ché da tre giorni non so che odore di tradimento ricomincia a soffocarci.

No, noi non siamo, noi non vogliamo essere un museo, un albergo, una villeggiatura, un orizzonte ridipinto col blu di Prussia per le lune di miele internazionali, un mercato dilettoso ove si compra e si vende, si froda e si baratta.

Il nostro Genio ci chiama a porre la nostra impronta su la materia rifusa e confusa del nuovo mondo. Ripassa nel nostro cielo quel soffio che spira nelle terzine prodigiose in cui Dante rappresenta il volo dell’aquila romana, o cittadini, il volo dell’aquila vostra.

Che la forza e lo sdegno di Roma rovèscino alfine i banchi dei barattieri e dei falsarii. Che Roma ritrovi nel Fòro l’ardimento cesariano. «Il dado è trattoGettato è il dado su la rossa tavola della terra.

Il fuoco di Vesta, o Romani, io lo vidi ieri ardere nelle grandi acciaierie liguri, nelle fucine che vampeggiano di giorno e di notte, senza tregua. L’acqua di Giuturna, o Romani, io la vidi ieri colare a temprar piastre, a raffreddar le frese che lavorano l’anima dei cannoni.

L’Italia s’arma, e non per la parata burlesca ma pel combattimento severo. Ode da troppo tempo il lagno di chi laggiù oggi soffre la fame del corpo, la fame dell’anima, lo stupro obbrobrioso, tutti gli strazii.

Calpesta dal barbaro atroce,

o Madre che dormi, ti chiama

una figlia che gronda di sangue.

Or è cinquantacinque anni, in questa sera, in quest’ora stessa, i Mille s’addormentavano per risvegliarsi all’alba e per andare avanti, sempre avanti, non contro il destino ma verso il destino che ai puri occhi loro faceva con la luce una sola bellezza.

Si risvegli Roma domani nel sole della sua necessità, e getti il grido del suo diritto, il grido della sua giustizia, il grido della sua rivendicazione, che tutta la terra attende, collegata contro la barbarie.

«Dov’è la Vittoriachiedeva il poeta giovinetto caduto sotto le vostre mura, mentre anelava di poter morire su l’alpe orientale, in faccia all’Austriaco.

O giovinezza di Roma, credi in ciò ch’ei credette; credi, sopra tutto e sopra tutti, contro tutto e contro tutti, che veramente Iddio creò schiava di Roma la Vittoria.

Com’è romano forti cose operare e patire, così è romano vincere e vivere nella vita eterna della Patria.

Spazzate dunque, spazzate tutte le lordure, ricacciate nella Cloaca tutte le putredini!

Viva Roma senza onta!

Viva la grande e pura Italia!


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