Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Per la più grande Italia
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La legge di Roma

Dalla ringhiera del Campidoglio il xvii di maggio mcmxv

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Dalla ringhiera del Campidoglio

il xvii di maggio mcmxv

Romani, voi offriste ieri al mondo uno spettacolo sublime. Il vostro immenso ordinato corteo dava imagine delle antiche pompe che qui si formavano nel tempio del Dio Massimo e accompagnavano pel clivo capitolino le statue insigni collocate su i carri. Ogni via, dove tanta forza e tanta dignità passavano, era una Via Sacra. E voi accompagnavate, eretta sul carro invisibile, la statua ideale della nostra Gran Madre.

Benedette le madri romane ch’io vidi ieri, nella processione dell’offerta solenne, portare su le braccia i loro figli! Benedette quelle che già mostravano su le loro fronti il coraggio devoto, la luce del sacrifizio silenzioso, il segno della dedizione a un amore più vasto che l’amore materno!

Fu, veramente, un sublime spettacolo. Però la nostra vigilia non è finita. Non cessiamo di vegliare. Non ci lasciamoilluderesorprendere. Io vi dico che l’infesta banda non disarma.

Ma non v’è più bisogno di parole incitatrici, giacché anche le pietre gridano, giacché il popolo di Roma per le lapidazioni necessarie era pronto a strappare le selci dai suoi selciati ove scalpitano i cavalli che, invece di esser già all’avanguardia su le vie romane dell’Istria, sono umiliati nell’onta di difendere i covi delle bestie malefiche, le case dei traditori il cui tanto male accumulato adipe trasuda la paura, la paura bestiale.

Come dovevano essere afflitti i nostri giovani soldati! E di qual disciplina, di quale abnegazione davano essi prova, proteggendo contro la giusta ira popolare coloro che li denigrano, che li calunniano, che tentano di avvilirli davanti ai fratelli e davanti ai nemici!

Gridiamo: «Viva l’Esercito!» È il bel grido dell’ora.

Fra le tante vigliaccherie commesse dalla canaglia giolittesca, questa è la più laida: la denigrazione implacabile delle nostre armi, della difesa nazionale. Fino a ieri, costoro hanno potuto impunemente seminare la sfiducia, il sospetto, il disprezzo contro i nostri soldati, contro i belli, i buoni, i forti, i generosi, gli impetuosi nostri soldati, contro il fiore del popolo, contro i sicuri eroi di domani.

Con che cuore inastavano essi le baionette a respingere il popolo che non voleva se non vendicarli!

Per fraterna pietà della loro tristezza, per carità della loro umiliazione immeritata, non li costringiamo a troppo dure prove. Rinunziamo oggi a ogni violenza. Attendiamo. Facciamo ancóra una vigilia.

L’altrieri, mentre uscivo dall’aver visitato il Presidente del Consiglio tuttavia in carica (rimasto in carica per la fortuna nostra, per la salute publica, a scorno dei lurchi e dei bonturi), quanta speranza, qual limpido ardore io lessi negli occhi dei giovani soldati a guardia!

Un ufficiale imberbe, gentile e ardito come doveva essere Goffredo Mameli, si avanzò e in silenzio mi offerse due fiori e una foglia: una foglia verde, un fiore bianco, un fiore rosso.

Mai gesto ebbe più di grazia, più di semplice grandezza. Il cuore mi balzò di gioia e di gratitudine. Io serberò quei fiori come il più prezioso dei pegni. Li serberò per me e per voi, per la poesia e per il popolo d’Italia. Verde, bianco e rosso! Triplice splendore della primavera nostra!

Date tutte le bandiere al vento, agitatele, e gridate:

«Viva l’Esercito

«Viva l’Esercito della più grande Italia

«Viva l’Esercito della liberazione

In quest’ora, cinquantacinque anni fa, i Mille si partivano da Calatafimi espugnata ed eternata nei tempi dei tempi col loro sangue che oggi ribolle come quel dei Protomartiri; si partivano, ebri di bella morte, verso Palermo.

Diceva l’ordine del giorno, letto alle compagnie garibaldine prima della marcia: «Soldati della libertà italiana, con compagni come voi io posso tentare ogni cosa».

O miei compagni ammirabili, ogni buon cittadino è oggi un soldato della libertà italiana. E per voi e con voi abbiamo vinto. Con voi e per voi abbiamo sgominato i traditori.

Udite, udite. Il delitto di tradimento fu dichiarato, dimostrato, denunziato. I nomi infami sono conosciuti. La punizione è necessaria.

Non vi lasciate illudere, non vi lasciate ingannare, non vi lasciate impietosire. Tal mandra non ha rimorsi, non ha pentimenti, non ha pudori. Chi potrà mai distogliere dal gusto e dall’abitudine del brago e del truogolo l’animale che vi si rivoltola e vi si sazia?

Il 20 maggio, nell’assemblea solenne della nostra unità, non dev’essere tollerata la presenza impudente di coloro che per mesi e mesi hanno trattato col nemico il baratto d’Italia. Non bisogna permettere che, pagliacci camuffati della casacca tricolore, vengano essi a vociare il santo nome con le loro strozze immonde.

Fate la vostra lista di proscrizione, senza pietà. Voi ne avete il diritto, voi ne avete anzi il dovere civico. Chi ha salvato l’Italia, in questi giorni d’oscuramento, se non voi, se non il popolo schietto, se non il popolo profondo?

Ricordatevene. Costoro non possono sottrarsi al castigo se non con la fuga.

Ebbene, sì, lasciamoli fuggire. Questa è la sola indulgenza che ci sia lecita.

Anche stamani taluno non era forse intento a rammendar le trame che il grosso ragno alemanno aveva osato intessere tra i freschi roseti pinciani d’una villa omai destinata alla confisca?

Noi non abbiamo creduto, neppure per un attimo, che un ministero formato dal signor Buelow potesse avere l’approvazione, dirò anzi la complicità del Re.

Sarebbero piombati su la patria giorni assai più foschi di quelli che seguirono l’armistizio di Salasco.

Il Re d’Italia ha riudito nel suo gran cuore l’ammonimento di Camillo Cavour: «L’ora suprema per la Monarchia sabauda è sonata».

Sì, è sonata, nell’altissimo cielo, nel cielo che pende, o Romani, sul vostro Pantheon, che sta, o Romani, su questo eterno Campidoglio.

Apri alle nostre virtù le porte

dei dominii futuri,

gli cantò un poeta italiano quando Egli, assunto dalla Morte, fu Re nel Mare. Questo gli grida oggi non il poeta solitario ma l’intero popolo, consapevole e pronto.

Romani, Italiani, spieghiamo tutte le nostre bandiere, vegliamo in fede, attendiamo in fermezza.

Qui, dove la plebe tenne i suoi concilii nell’area, dove ogni ampliamento dell’Impero ebbe la sua consacrazione officiale, dove i consoli procedevano alla leva e al giuramento militare; qui, d’onde i magistrati partirono a capitanare gli eserciti, a dominare le province; qui, dove Germanico elevò presso il tempio della Fede i trofei delle sue vittorie su i Germani, dove Ottaviano trionfante confermò la sommessione di tutto il bacino mediterraneo a Roma, da questa mèta d’ogni trionfo, offriamo noi stessi alla Patria, celebriamo il sacrifizio volontario, prendiamo il presagio e l’augurio, gridiamo:

«Viva la nostra guerra

«Viva Roma! Viva l’Italia

«Viva l’Esercito

«Viva l’Armata navale

«Viva il Re

«Gloria e vittoria

A ogni evviva il popolo unanime risponde con una immensa

acclamazione, dalle scalinate, dalla piazza,

dalle vie. Essendo recata su la ringhiera la spada di Nino

Bixio, l’oratore la prende, la mostra al

popolo, la snuda, e soggiunge:

Questa spada di Nino Bixio «secondo dei Mille», primo fra tutti i combattenti sempre, questa bella spada che un donatore erede di prodi offre al Campidoglio, o Romani, è un pegno terribile.

Vedetelo a cavallo, fuori di Porta San Pancrazio, il ferreo legionario dell’Assedio, che tiene abbrancato alla strozza il capitano nemico e lo trascina come preda in mezzo al suo battaglione, a gran voce intimando la resa, e solo, egli solo, fa prigionieri trecento uomini! Branca aquilina, anima battuta al conio de’ vostri Orazii, temerità di corsale ligure uso all’abbordaggio e all’arrembaggio, nato eroe come si nasce principe: esemplare italiano agli Italiani che s’armano.

Io m’ardisco di baciare per voi, su questa lama, i nomi incisi delle vittorie.

Una nuova immensa acclamazione sale nell’aria

accesa dal tramonto. Il grido «Guerra! Guerra

supera ogni altro clamore.

Sonate la Campana a stormo! Oggi il Campidoglio è vostro come quando il popolo se ne fece padrone, or è otto secoli, e v’instituì il suo parlamento. O Romani, è questo il vero parlamento. Qui oggi da voi si delibera e si bandisce la guerra. Sonate la Campana!

Il tumulto cresce. Alcuni cittadini arditi riescono a penetrare nella torre e suonano a stormo. Tutto il popolo, sotto il rombo, acclama la guerra.


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