Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Per la più grande Italia
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La beffa di Buccari

Pagine del diario

10 febbraio 1918.

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Pagine del diario

10 febbraio 1918.

Ci siamo affilati nella lunga attesa come sopra la ruota d’un arrotino difficile. Siamo tutti taglio e punta, fissi in una rude impugnatura: arnesi da adoperare sùbito. Credo che di rado uomini furono così compiutamente pronti a un’azione disegnata. Nulla manca; tutto è previsto. L’indugio non ci giova più; ci logora.

Passammo l’interlunio di gennaio ad affaticare il cielo, a ingozzar nebbia, a disputare dei pronostici, a sospirare novelle dell’altra sponda. La speranza e la disperazione ondeggiavano e fumigavano nello spazio come la chiarìa e la foschìa, come l’amore della vita e l’amore del destino. Ma la vita non aveva più pregio, come la posta in un gioco che non è più giocato. Anche gli altri rischi non ci attiravano. Eravamo omai presi dal fascino di quello solo. Non sognavamo se non quella piccola baia lontana che ha la forma di un’ocarina non d’argilla ma d’argento. Bisognava che l’ocarina avesse da noi i suoi buchi, come ha la sua imboccatura sonora tra la Punta Sersica e la Punta d’Ostro.

Non avevo mai tanto sofferto dell’ansia, neppure aspettando l’ora di Pola per notti e notti accanto all’apparecchio carico di bombe, neppure aspettando l’ora di Cattaro nel tedio della Puglia piana. Il rammarico diveniva talvolta quasi rimorso. Nel mio cuore quest’azione temeraria era dedicata ai miei due giovani piloti scomparsi, che solevano dimostrare ai dubbiosi come la temerità non sia se non una faccia della prudenza. Viventi, me l’avrebbero certo invidiata. Morti, l’avrebbero accettata come la sola offerta funebre degna di loro.

Ecco che stamani rivedo l’occhio felino di Maurizio Pagliano, verdastro, fosforescente, con l’iride tagliata dalla palpebra socchiusa. Rivedo la bocca franca di Luigi Gori, la marezzatura dei suoi capelli biondi su la fronte sfrontata, la sua baldanza di rissante partigiano fiorentino, la sua maniera di piantarsi su le due gambe nervose e di porre su i fianchi smilzi le sue lunghe mani gentilesche. Non posso imaginare quella loro fierezza rattristata e umiliata nella prigionia. Non posso imaginare spenta quella loro giovinezza sublime nei loro volti nudi, sotto le loro maschere di volatori.

Prendo commiato dalle due ombre come nell’ora che li separò dalla mia fortuna. Il mio dolore s’indurisce, si tempra. Ha omai assunto la mia stessa forma, s’è scolpito a mia simiglianza. Mi consolida, mi rafforza.

Stanotte mi sono svegliato all’improvviso balzando dal letto, col cuore in tumulto. Ho spalancata la finestra, e m’è parso di bevere il cielo, tanta era la mia avidità nel possederlo. Purità di diamante; stelle ingrandite come in un firmamento orientale; non la più lieve bava di vento; una certezza immobile.

Questa certezza io l’ho appresa a un tratto, non soltanto con lo spirito ma con tutti i sensi. Conoscevo queste precipitazioni della sorte, questo suo separarsi subitaneo dagli elementi avversi che l’intorbidano, per la forza di una volontà capace di dominarla e di costringerla. Ma l’influsso dell’uomo su l’evento non mi era mai parso tanto manifesto. Vedevo omai l’evento in forma solida tra le mascelle di Costanzo Ciano che, quando afferra, non lascia. Sentivo quasi la figura geometrica della volontà, con le sue facce nette e coi suoi spigoli taglienti, come quando ci riunivamo noi tre – io, Costanzo di Cortellazzo e Luigi Rizzo l’affondatore – a parlare del nostro disegno, a studiare il modo di vincere gli impedimenti, a masticare la nostra disdetta, per poi rimanere in silenzio, aderenti, con qualcosa di chi si disponga a spingere in ritmo con la spalla col petto e col pugno una massa inerte. «Se c’è tre uomini su questo ponte, ci sarà laggiù una nave di meno.»

«Questo è sicuro» diceva Luigi Rizzo toccandosi la bazza che è come una bietta aguzzata a guisa di conio, da ficcare nelle spaccature per fendere e rompere.

Ma la nave da guerra, che l’osservatore aereo affermava di aver riconosciuta tra i piroscafi, dipinta di grigio, sarà tuttora all’àncora nella baia di Buccari?

Non importa. Navigare necesse est, ora e sempre.

Mi preparo. Ecco che il corpo diventa più misterioso dell’anima. Le cure consuete diventano profonde come un rito funebre. Ho due vasetti d’unguento contro il gelo: uno è intatto, l’altro fu manomesso da Maurizio Pagliano per ungersi la faccia che già una volta gli s’era congelata in un volo sopra l’Altipiano. Esito per qualche attimo. Poi, a ungermi i piedi, mi servo di quello dov’è rimasta l’impronta delle due dita: dell’indice e del medio. La pietà fraterna mi trema nel cuore. Penso ai tanti miei compagni di Cattaro già perduti. Stanotte il mio corpo può essere un pallido sacco d’acqua salsa, in fondo al Quarnaro, o rigettato sopra una spiaggia di Veglia, di Cherso, dell’Istria.

Non sono forse maturo per la morte?

Il mattino è nuziale. Il bacino è cangiante e soave come la gola del colombo. Le case hanno qualcosa di femineo, simili a donne che si levino sul gomito e guardino attraverso le cortine d’oro filato. Scorgo sul cilestro dell’acqua le nostre saettìe grige coi loro siluri dal muso di bronzo, che luccicano, bene unti come i miei piedi nelle calze di carta chinese. Vedo la dirittura della riva, la vecchia pietra degli approdi e delle partenze, e lungo la riva i marinai allineati, la bella materia eroica.

Dritto nel canotto, sono issato vigorosamente dalla mano tesa di Luigi Rizzo che ha già la sua casacca di pelle nera e la sua berretta corsaresca. In un attimo la coesione si forma. Tra equipaggio e capo c’è la stessa rispondenza che tra innesco e percotitoio, la stessa aderenza che tra siluri e tenaglie.

Parlo agli uomini in riga contro un muro di mattone che ha il colore del sangue aggrumato. Calcano coi loro calzeroni di tela grossa un’erba trista di carcere, mal nata tra selce e selce. E il resto dei corpi sembra asciutto e leggero come l’esca, come una sostanza che pigli fuoco sùbito.

«Marinai, miei compagni, questa che noi siamo per compiere è un’impresa di taciturni. Il silenzio è il nostro timoniere più fido. Per ciò non conviene lungo discorso a muovere un coraggio che è già impaziente di misurarsi col pericolo ignoto. Se vi dicessi dove andiamo, io credo che non vi potrei tenere dal battere una tarantella d’allegrezza. Ma certo avete indovinato, alla cera del nostro Comandante, che questa volta egli getta il suo fegato più lontano che mai. Ora il suo fegato è il nostro. Andiamo laggiù a ripigliarlo

Un solo sorriso nei volti conci col sale scopre le dentature chiare che rilucono come il lampo della lama tirata fuori dal fodero di cuoio bruno.

«Siamo un pugno d’uomini su tre piccoli scafi. Più dei motori possono i cuori. Più dei siluri possono le volontà. E il vero treppiede della mitragliatrice è lo spirito di sacrifizio.

Da poppa a prua, ordegni ed armi, vigilanza e silenzio; niente altro. La nostra notte è senza luna; e noi non invochiamo le stelle. V’è una sola costellazione per l’anima sola: la Buona Causa

Ora i volti sono gravi, intenti, non riscolpiti nell’osso e nel muscolo ma nella fermezza della devozione. Le bocche si serrano. La luce è tutta negli occhi.

«Per lasciare un segno al nemico, portiamo con noi tre bottiglie suggellate e coronate di fiamme tricolori. Le lasceremo a galla, stanotte, laggiù, nello specchio d’acqua incrinato, tra i rottami e tra i naufraghi delle navi che avremo colpito.

In ognuna è chiuso questo cartello di scherno:

«In onta alla cautissima flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l’inosabile.

E un buon compagno, ben noto – il nemico capitale, fra tutti i nemici il nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro – è venuto con loro a beffarsi della taglia

La lama chiara esce di nuovo dal fodero bruno, e lampeggia. È un lampo più largo: uno sprazzo di riso silenzioso che si prolunga di dentatura in dentatura, quasi alla medesima altezza. È un riso che già gusta il sapore della beffa. I giovani marinai si urtano col gomito e si guardano con la coda dell’occhio.

«La nostra impresa è tanto audace che già questa partenza è una vittoria sopra la sorte. Per ciascuno di voi l’averla compiuta sarà un onore perpetuo. Domani il vostro nome, dorato come il siluro e diritto come la sua traiettoria, traverserà l’aspettazione della Patria.

Ciascuno dunque oggi deve dare non tutto sé ma più che tutto sé; deve operare non secondo le sue forze ma di dalle sue forze.

Lo giurate? Compagni, rispondetemi

È come lo scoppio d’una fiamma repressa.

«Lo giuriamo. Viva l’Italia

Contro quel muro di sangue grumoso, gli uomini ardono. Sopra quella magra erba di cortile, l’animo irrompe a superare la statura. Tutti sono grandi.

Sono i marinai d’Italia, sono il fiore delle nostre leve, sono il sale della nostra guerra. Sono quelli che sempre combattono a oltranza, comunque armati, dovunque mandati, nel mare e nella laguna, nella barena e nella passerella, nella petraia e nella macchia. Sono quelli dell’Isola Morosina e quelli di Parenzo, quelli di Grado e quelli della Sdobba, quelli di Monfalcone e quelli di Durazzo. Sono i buoni figliuoli che vanno incontro alla morte melmosa ridendo di allegria marina perché chi li conduce, per tener fermo l’elmetto, s’è passata sotto il mento una cima come in una puleggia.

Ve n’è di tutte le province, di tutte le contrade, di tutte le spiagge, prole dei Tre mari, una e diversa. Ve n’è della Lunigiana e della Romagna, dell’Umbria e della Marca; ve n’è della Sicilia e dell’Emilia, della Liguria e dell’Etruria, della Terra di Lavoro e della Terra d’Otranto.

Uno è di Viareggio. E mi sembra di averlo incontrato fanciullo per la sabbia liscia in uno di quei canori mattini delle Laudi di Alcyone quando le Alpi Apuane vestite d’aria s’accostavano e menavano tra mare e cielo una canzone a ballo, tutte inchinate verso ponente nel giro, pigliando per la mano la mia musa squammosa.

Un altro è di Vietri, è di quella costiera di Amalfi divinissimamente modulata dalla voce glauca delle Sirene. E sta come uno che sogni o trasogni, perché la Fata Morgana crea soltanto per i suoi neri occhi di morituro l’imagine del paese come un frutteto florido che galleggi sul fiore del mare.

Un altro è dell’isola esule di Ponza. E credo ch’egli fosse al remo nel legno di Ulisse quando il re isolano «piloto di tutte le sirti» entrò nell’ombra magica del Circeo.

Un altro porta stranamente il nome dello stipite d’una dinastia gloriosa, il nome di Umberto Biancamano; ma è concittadino dei vecchi crocifissi Disma e Misma, è nato nella bianca Gallipoli, all’ombra dei più pingui ulivi salentini. E m’imagino, per propiziare la bonaccia, ch’egli abbia portato su la sua spalla, dalle posture scolpite nella roccia alle pile regie, un grande otre di quell’olio d’oro lieve.

Un altro è di Montalcino, alto svelto e duro come una torre della sua rocca. E, stando egli in piedi con una berretta di podestà, scopro dietro di lui la cruda terra senese, vedo lo sfondo della Val d’Orcia mutola e severa, con le sue crete, con le sue rupi, con i suoi cerri, con i suoi cipressi, con i suoi casseri, con le sue pievi, con le sue badie, con le sue grance, e la virtù civica inerpicata e abbarbicata sul monte comunale ardervi l’ultimo stendardo della libertà e infrangervi l’ultimo conio della moneta che porta l’Assunta e la Lupa romana.

Quanto è bella l’Italia!

C’imbarchiamo. Ridiventiamo taciturni e attenti. Ciascuno prende il suo posto; e nel suo posto non ha più spazio di quello che avrebbe se fosse messo fra le quattro assi finali. Il bacino è chiarissimo, appena appena soffuso d’indaco, puro come il bianco dell’occhio d’un bimbo. Riceviamo il saluto delle siluranti ormeggiate, passando al traverso. Chi non c’invidierebbe, se sapesse? Chi, se sapesse, non ci farebbe il segno del commiato ultimo?

Distribuisco agli uomini le piccole bandiere, poco più larghe d’un cuore maschio, simili a «faville della bandiera grande», della medesima misura di quelle che portavano sul petto i miei «lupi» del battaglione di Giovanni Randaccio al Veliki, al Faiti, al Timavo, della medesima qualità di quelle su cui fu primamente inscritto l’alalà di guerra la notte che primi partimmo a volo per gridarlo su Pola in fiamme, della medesima santità di quella che ritrovai chiusa nel pugno del giovine eroe carsico Giuseppe Cangialosi esanime sul sasso della dolina difesa da un orlo inespugnabile di sangue.

Le mani si tendono avidamente come se io spezzassi il pane ai famelici. La mano del fochista sorge dalla cameretta imbottita, prima che apparisca la testa armata di cuffia. Sentiamo che il battito di tutti i cuori s’accelera. Eccoci unanimi al mattino come saremo a mezzanotte.

È un vero sacramento eucaristico, è la più intima e compiuta comunione dello spirito con l’Italia bella. Non occorre la parola consacrante perché questa ostia tricolore si converta, per la nostra fede, nella bellezza vivente della Patria.

Siamo purificati. Siamo distaccati dalla riva e dall’abitudine, separati dalla terra e da ogni cura comune, dalla casa e da ogni agio inutile, dall’amore profano e da ogni desiderio vile. È qualcosa come la tregua della poesia. Mi ritornano nella memoria le parole di un’eroina tragica innanzi alla morte: «Son fuoco e aria. Gli altri miei elementi io li do alla inferior vita». Ma il precipizio del dramma e il ratto dell’ode non sono comparabili a questa forma di spiritualità vigilante. L’arte non me l’aveva mai concessa, e neppure la libertà. Il pensiero del ritorno appesantisce anche il più libero viaggio, la più spedita corsa. Noi siamo immuni dal pensiero del ritorno; e per ciò, avendo con noi armi tanto pesanti, ci sentiamo tanto lievi: «fuoco e aria».

Guardo un nocchiere ripiegare divotamente la piccola bandiera come l’abitino della Vergine che forse egli porta al collo, sotto il suo saio. Non ci fu un Beato che soleva ripiegare la propria carne come si ripiega un mantello per metterlo da parte? Siamo qui dieci uomini e abbiamo a bordo dieci salvagente di capecchio; ma nessuno pensa a cingere il suo o crede di potersene servire in un certo momento per la sua salute. Così è di queste dieci carcasse abbandonate.

Però quanto è mai dolce il viso del mattino!

Il comandante Costanzo Ciano ci raggiunge mentre si sta compiendo il rifornimento della benzina. Lo vediamo torreggiare sul pontile, nella sua gran casacca di pelle fosca. È l’architettura umana della sicurezza. Tra le spalle quadre e la collottola rilevata, può portare qualunque peso di obbedienza o di comando agevolmente. Se nel Siciliano di Milazzo l’osso del mento è un conio fatto per penetrare e fendere, l’osso mascellare di questo Toscano di Livorno sembra avere la potenza della morsa quando la sua vite la serra. Tiene stretta perfino la parola, in una bocca sinuosa e profonda che lascia appena intravedere i denti eguali e fitti. Sa ridere come un fanciullo, e sa ridere d’un riso che spaccia. Pare che i suoi gesti abbiano omai acquistato qualcosa degli ordegni notturni ch’egli inventa e adopera. La sua mano in sogno deve tagliare continuamente catene da ostruzione, come una sega elettrica.

Ecco che con lui siamo tutti sicuri di arrivare al bersaglio. Siamo già padroni del Quarnaro, mentre ci dirigiamo per le rotte di ostro, in una bonaccia covata da una foschìa sempre eguale.

Comincia l’eguaglianza della corsa, fra mare e cielo. Attenzione a ogni apparenza del mare. Attenzione a ogni apparenza del cielo. Se fossimo avvistati da una nave nemica, se fossimo scoperti da un esploratore aereo, dovremmo rinunziare all’impresa; che non è se non una sorpresa, e una sorpresa mortale.

Le ore filano. Il fervore della scia accompagna la musica dei miei pensieri. Di tratto in tratto una bùccina suona nel vento. Non è quella dei Tritoni, se bene una torma di bei delfini danzi al nostro traverso di sinistra. Non è se non il nero megafono, che trasmette le correzioni di rotta.

Un marinaio m’improvvisa un giaciglio a poppa, con tre salvagente. Mi distendo supino, col capo contro la gabbia delle due bombe da sommergibili. La foschìa non si dirada. Fa dolco. C’è nell’aria non so che sentimento di mutazione. Si sente che il buon tempo è «agli sgoccioli», come dice il Comandante. C’è il caso che domani si guasti. L’ultima notte utile è forse per noi la prossima. Se dovessimo tornare indietro, perderemmo il giuoco.

Non torneremo indietro. Memento Audere Semper leggo su la tavoletta che sta dietro la ruota del timone: il motto composto poco fa, le tre parole dalle tre iniziali che distinguono il nostro Corpo. Il timoniere ha trovato sùbito il modo di scriverle in belle maiuscole, tenendo con una mano la ruota e con l’altra la matita. «Ricòrdati di osar sempre.»

Mi assopisco. Ho il sole in faccia. Distinguo nella trasparenza delle palpebre i ragnateli sinistri tessuti in fondo alle mie orbite.

Odo, sul croscio dell’onda spumosa, un uomo accosciato accanto a me masticare il suo pane di guerra.

Sento che i miei piedi si raffreddano. Ricevo uno spruzzo di sale sul viso. Apro gli occhi.

S’è levata la brezza da ponente.

«È una bavicciuola che ci fa piuttosto bene» dice tranquillo Luigi Rizzo, che vedo in piedi nero fra le cappe delle due mitragliatrici di prua.

Il mare è lievemente mosso. La navicella danza non senza grazia. Sono le due del pomeriggio. Ecco che facciamo l’accostata e mettiamo la prua sul nemico.

Da quest’ora fino al tramonto, bisogna spiare sempre più attentamente l’aria. Il torpediniere e il sottonocchiere, accanto a me, stanno di continuo col naso per l’in su, ad aguzzare le pupille. Il cielo è deserto e pallido. Il mare è deserto e pallido. La monotonia si prolunga. Da nessun amante, neppure da Tristano di Bretagna, la notte fu mai invocata con tanto ardore.

Il mare è ora mosso da borea-levante. La foschìa è sempre bassa ma folta. Che tempo ci sarà dentro il Quarnaro? L’ansietà ci travaglia. Si fa consiglio. La bùccina nera trasmette la voce. Non può essere se non la voce del coraggio ignudo. Veggo le potenti spalle quadrate di Costanzo Ciano di contro al cielo dove sgorga la prima stella.

Grido: Memento audere, memento audere!

È un latino che tutti i marinai intendono, meglio che se fossero tutti addottorati in Salamanca.

L’oro grasso dei siluri si scurisce, diventa fulvo. A ogni tratto, Beppe Volpi, il capotorpediniere, li esamina, li tasta, li tenta con la sua chiave curva, quasi li blandisce, come se volesse persuadere alla pazienza una coppia di bestie da preda impazientissime di partire. Ha due occhi rapinosi di pirata barbaresco, tanto vividi che spiccano nella faccia scura con l’intensità della pasta vitrea colata tra i rilievi dei cigli nelle teste antiche di bronzo.

La prua è ben dritta contro la gola del nemico. Avvistiamo l’isola di Unie nella sera stellata. Accostiamo per passare fra Unie e la Galiola, dove incagliò Nazario Sauro.

L’ombra dell’impiccato palpita per qualche attimo tra siluro e siluro, come una bandiera in gramaglia.

Al traverso di Punta Sottile facciamo rotta nel canale di Farasina, aumentando la nostra velocità.

L’ombra ci lascia con un gesto di promessa. Torna a Pola, per sorridere dalla sua larga faccia guatando la flotta cautelosa che senza dubbio seguiterà a covare la glorietta di Lissa.

Ma noi penetriamo nel Quarnaro ben munito, ben guardato. Nel Quarnaro di Dante andiamo mallevadori del Patto di Londra.

Abbiamo lasciato a dritta la Levrera. Seguiamo la rotta di tramontana. La foschìa è così fitta che non riusciamo a scorgere né la costa di Cherso né quella dell’Istria. Angelo Procaccini che sta al timone, un Veneto di Mestre tenuto a battesimo da Angelo Emo di San Simeon piccolo, fiutando il vento con le sue nari sagaci di corsaro legittimo, mi dice: «Non sente l’odore della terra?».

Poi soggiunge, più piano: «Odore di lauro».

Il cuore mi rintocca. È forse un’allusione a quel lauro amaro tagliato in sogno tra Pola e Albona dal poeta navale della Tragedia adriaca? Voglio anch’io sentire l’odore del lauro. E mi ricordo della lontana notte di ottobre, dell’approdo di Fiume dov’ero venuto per leggere il poema di annunziazione ai miei attori randagi, messaggero d’Italia.

Dove io venni con una nave di parole, ecco che torno con un guscio armato, da combattente, tra combattenti. Lode al Signore Iddio grande e tremendo! Non è mai tardi per tentar l’ignoto. Non è mai tardi per andar più oltre.

Ecco che la mia poesia vive. Ecco che io vivo il mio Credo. Ecco che non ho penato, lottato, sperato, aspettato per nulla. Ecco che il mio canto ritorna dalla profondità del mare e del destino.

Il timoniere tiene la ruota con le due mani e china un poco la faccia e cerca il verso nella memoria.

«E chi mai misurò l’acque col pugno?

Taluno ben le misurò con l’animo.

Stirpe della Ventura, ascolta, ascolta:

noi le misureremo per la tua

giovine forza, i miei compagni ed io;

noi, da questo Adriatico selvaggio

che t’indura ed è tuo come il tuo Santo,

noi le misureremo col più grande

animo; andremo lungi a riconoscere

il dominio assegnato alla più grande

speranza

Avanti, avanti! Le coste si serrano. Riconosciamo la bocca di Fianona e il promontorio di Prestenizze.

Penetriamo nella stretta fauce del Quarnaro, come tre spine aguzze.

Il canale di Farasina, ben munito, ben guardato, con i suoi proiettori, con le sue batterie, con i suoi lanciasiluri, con i suoi sbarramenti, con ogni sorta di difese e di ostacoli, ecco che noi sappiamo violarlo.

Ordinati a triangolo, una prua, due prue, stando noi dritti in gruppo sul ponte, neri contro la notte, tagliamo nettamente il pericolo che non s’illumina e non tuona. 

«Noi saremo i precursori

che non tornano, i méssi che non tornano

perché recare vollero il messaggio

così lungi che, a vespero d’un giorno

fugace, trapassarono il confino

d’eternità e senza riconoscerlo

entrarono nei regni della Morte

Trapassiamo il Capo Jablanac, la punta boreale di Cherso.

Entriamo nel Golfo di Fiume come nelle acque d’una primavera notturna, come in un incantamento stellato. Qualcuno di noi pensa al lido felice di Posillipo nella stagione del canto.

Da Volosca a Zùrcovo, tutta la costiera è coronata di luci come per una festa votiva. I riflessi innumerevoli raggiungono la nostra scia e vi si frangono. La bonaccia è tiepida come dopo il levarsi delle Pleiadi. Ogni foschìa è vanità. L’Orsa brilla straordinariamente sopra la canna nera della mitragliatrice di poppa. È per questa notte la costellazione della Buona Causa.

Aumentiamo la velocità, facendo rotta verso la costa di Buccari. Alla distanza di circa un miglio, rallentiamo. Su la nostra dritta sono visibili le alture di Veglia. 

Ed ecco che dal mio sentimento musicale si leva il ricordo dei due meravigliosi violini italiani, dello Stradivari e dell’Amati, che sopravvivono laggiù, nella città vescovile cinta di torri venete.

È mezzanotte.


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