Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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La beffa di Buccari

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11 febbraio 1918.

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11 febbraio 1918.

Nasce il nuovo giorno, con un numero di data caro alla mia superstizione. Navighiamo da quattordici ore. Teniamo da cinque ore le acque del nemico. Gli siamo entrati nella strozza, e poi nel profondo stomaco. Siamo un pugno d’uomini sopra tre brulotti disperati, soli, senza alcuna scorta, lontanissimi dalla nostra base, a una sessantina di miglia dalla più potente piazza marittima imperiale, a poche miglia dalle superate difese di Farasina, a poche centinaia di metri dalle batterie di Porto Re. Un allarme, e andiamo in perdizione.

Bisogna che io costringa il mio spirito a questa realtà, per poter equilibrare sul filo teso del rischio la mia gioia silenziosa, tanto la notte sembra inoffensiva e amica.

Credo che mai, da che faccio la guerra, il sogno abbia tanto perfettamente aderito all’azione.

Ora il silenzio è il nostro timoniere. Ma una musica senza pause ci conduce, simile al fluire delle nostre arterie. I motori rallentati sembrano un accompagnamento di contrabbassi in sordina. Non c’è un archetto per lo Stradivario di Veglia? Ecco una vera serenata italiana, come sul Canalazzo. L’Austriaco ha ragione. Non siamo buoni ad altro. Il Volpi intanto esamina anche una volta il siluro di dritta, come il sonatore pone la gota contro il manico dello strumento e volta il bischero.

Costeggiamo a meno di cinquanta braccia, a un trar di cerbottana idilliaca. La costa è posata leggermente sopra un mare d’olio. Il cannoniere Umberto Biancamano pensa che l’olio non è tanto quieto nelle pile di Gallipoli; e credo che sarebbe contento di misurarlo con l’asta di bronzo come fa il gabelliere salentino sotto la porta, prima di lasciarlo colare per la lunga manica di pelle nel bottame.

Gli occhi delle stelle sono venuti nella nostra scia quieta, e accennano. Ho le ginocchia sopra un salvagente cedevole; ho tutto il corpo in pace, come quando ci si sveglia dal sonno del giusto; e questa misteriosa felicità di cui si riempie il mio cuore non posso riconoscerla se non dalla presenza di un’anima che ha lasciato la sua soma a dormire laggiù in una dolce collina d’Abruzzo folta di cipressi e di mandorli. So quale di quei mandorli fiorisce.

Non un lume, non un rumore, non un indizio umano. Ecco le alte aste d’una vedetta da tonnara, ma l’uomo non c’è. Se ci fosse e desse l’allarme, non saremmo toccati tanto a dentro quanto da questo sommesso anatrare che monta dal vallone come nelle albe selvatiche della nostra Maremma quando si sta in padule alla caccia del barchino. Ci guardiamo negli occhi, all’albore delle stelle, con un sorriso che è veramente paesano, con un sorriso del paese di laggiù; e ci comprendiamo. L’anima è tesa come l’orecchio.

Ed ecco che, su quell’anatrare sommesso, una piccola voce ci tocca la cima del cuore. È un gorgheggio timido, è come la prima prova di un usignoletto inesperto. Abbiamo quasi la tentazione di fermare i motori, per meglio stare in ascolto. Il verso si fa più sicuro e si svolge. I marinai sono tutti chini da una banda, tutti attenti al traverso di sinistra. Uno vuol sapere da me che specie di uccello sia.

«Canta in italiano» gli rispondo.

Allora si vede una ilarità infantile rilucere nel bianco degli occhi. Allora si vede il riso muto sussultare nelle grandi spalle di Costanzo Ciano che è ritto in prua a scrutare la costa per ritrovare l’imboccatura.

«Canta in italianorimormora estatico il torpediniere di Montalcino sotto la sua berretta di podestà. E penso che ha in bocca, col sapore della Fonte Gaia, la parlatura santa della madre Siena, la favella dell’antica suora in Maria dolce, la melodia delle donne di Fontebranda che cantilenano ai lavatoi schiumosi.

Ecco il becco dell’ocarina. Siamo alla stretta. La mezzanotte è passata di trentacinque minuti. La canzone è finita. Prepariamo un’altra musica. Lo scafo è tutto una struttura di volontà occhiuta e armata. Il senso delle mani istintivamente si adatta già agli ordegni da adoperare. Ci sono reti? ci sono sbarre?

Si rallenta. Si tenta. Nessuna specie di ostruzioni. Si rasenta la Punta Sersica. Si naviga a poche braccia dalla costa di ponente. Porto Re è al buio. La vigilanza giace. La batteria tace.

«Che buona gente, questi Austriaci!» mi susurra Luigi Rizzo accostando al mio orecchio quella sua bietta mal rasa che gli è servita a fendere il fianco della Wien con un colpo solo. Ma non dice «buona gente» in verità. Mi scodella gli attributi di Bartolomeo Colleoni. Gli prendo il polso, glielo tasto. Ride, abbassando i lunghi cigli su i suoi occhi saracini. È il polso quieto di un Arabo che abbia trascorso la sua esistenza a fumare e a sonnecchiare addossato a un muro bianco.

Troveremo la nave avvistata dall’esploratore celeste? Senza offendere la modestia: ora che siamo qui, non meriteremmo di mandare a picco una squadra intera?

Siamo dentro la baia nemica, siamo proprio in fondo al vallone di Buccari, nella sua estremità settentrionale, di contro all’ancoraggio, inosservati, insospettati! Non erravo imaginandomela in forma di un’ocarina d’argento, tanto l’acqua liscia è pregna di luce stellare.

Il Comandante sta ritto a prua per riconoscere i bersagli. Ha una scintilla d’ilarità nell’angolo dell’occhio; e la comunica a tutto l’equipaggio. Scrolla la testa pertinace e si volta brusco, quando s’accerta che la nave da guerra non c’è. Le masse di quattro piroscafi si disegnano contro l’altura. Calma e silenzio. A Buccari nessuna finestra è illuminata.

Accostiamo ancóra. Gli ordini sono dati con la voce, da bordo a bordo.

Ciascuna prua prende la sua posizione per il lancio.

È un’ora e un quarto dopo la mezzanotte.

Ho le mie bottiglie sotto la mano, pronto alla beffa: forti bottiglie nerastre, di vetro spesso, panciute, col cartello dentro avvolto in rotolo, scritto di mio pugno, scritto di indelebile inchiostro. Le ho preparate io stesso, con i due sugheri da sciàbica, con le tre lunghe fiamme tricolori fermate intorno al collo dallo spago e dalla cera. Non altrimenti il poeta Titiro incerava i suoi nodi collegando le canne diseguali della sua fistola oziosa.

Ma il poeta non si ricorda se non d’una sua remota parola di navigante inebriato:

«Tutta la vita

dell’anima mia fu vissuta

perché quest’ora splendesse

Il cuore balza al frullo gagliardo del primo siluro che lascia la tenaglia e parte. Ora siamo tutti carica e macchina, innesco e percotitoio.

Uno all’albero di trinchetto.

Uno al centro sotto il fumaiolo.

Gli attimi sono eterni. S’ode la bestia dal muso di bronzo che ronfa contro il bersaglio raggiunto, con le eliche in moto, continuando a scaricare aria rabbiosa, impigliata di certo dentro una rete protettrice.

Uno al centro del secondo.

Uno al centro del terzo.

Ancóra s’ode il gran ronfare, il gran travagliare sott’acqua, laggiù, contro la carena, come quando un balenotto viene ad arenarsi in un basso fondo o sopra un banco e soffia e sfiata e si sbatte. Siamo di metallo anche noi, abbiamo il tritòlo nella testa, nel corpo la camera segreta coi congegni di governo.

Uno al fumaiolo del quarto.

Uno al fumaiolo del quarto.

L’uno e l’altro percorrono la stessa traiettoria, raggiungono il bersaglio nello stesso punto. Il primo riesce a squarciare la rete, il secondo passa attraverso la squarciatura e scoppia.

Alalà!

Una Vittoria latina, ch’era sommersa, si riscuote con un sussulto potente, sprigiona dal fondo una grande ala acquosa e la sbatte su la faccia della notte.

Alalà!

I tre gusci danzano una danza frenetica come tre delfini invasi dal furore nautico di Bacco.

Alalà!

Pel mio orecchio sottile è come una scossa di terremoto nella bottega di un vasaio ben fornito. Mille e mille orciuoli, mille e mille piatti, d’ogni sorta stoviglie, rotolano tutt’insieme e si frantumano con un enorme acciottolìo. Scorgiamo la massa scura inclinarsi tra qualche battito di bagliori come d’occhi che tentino di aprirsi e si richiudano per morire. Un vocìo confuso, un gridìo sparso, un accendersi e un agitarsi di fanali, colpi di fuoco rari, qua e : l’allarme!

Poso la prima bottiglia nell’acqua, con le sue belle fiamme spiegate. Ha l’aria giuliva di una piccola balia brianzola acconciata coi suoi pettini e i suoi nastri, che galleggi dalle poppe in su e s’allontani ballonzolando. Luigi Rizzo si china a guardarla, la segue con gli occhi burlevoli, e non può tenersi dall’imitarla, come un bambino che senza volere imita il giuoco della sua marionetta. Poso la seconda bottiglia nella rotta del ritorno, prima di doppiare la Punta di Babri. Vedo la terza agitarsi nella nostra scia insolente, mentre usciamo dalla stretta e ci dirigiamo come padroni verso l’imboccatura della baia passando dinanzi alla batteria di Porto Re che s’illumina senza tuonare. L’allarme fa cecca, come un vecchio archibugio carico di polvere umida. Luigi Rizzo pensa al Colleoni.

Eccoci fuori, eccoci tutti in piedi. Respiriamo le stelle, come il fabbro respira le faville della sua fucina. Il cielo è stellato, il mare è stellato, lo spirito è stellato. Se bene la seconda ora dopo la mezzanotte sia per spirare, le luminarie della costiera da Zùrcovo a Volosca non sono spente. Il vento della velocità è a noi acerbo di primavera precoce. Se l’allarme è trasmesso almeno alla Farasina, andiamo incontro a un’altra ora bella.

Ci bisogna ripassare per la strozza. Questo nemico non stritola ma rece. Luigi Rizzo non si sazia di lodarne la triplice bontà, sotto il vocabolo del condottiere bergamasco.

Alle due e cinque minuti accostiamo per imboccare il canale. Non abbiamo altre armi che due mitragliatrici a prua e una a poppa. Sono pronte, con le loro cassette di nastri. Ma per tutte le coste, a dritta e a manca, non appare indizio di allarme. Cerchiamo di conservare la formazione a triangolo, dando la voce. La terza silurante perde velocità, non ci può seguire.

D’improvviso, all’altezza di Prestenizze, parte un fuoco di fucileria da qualche posto di vedetta. Nessuno curva il capo. Nel fosso di poppa c’è il solo timoniere. Uno scoppio di facezie risponde. Per giunta, accendiamo il fanaletto di poppa e rallentiamo, la terza saettìa non essendo più in vista dietro di noi.

Che accade? un’avaria? di che sorta?

La seconda è a portata di voce. È comandata da Profeta de Santis di Chiusi, da un imperturbabile Etrusco di poche parole trasmigrato al lido ligure e temprato nelle virtù della razza assuefatta ai mali. Udiamo il suo accento netto e breve come il suo lineamento. Egli riferisce che si tratta d’un fallo al motore di sinistra e che Andrea Ferrarini ha fermato lo scafo in mezzo al canale perché i suoi due fochisti attendano a riparare il guasto.

Questo buon Ferrarini di Mantova comanda il terzo equipaggio. È un vecchio navigatore brizzolato, pepe e sale, col naso rabbuffato in su, di collo corto, di ganascia risentita, di tinta accesissima, che pare colato dal più sugoso pennello di Jacopo Velasquez. La sua esperienza arguta eguaglia il suo coraggio allegro. Poiché s’è trovato «in ogni stretta» come Lucio Polo, egli si caverà anche da questa. Pretende d’esser rimasto trent’anni senza bevere una gocciola d’acqua. Gli accadde d’ingoiarne a Grado due sorsi, nello sbaraglio, e fu per morirne. Prima di consentire a farsi spugna del Quarnaro, tenterà ogni scampo. È un vecchio Ulissìde imbaccato ma di molti ingegni.

Tuttavia non esitiamo a invertire la rotta per ricercare la ritardante, deliberati di mandarla a picco e di prendere a bordo l’equipaggio, se non sia possibile riparare il guasto in breve.

Ed ecco il meglio della beffa o il meglio della baia, se valga il bisticcio. Ripassiamo davanti a Prestenizze, ci ricacciamo nella strozza del nemico! Le sentinelle non tirano più. Non possono credere a tanta impertinenza. Certo la nostra sfacciata manovra le mette nel dubbio che si tratti di naviglio austriaco.

Per tendere gli orecchi, per meglio cogliere i rumori, ci fermiamo anche noi in mezzo al canale di Farasina ben munito, ben guardato; e restiamo fermi, da padroni, un lungo quarto d’ora. Memento Audere Semper.

Si ascolta. Nulla. Si risale ancóra a tramontana. La ricerca è inutile. Non si scorge segnale di soccorso, non s’ode richiamo. È probabile che, riparata l’avaria, l’astemio d’acqua abbia proseguita l’allegra sua rotta di ostro. E per la quarta volta passiamo sopra gli sbarramenti, ridendo delle sentinelle sbalordite.

Abbiamo o non abbiamo preso possesso del Quarnaro? La scia temeraria ha trasferito molto più a levante i termini danteschi e giustamente riempito la lacuna del Patto di Londra.

Possiamo coricarci, con la faccia rivolta alla costellazione della Buona Causa. Ritrovo il mio giaciglio di capecchio, riappoggio il capo alla gabbia delle bombe. Un marinaio mi stende sul corpo la sua coperta bruna per proteggermi dalla spruzzaglia. Poi si accoscia contro il treppiede e mi fa la guardia, pronto ad agguantarmi se per caso io mi rivoltoli. Sono su l’orlo.

Ma non dormo. Assaporo il sale e la mia malinconia. Dopo il momento eroico, come dopo la voluttà, l’anima è triste.

Alla Galiola ci aspetta l’ombra del capitano Sauro. Non ha perduto il suo riso franco, anzi l’ha più luminoso. Ci rassicura. Nessun pericolo di sorpresenotturnemattutine. La flotta cova sempre.

Poco innanzi le cinque, nella nebbietta brilla il segnale della terza silurante che lietamente si ricongiunge alle compagne. La trinità navale è dunque incolume. Il triangolo marino dell’ardire si riforma, su l’Adriatico che biancica come una Via lattea dove ogni gocciola sia una stella di promessa.

Lasciamo dietro di noi le soglie del Quarnaro posseduto. La nostra piccola bandiera quadrata si muove come una mano che faccia un continuo cenno. Ha il rosso rivolto verso l’Istria che mi par di rivedere in sogno, simile a un grappolo premuto o a un cuore pesto.

Ho l’amaro del sale in bocca, come quando nel buio la lacrimazione dell’occhio infiammato mi scendeva fino alla commessura delle labbra arse.

L’alba non è eguale per tutti.

Dall’Italia navighiamo verso l’Italia.



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