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Giacomo Alberione, SSP
Ut Perfectus sit Homo Dei

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La scelta

     Può ogni giovane scegliere l’una o l’altra via indifferentemente, o per volere dei genitori, o per ambizione o comodità? No, occorre la vocazione. Secondo la Sedes Sapientiæ, emanata dalla Santa Sede, vi sono tre vocazioni: la vocazione semplicemente religiosa (vita contemplativa), la vocazione apostolica (vita attiva),


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la vocazione sacerdotale. Ora il Discepolo ha le due prime: vocazione alla santità e all’apostolato; il Sacerdote religioso ha di più la terza, cioè anche la sacerdotale.

     In che convengono? Entrambi devono possedere salute fisica, pietà, intelligenza, volontà provata di attendere alla perfezione, desiderio sincero di compiere un apostolato per la salvezza delle anime.

     Come differiscono? Per le inclinazioni che provengono dalla natura e dalla grazia: nella scelta dei mezzi. Un giovane pensa a celebrare, battezzare, confessare, predicare, assistere malati, alla redazione, a far catechismo, a dirigere le anime, ecc.; l’altro ama la sua macchina, la brossura, la compositoria, la propaganda con vari mezzi. E queste inclinazioni si mostrano nel compiere prompte, faciliter, delectabiliter,1 con spirito soprannaturale, superando le immancabili difficoltà. Il primo ha pure la terza vocazione; il secondo le prime due.

     I genitori, i tutori, in generale i secolari, sono incapaci o pessimi consiglieri su la vocazione; conoscono tante cose della vita coniugale, non la vita religiosa, apostolica, sacerdotale. Il farsi santo non dipende dal fare una cosa o l’altra; ma dal fare bene il volere di Dio sopra ognuno di noi. Il chiamato alla vita del Discepolo diverrebbe un Sacerdote insoddisfatto e non soddisferebbe, pur sforzandosi e facendo qualche cosa. Lo stesso sarebbe del Discepolo che era chiamato al Sacerdozio.

     La scelta deve farsi prima della Professione; non si ammette da noi il passaggio dal Discepolo allo stato clericale; invece agli alunni chierici, anche se Professi


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perpetui, per un serio motivo può essere concesso il passaggio alla condizione del Discepolo, ma con la prudenza voluta dall’art. 89.

     Tutti devono essere lieti e riconoscenti al Signore della propria vocazione. Poteva forse S. Giuseppe invidiare il privilegio di Maria, che era madre naturale rispetto a Gesù, mentre egli era soltanto padre putativo? Anzi, l’ammirava. O forse Maria prendeva un atteggiamento meno riverente verso S. Giuseppe? Anzi, stava soggetta; quando ritrovarono il fanciullo Gesù nel Tempio, Maria disse a Gesù: «Tuo padre ed io ti cercavamo»; non disse: «Io e tuo padre».

     Che merito ha il Sacerdote se Dio nella vocazione lo ha eletto a tale stato, dandogli una triplice vocazione? E che demerito ha il Discepolo se ne ebbe soltanto due? Il Discepolo e il Sacerdote potrebbero gloriarsi di aver avuto la rispettiva vocazione a differenza della grande massa dei semplici cristiani? È tutto e solo misericordia di Dio; anche se siamo nati da genitori cristiani, mentre due miliardi di uomini sono nati da genitori non cristiani, «quid habes quod non accepisti?».2 E se tutto hai ricevuto, perché gloriarti quasi non sia tutto un dono? Così S. Paolo. Si pensi piuttosto al dovere della umile riconoscenza e ad una generosa corrispondenza ai talenti ricevuti.

     S. Paolo nella lettera ai Romani, dopo aver descritto la condizione del popolo eletto rispetto al popolo pagano con le rispettive grazie, conchiude: «O altezza delle ricchezze della sapienza e scienza di Dio! Quanto sono incomprensibili i suoi giudizi e mirabili le sue vie! Chi conosce i disegni di Dio? o chi è autorizzato a dargli


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consiglio? Ovvero chi ha dei meriti per cui Iddio gli sia obbligato? Quoniam ex ipso, et per ipsum, et in ipso sunt omnia: ipsi gloria in sæcula. Amen. Poiché da Lui e per Lui ed in Lui sono tutte le cose. A Lui gloria nei secoli. Amen» (Rm 11,33-36).




1 «Con prontezza, con facilità e piacevolmente».



2 «Che cosa possiedi che non abbia ricevuto?» (1Cor 4,7).






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