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Giacomo Alberione, SSP Apostolato dell’edizione IntraText CT - Lettura del testo |
L’imitazione dei santi
L’uomo, creato da Dio per la felicità, raggiunge il suo fine solo se cerca Dio, se si riempie sempre più di lui, in una parola: se si fa santo. «Hæc est voluntas Dei, sanctificatio vestra».1
Ma la santità di Dio quale si rivela nella persona del Verbo incarnato, ha delle sublimità che spaventano. Se invece la si vede riflessa e quasi decomposta in un’anima più vicina a noi, che ha le medesime miserie, che deve sostenere le identiche
nostre lotte, allora ci appare più accessibile ed anche più facile.
Le anime sante sono infatti altrettante semplificazioni della santità, luminosi riflessi della perfezione divina sotto un aspetto determinato, corrispondente alla missione che lo Spirito Santo ha affidato ad ognuna di esse. Ogni anima santa è una vera scuola pratica che stimola e forma al bene.
È in questo senso che ce li presenta la liturgia, proponendoci in ognuno di essi un esemplare sul quale possiamo plasmare la nostra condotta: «Sanctorum tuorum, Domine, exempla nos provocent, quatenus quorum solemnia agimus etiam actus imitemur».2
È in questo senso che l’apostolo deve proporre i santi all’imitazione. Egli non deve schierarsi con gli agiografi che ritraggono la fisionomia morale dei santi in circostanze così eccezionali e in un’atmosfera così alta, da farli apparire esseri superiori fin dal primo tempo della loro dimora quaggiù. E, una volta trapassati, li fanno apparire così distanti da essere sensibili soltanto per mezzo di una evanescente immagine aureolata, assunti nel cielo della loro gloria, irraggiungibili.
Né deve schierarsi con quegli altri che si limitano alla cronistoria della loro attività o, peggio, abbondano dell’elemento mondano e contingente,
umano ed affettivo in modo da occultare lo spirituale e l’eterno.
La troppa sublimità scoraggia. La troppa umanità non porterà mai a comprendere amorosamente la santità e a penetrarne l’essenza.
Se si vuol riuscire a rendere evidente come la Grazia divina opera d’accordo con lo sforzo umano del santo e nell’esatta misura in cui egli compie tale sforzo, bisogna sentire e far sentire la stretta appartenenza del santo alla nostra vita terrena.
La Grazia aiuta chi ne è meritevole, senza calcolo di distinzioni, di preferenze e di privilegi umani.3 Se la fede è un dono di Dio, la santità è la corona e tutti gli uomini sono chiamati a concorrervi. «Il santo è un lottatore che ha vinto. La Chiesa ne ha proclamato l’eroicità delle virtù. E non c’è eroismo dove non c’è lotta e lotta fortissima».
Prima quindi di presentare il santo negli eroismi della sua virtù o nelle altezze della contemplazione, lo si presenti come figlio di Adamo che, con sforzo diuturno, deve pazientemente lavorare (e talora con esasperante lentezza) per compiere la distruzione di quello che San
Paolo chiama l’uomo vecchio onde stabilire definitivamente ogni sua attività in Dio.
Presentato in tal modo, il santo diviene una scuola pratica di virtù, di santità. E, all’evidenza dei fatti che molto spesso rispecchiano il caso personale, se non identico almeno simile del lettore, egli sarà costretto a concludere che l’ideale della santità non deve scoraggiare quasi fosse una mèta irraggiungibile. Gli verrà quindi spontanea la stessa domanda che si pose un giorno il grande lottatore vittorioso, Sant’Agostino: «Si isti et illæ, cur non ego?».4 Domanda che è spesso il principio di forti ed efficaci risoluzioni.