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Giacomo Alberione, SSP Ut Perfectus sit Homo Dei IntraText CT - Lettura del testo |
Il religioso Paolino ha scelto la parte migliore, cioè la perfezione.
Egli non ha carriere che lo lusinghino; non mira a riconoscimenti e titoli; non ha da raggiungere stima o distinzioni; non si preoccupa degli stipendi. Ha rinunziato anche alle comuni consolazioni del Clero secolare; non fa distinzione fra abito nero, violetto o rosso: ma si fida del «centuplum»: raccogliere cento volte tanto rispetto a quel che ha lasciato.
Se lo Spirito Santo c’illumina, per quanto sta da noi, preferiremo l’umiliazione alla lode, la povertà alle ricchezze, la dimenticanza agli elogi, il dolore alle consolazioni e alla salute.
Reputarci gli ultimi; non aspettarci ringraziamenti; metterci in secondo luogo, rispetto al Clero secolare. Operare conversioni, erigere Parrocchie, organizzare Diocesi... per cederle al Clero diocesano. Attendere allo studio, alla preghiera, al ministero ed all’apostolato quando nella Chiesa tutto prospera; ma intervenire nei momenti difficili che essa attraversa, portando il nostro
contributo di azione e preghiera; per ritornare nell’ombra e venire criticati, disprezzati, giudicati con severità, perché si aspettavano di più; esigenze senza ricambio; confessare, predicare, servire senza offerte; operare nell’Ufficio Edizioni ed apostolato nostro con orari pesanti, ed anche a scapito della salute, e venir giudicati fannulloni o mercanti. Tutto questo è la condizione scelta dal Religioso ed accettata con la professione... Ma vi è il centuplo... e la vita eterna se fedeli.
Obbedire a civili poteri rivestiti da persone indegne; pagare imposte non dovute; quante volte «quæ non rapui exsolvebam»! 2 Per S. Paolo al fine delle sue varie missioni, la conclusione era quasi sempre persecuzione, calunnie, percosse.
Sopraspendersi per l’educazione di giovani, che dimenticheranno i benefici ricevuti e rimprovereranno i sistemi antiquati, i metodi d’insegnamento; la cura paterna piena di dedizione e di sacrificio, che si conchiude con la più nera ingratitudine e forse accuse; lunghe ore impegnate per le edizioni ed esito in piena delusione; amare con predilezione e constatare che quanto più si ama meno si è amati; operare e consumare la vita a servizio di molti e giungere ad una vecchiaia mal sopportata. Così Paolo nell’ultima sua Lettera, dal carcere di Roma (seconda prigionia), scrive a Timoteo: «Affrettati a venire a me al più presto. Dema mi ha abbandonato, per amore del mondo. Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Soltanto Luca è con me. Prendi Marco e portalo con te, perché mi è molto utile nel ministero... Quando verrai portami il mantello... come pure i libri e le pergamene. Alessandro il fabbro mi
ha fatto molto male... Nella mia prima difesa nessuno mi ha assistito...» [2Tm 4,9-16].
Questo corrisponde a quanto scriveva già ai Corinti del suo ministero: «In multa patientia, in tribulationibus, in necessitatibus, in angustiis, in plagis, in carceribus, in seditionibus, in laboribus, in vigiliis, in ieiuniis, in castitate, in scientia, in longanimitate, in suavitate, in Spiritu Sancto, in caritate non ficta».3
E di questo? superabundo gaudio in omni tribulatione.4