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Giacomo Alberione
Donna associata

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Art. I - Principii generali

Vi sono tre o quattro fatti che hanno caratterizzato il secolo ventesimo, sin dal suo inizio: e tra essi un movimento spiccato di femminismo. Come in tutti i grandi fatti storici, così ancora in questo vi ha del bene e del male: e sopra si sono distinte due specie di femminismi: l’uno cristiano, l’altro rivoluzionario ed ateo. Quello cristiano non è che l’applicazione dei grandi principii del Vangelo ai bisogni odierni: la donna ha nella società in cui vive dei diritti e dei doveri. Diritti di far rispettare


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il proprio onore, le proprie convinzioni, la propria dignità, ed ancora l’onore, le convinzioni, la dignità di tutto il suo sesso. Doveri di difendere il massimo patrimonio sociale che è la religione, tutelare i deboli, sollevare gli oppressi e i poveri.

Ed è qui il vero apostolato della donna nella società. Esso non si limita alla beneficenza, non a rialzare le sorti dei lavoratori: spinge più in là l’opera sua, cioè al risanamento morale e religioso della società.

Mons. Delamaire, Arc. coadiutore di Cambrai, in una adunanza di donne francesi diceva: «La vostra azione sociale deve esercitarsi per mille vie: la carità è cosa buona, ma non è l’essenziale. Io vi raccomando di sostenere il piccolo commercio, i piccoli bottegai: fate prosperare le associazioni di mutuo soccorso, le casse operaie e tutte quelle opere che si sviluppano sul vostro suolo e che hanno bisogno del vostro concorso personale più che del vostro denaro. Voi potete pronunziare una parola decisiva sulla moda. Voi dovete contribuire all’educazione morale e religiosa di tutto il popolo».

Di qui la donna oltre l’apostolato primo e principale nella famiglia, ne ha uno secondario nella società. Apostolato che oggi più che mai reclama tanta sua energia: i nemici del nome cristiano sono aumentati in potenza colla grande


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forza che loro viene dall’organizzazione: potenza cui si può solo opporre altra organizzazione cristiana. I nemici vanno reclutando nelle loro file anche la donna, consci del suo valore: noi dobbiamo opporre un esercito ben disciplinato di donne cattoliche. Debole sarebbe l’uomo, se isolato, ma assai più la donna. Si organizzino dunque le donne, si addestrino all’apostolato sociale.

Qui si fa un’obiezione, ripetuta e confutata già tante volte nel periodo di venticinque anni. La donna non ha le qualità necessarie per tale lavoro, il suo posto unico è la famiglia, non venga coinvolta nelle passioni politiche. L’obiezione, confutata sopra, presenta ora il destro di determinare in quali limiti e con quali clausole la donna possa dedicarsi a questa parte della sua missione.

Anzitutto: secondo la sua capacità: la donna colta difenderà la religione colla penna e colla parola: la donna del popolo col semplice far parte delle associazioni cattoliche del proprio ambiente: in ogni esercito occorrono i duci, ma debbono essere assai più numerosi i soldati.

In secondo luogo: quest’azione non deve mai essere a scapito dei doveri famigliari, anzi di essi è il complemento. Chi non vede, ad esempio, come la donna non farebbe tutto il suo dovere di madre se non curasse che al figlio nella scuola venga impartito l’insegnamento


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religioso? Come potrebbe ella assicurare il frutto della educazione, se non s’adoperasse, perché la figlia, uscendo dal paese, in cerca di lavoro, venga difesa dalla infame organizzazione internazionale per la tratta delle bianche? Come sarebbe possibile, o meglio, come potrebbe riuscir facile aver buona la famiglia quando ogni giorno si è costretti a vedere una moda disonesta, teatri e cinematografi immorali, discorsi irreligiosi, una stampa pornografica?1 Dia pur dunque la donna l’importanza principale ai doveri di famiglia, ma non trascuri gli altri; né si ostini a non guardare oltre le pareti domestiche, per non dover confessare che altre cose reclamano la sua attività.

In terzo luogo: la donna in questo movimento non deve esercitare la parte dirigente o docente: questo è riservato ai Pastori e particolarmente al Sommo Pastore della Chiesa. È la Chiesa che ha diretto la donna nel redimersi dalla sua obbrobriosa condizione del paganesimo: la donna deve al cristianesimo più che non l’uomo: all’infuori della Chiesa ella non sarà che serva delle passioni più brutali. Inoltre, fine ultimo d’ogni opera sociale, fosse pure un sindacato operaio, è il bene religioso e morale delle masse.

Ora questo, in quanto tale, è campo strettamente riservato alla Chiesa. Lasciarsi guidare dalla legittima Autorità: e questo tanto più


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oggi in cui tutto spira indipendenza, in cui tanti si impancano a maestri, in cui la beneficenza e l’organizzazione laica vien così allargata a scopo settario.

Quarto: la donna stia paga del suo potere di formare i costumi, non voglia pretendere di formare leggi.

Lasci da parte la vita politica per ora. Forse l’avvenire potrà per qualche tempo dare il voto politico e amministrativo, attivo e passivo, anche alla donna.2 La donna cattolica saprà allora valersi anche di quest’arma per la sua patria e per la religione. Ma non è questo il terreno più adatto alle sue lotte. Il P. Rösler, che ha scritto quanto di meglio vi è su tale argomento, dice: «Grandissima è l’azione che la donna deve esercitare sulla legislazione del suo paese: ma, guarda un po’, a quali conclusioni bisogna venire! Tale azione riuscirebbe vana dal voto chiesto dalle suffragiste. L’azione infatti della donna sta nel formare i costumi e le abitudini della vita. La legislazione diretta, che ai costumi già formati pone il sigillo dell’autorità, è opera dell’uomo. Ma l’azione sui costumi è più potente che il violentare, colla forza politica, costumi già penetrati nella vita di un popolo. Dato il suffragio alle donne, non si raddoppierebbero che le passioni e le lotte dei partiti, mentre la donna verrebbe a perdere il potere suo proprio.


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Così le suffragiste otterrebbero il fine opposto a quello propostosi».3

In ultimo: la miglior carità è far che il popolo non abbisogni di carità: questa è la prima beneficenza. Falsa è la tesi socialista che proscrive la carità come un’umiliazione e vuole che tutti i mali sociali siano curati colla ricetta della giustizia. Falsa ugualmente è l’opposta tesi, cara ai liberali, fautori delle armonie economiche, che tutta la giustizia fanno consistere nella libera concorrenza, salvo ad assegnare alla carità il compito di sollevare i caduti nella lotta per la vita. Tra essi4 sta la teoria della scuola sociale cristiana: la giustizia sia la suprema regolatrice nell’ordine economico, la carità venga a colmare le inevitabili lacune, lasciate da quella.

Non basta che la donna si occupi di beneficenza, disse il papa. E santa Caterina da Siena: Nel cuore della carità vi è la perla della giustizia. Prima di ricevere il bambino nell’orfanotrofio, non è meglio curare che il padre possa guadagnare e risparmiare tanto da poterlo mantenere? Prima di aprire le porte dell’ospedale, non è meglio adoperarsi, perché con la cassa di previdenza e di risparmio possa procurarsi una vecchiaia onorata e tranquilla? Le anime pie, dedite alla carità, non si spaventino: non ostante l’intervento doveroso della giustizia, resterà ad esse sempre aperto un largo campo


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per la beneficenza. Sempre vi saranno poveri con voi:5 ha detto Gesù Cristo.

Posti tali principii, discendiamo ad alcune organizzazioni cui può dedicarsi la donna. Ho detto che per tenere qualche ordine considereremo separatamente le opere che hanno spiccato carattere morale-religioso, sociale, economico.

E tale divisione non riguarda il fine, ma le opere in sé. Giacché, lo si noti bene, per evitare gravi inconvenienti: ogni azione cattolica ha sempre di mira il benessere morale-religioso. Si provvede lavori, case popolari, pensionati per le operaie,6 ecc.: naturalmente con immediata finalità economica, igienica, materiale. Ma la religione eleva tali opere ad un’altissima dignità: con un nobilissimo fine. Non è forse il disagio economico che spinge spesso la donna alla irreligione, alla vergogna, al delitto? Non è la insufficienza di certe abitazioni causa di tanta immoralità? Non è la disorganizzazione delle operaie, che permette oppressioni tiranniche da parte dei padroni, lavoro notturno, lavoro festivo? Oh quanti mali morali toglierebbe una illuminata azione economico-sociale della donna! Quanto sarebbe facile additare il cielo a chi si è dato il pane!

Prima però non saranno inutili alcune preghiere che direttamente si riferiscono all’argomento presente.




1 L’inquinamento quasi universale del giornalismo odierno, particolarmente in Italia, è indice di una corruzione grande e diffusa del nostro popolo, qual dubbio! Basta a persuadercene riflettere, che i giornali più stupidamente luridi sono anche i più ricercati ed i più letti dal volgo e dal non volgo...» Cf. La Civiltà Cattolica 4 [1910] 641ss.



2 Il movimento delle “suffragiste”, iniziato in Gran Bretagna nel 1904 e attivo fino al 1914 sotto la guida di E. Pankhurst (1858-1928), aveva clamorosamente sollevato il problema della parità femminile anche in campo politico ed elettorale. In Italia il diritto di voto venne esteso alle donne nel 1945 (decreto legge n. 23 del 2 febbraio). Cominciò ad essere attuato nel 1946 con le elezioni per la Costituente e venne codificato nella Costituzione italiana promulgata il 1° gennaio 1948.



3 Evidentemente questa posizione del P. Rösler (di cui non sappiamo altro), polemicamente avversa alle intemperanze delle suffragiste (o suffragette), non è più sostenibile per una serie di ovvie ragioni, che la storia ha provveduto a confermare o a smentire.



4 Tra essi, cioè tra i due schieramenti ideologici, socialista e liberale.



5 Cf. Mt 26,11; Mc 14,7; Gv 12,8.



6 Anche in Italia, meno che nel resto dell’Europa, il problema del lavoro femminile e maschile era sentito, e nella Chiesa se ne discuteva a partire soprattutto dalla Rerum novarum (15 maggio 1891) di Leone XIII. «Non è vero che tutti in frotta i capitalisti si meritino la taccia di fraudolenti ed ingiusti verso gli operai» scriveva un gesuita attento in “La protezione degli operai”, La Civiltà Cattolica 2 [1910] 270-285.






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