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Giacomo Alberione, SSP
Sacerdote, ecco la tua meditazione

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5.

 L’INFERNO

 

(PB 2, 1938, 432-438)

 

 

 

I. MEDITAZIONE

 

1. «Discendiamo vivi nell’inferno, per non doverci andare dopo morte»

       [59]  l. Ecco il consiglio di S. Bernardo: «Discendiamo vivi nell’inferno, per non doverci andare dopo morte». Pregherò umilmente Iddio: «Trafiggi col tuo timore le mie carni» (Sl 118,120 Vg).

       L’inferno è lo stato e il luogo di pena eterna al quale è destinata l’anima dell’uomo che muore in peccato mortale. La sacra Scrittura lo chiama «luogo di tormenti» (Lc 16,28). Nel Simbolo Atanasiano si dice: «La retta fede vuole che crediamo e confessiamo che... quelli che operarono il bene andranno nella vita eterna; quelli, invece, che operarono il male, andranno nel fuoco eterno. Questa è la fede cattolica, e se uno non la ritiene con fedeltà e fermezza, non può salvarsi» (Denzinger 39, s.). In Daniele si legge: «Poi la moltitudine di coloro che dormono nella polvere della terra si ridesterà, chi per la vita eterna, chi per l’ignominia che gli starà sempre davanti» (Dn 12,2); ed in Matteo: «Allora [il Figlio dell’uomo] si volgerà... a quelli che sono a sinistra e dirà: Andate via da me, nel fuoco eterno, preparato pel diavolo e per gli angeli suoi... E questi andranno al supplizio eterno» (Mt 25,41.46). «Raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con fuoco inestinguibile” (Mt 3,12).



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       «Quelli ai quali il Signore avrà detto: Andate via da me, maledetti, al fuoco perpetuo [Mt 25,41], questi saranno sempre dannati» (S. Ireneo, Adversus haereses, 1. 4, c. 28, n. 2). E giustamente, perché Dio, sapiente legislatore, stabilì per i suoi precetti una conveniente e proporzionata sanzione; ed inoltre, nello stato di termine, il dannato non può, con un atto di dolore, convertirsi a Dio; in terzo luogo perché il peccatore compì un male che, oggettivamente, rispetto a Dio offeso, è di una gravità infinita. Ripenserò alla raccomandazione di S. Alfonso de’ Liguori: «Fa’ dunque, o uomo, chiunque tu sia, per timore della pena, ciò che non puoi fare per amore della giustizia, affinché almeno possa salvare te stesso».

 




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