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Giacomo Alberione, SSP
Sacerdote, ecco la tua meditazione

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3. L’accusa dei peccati.

       [551]  3. L’accusa dei peccati. Il Sacerdote si scelga un confessore dotto, santo, prudente, ed a lui vada abitualmente. Per tutti sono adatte le parole di Agostino: «A questa confessione, o fratelli carissimi, bisogna accostarsi con sollecitudine, in modo che non solo con le parole essa venga fatta, ma anche con il cuore e con le opere. Nessuno si vergogni di confessare la sua ferita, perché non può essa venire sanata senza la confessione». A queste parole fa eco S. Girolamo, il quale afferma: «Se il peccatore avrà taciuto e non avrà fatto penitenza, né avrà voluto manifestare la sua ferita al fratello ed al maestro, il fratello ed il maestro, che hanno la lingua per sanare, facilmente non potranno a lui giovare. Se infatti il malato ha vergogna di confessare il suo male al medico, la medicina non può curare ciò che non conosce».

       Riparerò alle offese recate alla Maestà divina. La soddisfazione è la volontaria accettazione della pena temporale imposta dal Sacerdote nel sacramento della penitenza, per riparare l’ingiuria fatta a Dio con il peccato. La soddisfazione serve pure a compensare per la pena temporale non ancora rimessa, ed a restituire più perfettamente all’anima la sanità spirituale. Il Tridentino dice: «E s’addice proprio alla divina clemenza che noi non siamo così assolti da’ peccati senza una soddisfazione, affinché, abusando dell’occasione e pigliando alla leggera i peccati, non cadiamo, da ingiusti oltraggiatori dello Spirito Santo (cf Eb 10,29), in peccati più gravi, accumulandoci ira pel giorno dell’ira (cf Rm 2,5). Senza dubbio queste opere di soddisfazione penale distolgono energicamente dal peccato e servono come di freno; esse rendono i penitenti più cauti e vigilanti per l’avvenire; portano un rimedio pure ai rimasugli del peccato, e, con gli atti delle virtù opposte, distruggono gli abiti cattivi contratti col viver male» (Sess. 14, cap. 8. - Denzinger n. 904).


 




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