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Giacomo Alberione, SSP
San Paolo - Bollettino SSP

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IL LAVORO

NELLE FAMIGLIE PAOLINE

 


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          Il lavoro è un'attività cosciente, per determinato fine vantaggioso. Dio creò il mondo in sei giorni, o epoche; e «riposò» il settimo, cioè cessò le sue opere ad extra: tutto aveva fatto per la sua gloria.

          Il lavoro è vario secondo l'attività, le facoltà che si mettono in moto: vi è il lavoro intellettuale (studio, consiglio), il lavoro interiore (preghiera, elevazione dello spirito), il lavoro spirituale (predicazione, amministrazione dei sacramenti), il lavoro morale (governo, assistenza), il lavoro manuale (contadino, operaio); lavoro del tutto naturale, lavoro particolarmente soprannaturale, ecc. Entrano però sempre due elementi: attività e fine utile.

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          Il lavoro non è pena del peccato; il peccato originale aggiunse al lavoro solo la fatica: «Col sudore della tua fronte». L'uomo avrebbe lavorato e lavorò anche prima del peccato: «Il Signore Dio prese, adunque, l'uomo e lo pose nel paradiso di delizie affinché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen. II, 15).

          Homo nascitur ad laborem et avis ad volatum (Job. V, 7).

          Ogni fatica, associata alla Passione di Gesù Cristo, diviene elemento di redenzione individuale e sociale. Passione nel senso più largo di «fatica»: per esempio unirsi al lavoro del Divino Operaio di Nazareth (S. Giov. Crisostomo). Sempre diciamo: «Vi offro tutte le mie azioni, preghiere e patimenti con le intenzioni per cui Gesù si immola sull'altare».

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          In paradiso l'uomo raggiungerà il massimo di attività, e partecipando dell'attività divina, l'anima unita al corpo trasformato per le doti del corpo di Gesù Cristo risuscitato, partecipa della Divina Natura.

          «Requiescant» non significa augurio di ozio o di sonno; per ora non comprendiamo quel genere di attività, e S. Paolo non diede spiegazioni perché noi siamo incapaci di capire: «Nec oculus vidit, nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit quae praeparavit Deus iis qui diligunt illum».

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          Il peccato non è lavoro. Sebbene sia attività, non ha però fine vantaggioso, non fa un lavoro: come il bambino che stracciasse i biglietti da mille e li bruciasse per vedere una fiammata.

          La libertà non è licenza. L'educatore non può liberare esteriormente l'educando finché non ha forgiato una personalità capace di agire con responsabilità e dignità, cioè di essere utile a sé ed al prossimo. La impalcatura di un sistema di educazione o di un orario serve provvisoriamente per fare una struttura: la costruzione dell'uomo, del cristiano, del religioso, del sacerdote.

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          Pio XII nella Costituzione Apostolica «Sponsa Christi» dice: «Al lavoro, manuale o


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intellettuale, sono obbligati tutti, non esclusi gli uomini e le donne che si dedicano alla vita contemplativa, non solo per legge naturale ma anche per un dovere di penitenza e di soddisfazione. Il lavoro inoltre è il mezzo comune con cui l'anima è preservata dai pericoli e si eleva a cose più alte; il mezzo con cui noi, come è nostro dovere, prestiamo la nostra opera alla Divina Provvidenza, tanto nell'ordine naturale che nell'ordine soprannaturale; il mezzo con cui si esercitano le opere di carità».

 




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