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Giacomo Alberione, SSP Appunti di Teologia Pastorale - II edizione IntraText CT - Lettura del testo |
V. Favorire i discorsi di cose pastorali. – La conversazione buona, specialmente quella in cui si studia il miglioramento nostro ed altrui, è una fonte di grandi beni. Non stanca, ma conforta: non divide, ma unisce: non impedisce l’attività di ciascuno, ma risveglia tutti: non confonde le idee, ma le rischiara. E come è possibile non parlare dell’anima propria ed altrui se questi due oggetti devono formare tutta la vita d’un pastore? Vi è una congregazione religiosa ove ogni giorno a tavola, da uno dei membri per turno, si propone la soluzione d’un caso di morale o di pastorale. Vi hanno parroci che si industriano perché a tavola, tra sacerdoti, il discorso cada spesso sulle opere fatte, sui risultati, sul da farsi, ecc. Altri quando si portano a visitare colleghi non si diffondono in lunghe chiacchiere inutili, ma interrogano, propongono, chiedono consiglio, ecc., tutto su cose riferentisi al ministero.
Un parroco anzi, assai zelante, due volte in media ogni anno, facendosi accompagnare da un vice-curato, si portava a visitare le parrocchie più fiorenti, per studiare se mai potesse trovare nuovi mezzi o nuovi modi di applicare i mezzi per salvare le anime. E perché i discorsi d’un sacerdote dovrebbero essere le critiche, le gite, le spiritosità insulse, gli interessi materiali, i puntigli, ecc.? Forse che non abbia cose più importanti? Forse che egli non debba vivere per salvare se stesso salvando gli altri? Ma, grazie a Dio, speriamo che quest’ultimi siano pochi.
In ultimo sembra da consigliarsi ovunque la pratica che si ha ad Essen: ogni settimana il clero si raccoglie in casa del parroco per discutere argomenti pastorali e per fomentare l’amicizia vicendevole. Qualcosa di simile è in uso ad Amburgo. In molti luoghi si unisce in conferenza pastorale nel dì del ritiro mensile, in casa del parroco. Il Frassinetti scrive: «Atteso il bisogno straordinario di sacerdoti santi e zelanti, si fa a tutti gli ecclesiastici una proposta, la quale, tanto è semplice, se venisse accolta, dovrebbe riuscire efficace. E questa è che gli ecclesiastici si uniscano al doppio scopo della coltura del proprio spirito e dell’infervoramento del proprio zelo pel bene del popolo cristiano. Questa unione, perché riuscisse più semplice ed adatta in ogni luogo, sarebbe un’unione di semplice amicizia, mediante la quale, una o più volte la settimana, i buoni ecclesiastici si unirebbero in casa del parroco, ovvero di alcuno di loro e quivi, a modo di conversazione, conferirebbero insieme delle cose di spirito, cercando i mezzi opportuni coi quali meglio potrebbero giovare alla salute delle anime. A somiglianza delle conversazioni comuni, nelle quali
si leggono le notizie politiche, artistiche, letterarie, ecc., ciascuno fa le sue osservazioni su quanto vien letto e poi si parla di svariate cose riguardanti il comune, la famiglia, gli amici, le mode, ecc.; a somiglianza di queste conversazioni, i buoni ecclesiastici leggerebbero qualche libro spirituale, sulla cui lettura farebbero le riflessioni opportune: quindi conferirebbero sui mezzi di infervorarsi nello zelo per la salute delle anime, sul bene che si potrebbe promuovere e coltivare in parrocchia, sul male che potrebbe impedirsi...».4 Passa quindi l’autore a numerare i punti che più devono interessare gli ecclesiastici: pratiche di pietà, virtù, mezzi pel bene pastorale, ecc.
Tutti gli ecclesiastici sono interessati a promuovere questa santa pratica, ma più i parroci, che avrebbero così un mezzo molto efficace per conservare un’azione concorde nella cura delle anime: e d’altronde nessun altro sacerdote potrebbe ottenerlo così facilmente.