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Sac. Giacomo Alberione, Primo Maestro della Pia Società San Paolo Oportet orare IntraText CT - Lettura del testo |
a) La pena del danno.
a) La pena del danno. L'inferno è l'esilio dal cielo, non temporale, ma definitivo, eterno.
L'anima, appena uscita dal corpo, si sente fatta per il Signore, ma intanto la mano della giustizia di Dio, la volontà e l'onnipotenza del Signore la caccerà nell'inferno. Vorrebbe veder Dio, il padre buono; vedere Gesù crocifisso per nostro amore e tante volte ricevuto nelle comunioni, adorato sugli altari; vedere lo Spirito santificatore; vedere la S. Madonna, gli Angeli, i Santi del cielo... ma il peccato la divide da Dio: «Iniquitates vestrae diviserunt vos et Deum vestrum»12. Il concerto di quel paradiso di gaudio, manda un'eco fino all'inferno, dove l'anima anela al suo Dio, assetata di Gesù, attratta verso il cielo; mentre, come in contraddizione eterna, si sentirà inchiodata al suolo, lontana lontana. Quale pena! «Vermis eorum non moritur, et ignis non extinguitur»13. Quale rimorso il peccato! Non capiamo bene che cosa sia questo, perché non conosciamo il Signore e non lo amiamo abbastanza, e perché siamo rivestiti del corpo; ma dopo la morte non sarà più così.
Dice S. Antonino: «Separata autem anima a corpore intelligit
Deum summum bonum, et ad illum esse creatam»e. Il dannato sa
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di Dio quanto gli basta per sentirsi attratto verso di lui; egli è più tormentato dal cielo che dall'inferno, cioè dal pensiero d'aver perduto Dio, che dai tormenti dell'inferno: «Plus coelo quam gehenna torquetur»f.
Quando Assalonne fu condannato dal padre a non vedere più la sua faccia, egli mandò a dirgli: «Obsecro ergo ut videam faciem regis: quod si memor est iniquitatis meae, interficiat me»14. Così è del dannato in quell'eterna lontananza, in quell'eterna solitudine.
Tuttavia l'anima piombata nell'inferno non cessa di volgere gli occhi al
cielo; essa ci vede sempre il suo Dio, ne conosce la grandezza, ne scorge le
perfezioni. Gran Dio, va gridando, non c'è dunque più riparo, io vi ho perduto
e perdendo voi ho perduto tutto! Bel paradiso, per il quale io era fatta, mai,
mai più non ti vedrò! O beato soggiorno, o patria di delizie, le tue porte mi
stanno chiuse in faccia per sempre! Un trono di gloria mi stava in te preparato
ed ora ne sono sbalzato in eterno! Cari parenti, diletti amici, che ne siete i
fortunati abitatori, io vi ho dunque dato un eterno addio! non godrò mai più con
voi della vista e della presenza del mio Dio! non gusterò mai di quel torrente
di delizie, dal quale voi siete inondati!
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non sarò mai a parte con voi della vostra gloria! Sul vostro capo splende la corona dell'immortalità, e quella che era a me destinata l'ho lasciata cader dal mio capo per sempre! Non vi è rimedio; io ho perduto ogni cosa e la mia perdita è irreparabile!
Il dannato soffre nell'intelligenza: capisce che si è dannato proprio per colpa sua; non può attribuire la colpa né ai genitori, né agli amici, né alla Chiesa, né alla violenza della tentazione, ma solo a se stesso. Dopo aver cercato di rovesciare la responsabilità su tutti, finirà col dire: Io, io solo, ho voluto perdermi, io il perfido che ho voluto privarmi di Dio e del suo paradiso.
Il dannato soffre nella volontà. Non avrà mai più quello che cerca; avrà sempre ciò che odia. Per uno sfogo, per un capriccio, per un po' di pigrizia, per un po' di superbia, ha venduto il paradiso. Quando Esaù ebbe venduto per un po' di lenticchie la primogenitura, «irrugiit clamore magno»15.
Il dannato soffre nella memoria.
Ricorda che poteva salvarsi con poca fatica. Si sono salvati altri persino
selvaggi, ma lui, con tanta comodità, e con tutti i mezzi, si è dannato. «Lassati sumus in via iniquitatis et
perditionis, et
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ambulavimus vias difficiles, viam autem Domini ignoravimus. Quid nobis profuit superbia? Aut divitiarum jactantia quid contulit nobis? Transierunt omnia illa tamquam umbra». Ci stancammo nella via dell'iniquità e della perdizione, camminammo per vie difficili, e non arrivammo a conoscere la via del Signore. A che ci ha servito la superbia? Qual utile ci ha portato la boria delle ricchezze? Tutte queste cose sono passate come un'ombra16.
S. Cirillo dice: «I reprobi gemono continuamente e nessuno ha pietà di
loro; gridano dal fondo dell'abisso e nessuno li ode; si lagnano e nessuno li
soccorre; piangono e nessuno li compassiona. O peccatori riprovati, dov'è ora
la superbia del secolo? dove sono l'alterigia, le delicatezze, gli ornamenti,
la potenza, il fasto, le ricchezze, la nobiltà, la forza, la seduttrice avvenenza,
l'audacia altera ed insolente, la gioia nel misfatto?»17. San Efrem scrive: «I dannati versano fiumi di amaro
pianto e tra gemiti, singhiozzi e strida vanno gridando: Noi infelici! come mai
abbiamo potuto sciupare in tanto torpore e negligenza il nostro tempo? Perché
lasciarci cogliere così goffamente dalle reti delle passioni? Oh, come lo
scherno e il disprezzo che noi facevamo
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delle cose sante si è riversato sul nostro capo! Dio ci parlava e noi ci turavamo le orecchie! ora noi gridiamo ed egli è sordo. Che vantaggio abbiamo ora delle grandezze del mondo? Dov'è il padre che ci ha generati? dove la madre che ci mise alla luce? dove i figli, gli amici, le ricchezze, i poderi? dove la turba dei clienti, lo sciame dei parassiti e degli adulatori? dove i balli, i festini, le danze, i divertimenti, i conviti, le geniali conversazioni?»18.
O reprobi sciagurati, voi ora vedete i vostri misfatti e ne avete orrore, ma è troppo tardi! Infelici! Nessuno vi sforzava a peccare; il mondo, il demonio, le passioni vi invitavano e sollecitavano, ma non vi violentavano. Siete voi che avete liberamente scelto la morte in cambio della vita, il demonio invece di Dio, l'inferno in luogo del cielo!...
O cristiani viventi sulla terra, fuggiamo il peccato, che è la sola causa di perdizione.