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S. Alfonso Maria de Liguori
Pratica di amar Gesù Cristo

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CAPO XI.

Caritas non quaerit quae sua sunt.

Chi ama Gesù Cristo cerca di staccarsi da tutto il creato

Chi vuol amare Gesù Cristo con tutto il cuore bisogna che discacci dal cuore ogni cosa che non è Dio ma è amor proprio. Questo importa il non quaerere quae sua sunt, il non cercare se stesso, ma solo quel che piace a Dio. E questo è quel che il Signore domanda da ognuno di noi, allorché ci dice: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo (Matth. XXII, 37).

Per amare Dio con tutto il cuore vi bisognano due cose: per levarne la terra, per riempirlo di santo amore. Onde quel cuore in cui sta qualche affetto terreno non può esser mai tutto di Dio. Dicea S. Filippo Neri che quanto amore noi mettiamo alle creature, tanto ne togliamo a Dio.1 Or come si purga il cuore dalla terra? Si purga colle mortificazioni e col distacco dalle cose create. Si lamentano certe anime che cercano Dio e non lo trovano; ascoltino costoro quel


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che loro dice S. Teresa: “Distacca il cuore dalle creature, e cerca Dio che lo troverai”.2

L'inganno sta che alcuni vogliono farsi santi, ma a modo loro: vogliono amar Gesù Cristo, ma secondo il lor genio, senza lasciar quei loro divertimenti, quella vanità di vestire, quei cibi più golosi: amano Dio, ma se non giungono ad ottener quell'officio vivono inquieti: se poi son toccati nella stima diventano di fuoco: se non guariscono da quell'infermità perdono la pazienza. Amano Dio, ma non lasciano l'affetto alle ricchezze, agli onori del mondo ed alla vanità di esser tenuti per nobili, per sapienti e migliori degli altri. Questi tali vanno all'orazione, vanno alla comunione, ma, perché vi portano i cuori pieni di terra, poco profitto ne ricavano. A costoro il Signore neppure lor parla, perché vede che ci perde le parole. Ciò appunto disse un giorno a S. Teresa: “Io parlerei a molte anime, ma il mondo fa molto strepito alle loro orecchie, sì che la mia voce non può da loro udirsi. Oh se si appartassero un poco dal mondo!”3 - Chi dunque sta pieno di affetti terreni non è capace neppur di sentire la voce di Dio che gli parla. Ma infelice chi tiene attacco a' beni sensibili di questa terra; non sarà difficile che, da essi accecato, lasci un giorno di amar Gesù Cristo e, per non perdere questi beni passaggieri, perda in eterno Dio, bene infinito. Dicea S. Teresa: “Giustamente ne siegue che chi va appresso a beni perduti resti ancor esso perduto.”4

Scrive S. Agostino (Lib. 1. cap. 22. De cons. etc.) che Tiberio Cesare volea che dal senato romano fosse tra' dei aggregato anche Gesù Cristo; ma il senato non volle ammetterlo, dicendo che questo era un Dio superbo che voleva esser solo a farsi adorare senza compagni.5 Tutto è vero: Iddio vuol


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essere solo ad esser adorato ed amato da noi, non già per superbia, ma perché se lo merita, ed anche per l'amore che ci porta. Egli, perché ci ama assai, vuol tutto il nostro amore, e perciò sta geloso di non vedere altri che si prendano parte di quei cuori che egli vuole tutti per sé. Zelotipus est Iesus, dice S. Girolamo,6 e perciò non vuole che mettiamo affetto ad altra cosa fuori di lui. E se mai vede che qualche oggetto creato ha parte in un cuore, in certo modo gli porta invidia, come scrive l'apostolo S. Giacomo, perché non soffre di aver rivali nell'amore, ma vuol esser solo ad esser amato: An putatis quia inaniter Scriptura dicat: Ad invidiam concupiscit spiritus qui habitat in vobis? (Iac. IV, 5). Il Signore ne' sagri Cantici loda la sua sposa dicendo: Hortus conclusus soror mea sponsa (Cant. IV, 12). La chiama orto chiuso, perché l'anima sposa tiene chiuso il cuore ad ogni amore terreno per conservarvi solamente quello di Gesù.

Forse Gesù non si merita tutto il nostro amore? Ah che troppo se lo merita e per la sua bontà e per l'affetto che ci porta. Ciò ben l'intendono i santi, e perciò dicea S. Francesco di Sales: “Se io sapessi di aver nel mio cuore una fibra che non fosse di Dio, me la vorrei subito strappare.”7


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Desiderava Davide di aver le ali libere dalla pania di ogni affetto mondano per volare e riposarsi in Dio: Quis dabit mihi pennas sicut columbae, et volabo, et requiescam? (Ps. LIV, 7). Molte anime vorrebbero elle vedersi sciolte da ogni laccio di terra per volare a Dio, e farebbero in vero gran voli nella santità se si distaccassero da ogni cosa di questo mondo; ma perché conservano qualche picciola affezione disordinata e non si fanno forza per isbrigarsene, restano sempre a languire nella loro miseria senza mai alzare un piede da terra. Dicea S. Giovanni della Croce: “L'anima che sta attaccata coll'affetto a qualunque cosa, anche minima, per molte virtù che tenga, non giungerà mai alla divina unione; poiché importa poco che l'uccello stia ligato con un filo grosso o con un sottile, mentre, per sottile che quello sia, sempre che non lo rompe, starà sempre ligato né potrà mai volare. Oh che compassione è il vedere certe anime ricche di esercizi spirituali, di virtù e di favori divini, ma che per non aver coraggio di finirla con quell'affezioncella, non possono arrivare alla divina unione, per cui altro non restava che dare un forte volo e finir di rompere quel filo! giacché, liberata l'anima da ogni affetto creato, non può Dio non comunicarsele con pienezza.”8

Chi vuole che Dio sia tutto suo bisogna ch'egli si dia tutto a Dio. Dilectus meus mihi, dicea la sagra sposa, et ego illi (Cant. II, 16): l'amato mio si è dato tutto a me, ed io mi son data tutta a lui. Gesù Cristo per l'amore che ci porta, vuol tutto il nostro amore; e se non l'ha tutto, non è mai contento. Perciò scrisse S. Teresa ad una priora de' suoi monasteri: “Procuri di allevare le anime staccate da tutto il creato, perché allevansi per essere spose di un Re tanto geloso, che vuole che si scordino anche di loro stesse.”9 S. Maria Maddalena de'


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Pazzi ad una sua novizia tolse un libretto spirituale, non per altro se non perché si accorse che vi teneva attacco soverchio.10 Molte anime fanno orazione mentale, fanno la visita al Sagramento, frequentano la comunione; ma perché vi portano il cuore attaccato a qualche affetto di terra, poco o niente si avanzano nella perfezione; e seguitando a vivere così, non solo saranno sempre misere, ma stanno in pericolo di perder tutto.

Bisogna dunque pregare Iddio con Davide che ci purghi il cuore da ogni attacco di terra: Cor mundum crea in me Deus (Ps. L, 12): altrimenti non potremo mai esser tutti suoi. Ben egli ci ha fatto intendere che chi non rinunzia ad ogni cosa di questo mondo non può esser suo vero discepolo: Qui non renuntiat omnibus quae possidet non potest meus esse discipulus (Luc. XIV, 33). Perciò i padri antichi del deserto quando veniva alcun giovane per aggregarsi alla loro compagnia questa era la dimanda che gli facevano: Affersne cor vacuum, ut possit illud Spiritus sanctus implere?11 Lo stesso disse Dio a S. Geltrude che lo pregava a farle intendere che cosa da lei volesse: “Altro da te non voglio, che un cuore vacuo delle creature.”12 Bisogna dunque dire a Dio con animo forte e risoluto: Signore, io preferisco voi a tutto, alla sanità, alle ricchezze, alle dignità, agli onori, alle lodi, alle scienze, alle consolazioni, alle speranze, ai desideri, ed anche alle stesse vostre grazie e doni che da voi potrei ricevere. In somma vi preferisco ad ogni bene creato che non è voi, mio Dio. Qualunque


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dono che mi fate, mio Dio, fuori di voi, non mi basta. Voi solo voglio e niente più.

In un cuore staccato da ogni affetto di cose create subito entra e lo riempie il divino amore. Inoltre dicea S. Teresa: “Tolte dagli occhi le occasioni non buone, subito l'anima si volta ad amare Dio.”13 Sì, perché l'anima non può vivere senza amare; o ha da amare il Creatore o le creature: se non ama le creature, amerà certamente il Creatore. In somma bisogna lasciar tutto per acquistare il tutto: Totum pro toto, dice Tommaso da Kempis.14 S. Teresa fin tanto che nudriva un certo affetto, benché pudico, ad un suo parente, non era tutta di Dio; ma quando poi si fe' coraggio e si sciolse da quell'attacco, allora meritò che Gesù Cristo le dicesse: “Ora, Teresa, tu sei tutta mia ed io son tutto tuo.”15 - È troppo poco un cuore per amar questo Dio così amante e così amabile che merita un infinito amore; e poi vogliam dividere questo cuore fra le creature e Dio? Il Ven. Luigi da Ponte si vergognava di dire a Dio: Signore, v'amo più d'ogni cosa, più di tutte le ricchezze, onori, amici, parenti; perché gli parea di dire a Dio: Signore, v'amo più del fango, del fumo e de' vermi della terra.16

Dice il profeta Geremia che il Signore è tutto bontà verso di chi lo cerca: Bonus est Dominus animae quaerenti illum (Thr. III, 25). Ma s'intende di quell'anima che cerca solo Dio. O felice perdita! o felice acquisto! perdere i beni mondani che non contentano il cuore e presto finiscono, per acquistare


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il sommo ed eterno bene ch'è Dio! Narrasi d'un divoto solitario che mentre il principe si era portato in quel bosco, egli andava correndo per quel deserto; il Principe, vedendolo andare per colà così vagando, l'interrogò chi fosse e che andasse facendo; egli rispose: “E voi, signore, che andate facendo in questo deserto?” Disse il Principe: “Io vado a caccia di animali.” E 'l solitario rispose: “Ed io vado a caccia di Dio.” E così se gli tolse davanti e seguitò il suo cammino.17

Questo ancora nella presente vita ha da essere l'unico nostro pensiero, l'unico intento, di andar cercando Dio per amarlo, e la sua volontà per adempirla, licenziando dal cuore ogni affetto di creatura. E quando ci si presenta innanzi qualche bene di terra per tirarsi il nostro amore, troviamoci apparecchiati a dirgli: Regnum mundi et omnem ornatum saeculi contempsi propter amorem Domini mei Iesu Christi.18 E che sono tutte le dignità e le grandezze di questo mondo, se non che fumo, loto e vanità che colla morte tutte spariscono? Beato chi può dire: “Gesù Cristo mio, io per amor tuo ho lasciato tutto: tu sei l'unico mio amore: tu solo mi basti.”

Ah che quando l'amor divino prende il pieno possesso di un'anima, ella da se stessa allora - s'intende sempre coll'aiuto della divina grazia - procura di spogliarsi da ogni cosa terrena che può impedirle l'esser tutta di Dio. Dicea S. Francesco di Sales che quando una casa va a fuoco si buttano tutte le robe dalla finestra:19 viene a dire che quando una persona


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si tutta a Dio, senza esortazione di predicatori o di confessori, da se medesima, cerca di sbrigarsi da ogni affetto di terra.

Il P. Segneri Iuniore dicea che l'amor divino è un ladro che facilmente ci spoglia di tutto, per non farci possedere altro che Dio.20 Un certo uomo da bene avendo rinunziato le sue robe ed essendo già divenuto povero per amore di Gesù Cristo, fu richiesto da un amico come si era ridotto in tanta povertà; si cavò dalla saccoccia il libretto degli Evangeli e disse: “Ecco, questo è quello che mi ha spogliato di tutto.”21 - Dice lo Spirito santo: Si dederit homo omnem substantiam domus suae pro dilectione, quasi nihil despiciet eam (Cant. VIII, 7). Eh che quando un'anima mette tutto il suo amore a Dio, disprezza tutto, ricchezze, piaceri, dignità, feudi, regni, e non vuole altro che Dio; e dice e replica sempre: Dio mio, voi solo voglio e niente più. Scrive S. Francesco di Sales: “Il puro amor di Dio consuma tutto ciò che non è Dio per convertire ogni cosa in sé, poiché tutto ciò che si fa per amor di Dio è amore22


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Dicea la sagra sposa: Introduxit me in cellam vinariam, ordinavit in me caritatem (Cant. II, 4). Questa cella vinaria, scrive S. Teresa, è il divino amore, il quale allorché prende possesso di un cuore l'inebria talmente di sé che lo fa scordare di tutto il creato.23 L'ubbriaco è come morto ne' sensi, non vede, non sente, non parla; e tale diventa un'anima inebriata di amor divino: quasi non ha più senso per le cose del mondo, ad altro non vuol pensare che a Dio, di altro non vuol parlare che di Dio, altro non intende fare che amare e dar gusto a Dio. - Ne' sagri Cantici comanda il Signore che non si svegli la sua diletta che dorme: Ne suscitetis neque evigilare faciatis dilectam (Cant. II, 7). Questo beato sonno che godono l'anime spose di Gesù Cristo, dice S. Basilio che non è altro, nisi summa rerum omnium oblivio,24 una virtuosa e volontaria dimenticanza di tutto il creato per attender solo a Dio e poter dire, come dicea S. Francesco, Deus meus et omnia!25 Dio mio, che ricchezze, che dignità, che beni di mondo! Tu sei il mio tutto, ed ogni mio bene. Tommaso da Kempis scrive: “Deus meus et omnia: O dolce parola: Dio mio, mio tutto. A chi intende, abbastanza sta detto, ed a chi ama, dolce cosa è il ripetere sempre: Deus meus et omnia, Deus meus et omnia.26

Dunque per giungere alla perfetta unione con Dio è necessario un totale distacco dalle creature. E per venire al


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particolare, bisogna che ci distacchiamo dall'affetto disordinato a' parenti.

Disse Gesù Cristo: Si quis venit ad me, et non odit patrem suum et matrem et uxorem et filios et fratres et sorores, adhuc autem et animam suam, non potest meus esse discipulus (Luc. XIV, 26). E perché quest'odio a' parenti? Perché spesso in quanto al profitto dell'anima noi non abbiamo maggiori nemici che i nostri congiunti: Et inimici hominis domestici eius (Matth. X, 36). Dicea S. Carlo Borromeo che quando egli andava in casa de' parenti sempre se ne ritornava raffreddato nello spirito.27 E 'l P. Antonio Mendozza dimandato perché non volesse accostare in casa de' parenti, rispose: “Perché so dalla sperienza che in niun luogo i religiosi perdono tanto la divozione, quanto in casa dei parenti.”28

Trattandosi poi di elezione di stato è certo, com'insegna S. Tommaso d'Aquino (2. 2. q. 10. a. 5), che noi non siam tenuti di ubbidire a' genitori.29 Se un giovine è chiamato a farsi religioso, ed i parenti l'oppugnano, è obbligato ad ubbidire a Dio, non a' parenti, i quali per gli loro interessi e fini propri, come


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dice lo stesso S. Tommaso, si oppongono al nostro bene spirituale: Frequenter amici carnales adversantur profectui spirituali (2. 2. q. 189. a. 10).30 E si contentano, scrive S. Bernardo, che i figli si dannino più presto che lascino la casa.31

Ed è una maraviglia, in questa materia, il vedere certi padri e madri, anche timorati di Dio, come allucinati dalla passione si affaticano e non lasciano mezzo per impedire la vocazione ad un figlio che vuol farsi religioso: il che, eccettuato qualche caso rarissimo, non può scusarsi da colpa grave. Ma dirà taluno: Dunque se quel giovine non si fa religioso non può salvarsi? Dunque tutti quelli che restano al mondo si dannano? Rispondo: Quelli che non sono chiamati da Dio alla religione, nel mondo si salveranno, adempiendo gli obblighi del loro stato; ma quelli che son chiamati e non ubbidiscono a Dio, potrebbero bensì salvarsi, ma difficilmente si salveranno; perché mancheranno loro quegli aiuti speciali che il Signore avea lor preparati nello stato religioso, e senza quelli non giungeranno a salvarsi. Scrive il teologo Habert che chi non ubbidisce alla divina vocazione resta nella chiesa come un membro smosso dal suo luogo, che con molta difficoltà potrà fare il suo ufficio e per conseguenza ottener la salute: Non sine magnis difficultatibus poterit saluti suae consulere manebitque in corpore Ecclesiae velut membrum suis sedibus motum, quod


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aegre servire potest et cum deformitate (HABERT, De ord. cap. 1, § 2). Onde poi conchiude: Licet absolute loquendo salvari possit, difficulter tamen ingredietur viam et apprehendet media salutis (Ibid.).32

L'elezione dello stato dal P. Granata vien chiamata la ruota maestra:33 nell'orologio, guastata la ruota maestra, resta tutto l'orologio sconcertato; e così, rispetto alla nostra salvazione, errato che si è lo stato di vita, tutta la vita anderà sconcertata. Tanti poveri giovani per causa de' parenti han perduta la vocazione e poi han fatta mala fine, e sono stati essi medesimi la ruina della casa. Un certo giovane perdé la vocazione religiosa per istigazione del padre, ma poi, venendo a gran disgusti collo stesso padre, l'uccise di propria mano e morì giustiziato. Un altro giovane che stava a convivere in un seminario fu similmente chiamato da Dio a lasciare il mondo; egli trascurando la vocazione, prima lasciò la vita divota che faceva, l'orazione, le comunioni, indi si abbandonò a' vizi, e finalmente una notte uscendo dalla casa d'una mala femmina fu ucciso da un suo rivale: accorsero più sacerdoti, ma lo trovarono già morto. E quanti esempi simili a questi io potrei qui addurre!

Ma torniamo al punto. S. Tommaso l'Angelico (Opusc. 17, c. 10) esorta coloro che son chiamati a vita più perfetta a non consigliarsi in ciò co' parenti, poiché in tal materia essi diventano nemici: Ab hoc consilio amovendi sunt carnis propinqui... Propinqui enim in hoc negotio amici non sunt, sed inimici, iuxta sententiam Domini: Inimici hominis domestici eius.34 E se nel


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seguir la vocazione a stato più perfetto non son tenuti i figli a consigliarsi co' padri, tanto meno sono tenuti ad aspettar la loro licenza, e neppure a chiederla, sempreché posson temere verisimilmente che da essi venga loro ingiustamente negata, ed indi impedita la vocazione. S. Tommaso d'Aquino, S. Pietro d'Alcantara, S. Francesco Saverio, S. Luigi Beltrando35 e tanti altri sono andati alla religione, senza neppur farne intesi i loro genitori.

Di più bisogna avvertire che siccome sta in gran pericolo di dannarsi chi per compiacere i parenti lascia la vocazione di Dio, così all'incontro mette ancora in gran pericolo la sua eterna salute chi per non disgustare i parenti prende lo stato ecclesiastico senza la divina vocazione.

Tre sono i segni con cui si conosce la vera vocazione ad un tale stato così sublime: la scienza, il fine di attendere solo a Dio e la bontà della vita. Ma parlando qui specialmente della bontà, il Concilio di Trento ha ordinato che i vescovi non promuovano agli ordini sagri, se non coloro che sono stati già provati nella buona vita: Subdiaconi et diaconi ordinentur, habentes bonum testimonium et in minoribus ordinibus probati (Sess. XXIII, cap. 13).36 E lo stesso fu prima ordinato nel Can. Nullus, Dist. 24, ove si disse: Nullus ordinetur, nisi probatus fuerit.37 E benché direttamente s'intenda ciò detto della pruova esterna che dee esigere il vescovo della probità dell'ordinando, nulladimeno non può mettersi in dubbio che il Concilio non tanto richiede la probità esterna quanto l'interna, senza la quale la probità esterna non è che un mero inganno. E perciò il Concilio nel capo 12 della stessa sessione dice: Sciant Episcopi debere ad hos ordines assumi dignos dumtaxat, et quorum probata vita senectus sit.38 Essendo già noto


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che a questo fine, che sia provata la buona vita dell'ordinando, il Concilio prescrive gl'interstizi secondo i diversi gradi degli ordini: Ut in eis cum aetate vitae meritum et doctrina maior accrescat.39

La ragione è addotta da S. Tommaso, perché l'ordinando con ciascun ordine sagro vien destinato all'altissimo ministero di servire a Gesù Cristo nel Sagramento dell'altare; onde dice il santo (2. 2. qu. 184 art. 8) che la santità dell'ecclesiastico dee sopravanzare la santità del religioso: Quia per sacrum ordinem aliquis deputatur ad dignissima ministeria, quibus ipsi Christo servitur in Sacramento altaris; ad quod requiritur maior sanctitas interior quam requirat etiam religionis status.40 In oltre a tal proposito soggiunge (2. 2. qu. 189. a. 1. ad 3) - e qui parla non tanto degli ordinati quanto degli ordinandi, mentre dice che gli ordini sagri praeexigunt sanctitatem: la parola praeexigunt importa che il soggetto sia santo prima di essere ordinato: - ed assegna la differenza della ragione dello stato religioso e dello stato degli ordini sagri, appunto perché nella religione si purgano i vizi, ma per assumere gli ordini sagri bisogna che la persona si trovi già purgata per mezzo della santa vita. Ecco le parole dell'Angelico: Ordines sacri praeexigunt


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sanctitatem, sed status religionis est exercitium ad sanctitatem, unde pondus ordinum imponendum parietibus iam per sanctitatem desiccatis; sed pondus religionis desiccat parietes, idest homines ab humore vitiorum.41 Di più S. Tommaso (3 part. Suppl. qu. 35. a. 1. ad 3) parimente spiega lo stesso dicendo: Ut sicut illi qui ordinem suscipiunt super plebem constituuntur gradu ordinis, ita et superiores sint merito sanctitatis. E questo merito di santità il santo lo chiede prima dell'ordinazione, mentre lo chiama necessario non solo acciocché l'ordinato degnamente eserciti gli ordini, ma ben anche acciocché l'ordinando possa esser degnamente annoverato tra i ministri di Gesù Cristo: Et ideo praeexigitur gratia quae sufficiat ad hoc, quod digne connumerentur in plebem Christi. E finalmente conclude: Sed confertur in ipsa susceptione ordinis amplius gratiae munus per quod ad maiora reddantur idonei.42 Nota la parola, ad maiora, con cui il santo dichiara che la grazia del sagramento che poi si conferisce, non già sarà inutile, ma darà all'ordinando maggiori aiuti, affinché si renda idoneo ad acquistare maggiori meriti; ma già esprime che in lui ricercasi la grazia precedente, gratum faciens, che basti a renderlo degno di esser numerato nella plebe di Cristo.

Nel mio libro di Teologia Morale (Lib. 6. c. 2. ex num. 63)43 io ho stesa una lunga dissertazione su questo punto, ove ho dimostrato che coloro i quali senza l'esperienza della buona vita prendono qualche ordine sagro non possono essere scusati da colpa grave, mentre ascendono a tal grado sublime senza la divina vocazione; né può dirsi chiamato da Dio chi ascende agli ordini sagri non ancor liberato da qualche vizio abituato, specialmente contro la castità. E benché alcuno di costoro fosse


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capace del sagramento della penitenza per trovarsi a quello già ben disposto per mezzo del pentimento; nondimeno non è capace in tale stato di assumere il sagro ordine, per cui vi bisogna di più la buona vita provata già prima coll'esperienza da molto tempo. Altrimenti non può essere esente dal peccato mortale, così per la grave presunzione con cui senza la vocazione s'intrude ne' sacri ministeri, onde dice S. Anselmo: Qui enim se ingerit et propriam gloriam quaerit, gratiae Dei rapinam facit; et ideo non accipit benedictionem, sed maledictionem:44 come anche per lo gran pericolo di sua dannazione, al quale si espone in tal caso, secondo scrive il vescovo Abelly: Qui sciens, nulla divinae vocationis habita ratione - come già fa colui che prende l'ordine coll'abito a qualche vizio grave - se in sacerdotium intruderet, haud dubie seipsum in apertum salutis discrimen iniiceret.45 Lo stesso scrive Soto (in 4. Sent. Dist. 2. qu. 1. n. 3) ove parlando del sagramento dell'ordine dice che la santità positiva nell'ordinando è di precetto positivo: Quamvis morum integritas non sit de essentia sacramenti, est tamen praecepto divino maxime necessaria... At vero quod de idoneitate eorum qui sacris sunt initiandi ordinibus definitur, non est generalis illa dispositio quae in suscipiendo quodcumque sacramentum requiritur, ne sacramentalis gratia obicem inveniat; enimvero quod ad sanctitatem ordinis homo non solum gratiam suscipit, sed ad sublimiorem gradum conscendit, requiritur in eo morum honestas et virtutum claritas.46 Lo stesso


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scrive Tommaso Sanchez (Consil. cap. 1. d. 46. n. 1). Lo stesso scrive il P. Holzman (De sacr. ord.). E lo stesso i Salmaticesi (De sacr. ord. c. 5. n. 46).47 Sicché quello che ho scritto non è opinione di qualche particolar dottore, ma è sentenza comune; e tutti si fondano sulla dottrina di S. Tommaso.

In tal caso dunque, quando manca all'ordinando lo sperimento della buona vita, non solo pecca gravemente il soggetto che si ordina, ma pecca ancora il vescovo che lo promuove all'ordine sagro senza la dovuta pruova per cui siasi renduto moralmente certo della buona vita dell'ordinando. Pecca gravemente ancora il confessore che assolve un tal ordinando abituato, il quale senza una lunga pruova di sua buona vita vuol prendere l'ordine sagro. E peccano ancora gravemente quei genitori che, sapendo la mala vita de' figli, s'impegnano a far loro prendere gli ordini sagri per fini propri di aiutar la famiglia.

Lo stato ecclesiastico non è istituito da Gesù Cristo per aiutar le case de' secolari, ma per promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime. Alcuni si figurano lo stato ecclesiastico come fosse un officio o mestiere laicale per avanzarsi negli onori o nei beni temporali, ma errano; e perciò quando vengono i parenti ad inquietare il vescovo, acciocché ordini alcuno ignorante o di mali costumi, apportando per ragione che la casa è povera e non sanno come fare, ciò dee risponder loro il vescovo: “No, figlio mio, lo stato ecclesiastico non è fatto per aiutar la povertà delle case, ma per lo bene della Chiesa.” E così bisogna licenziarli affatto, e non dare loro più orecchio; giacché tali soggetti indegni sogliono ordinariamente esser poi la ruina non solo dell'anime loro, ma anche delle loro famiglie e de' loro paesi.

E parlando di quei sacerdoti che vivono in casa propria, e vorrebbero i parenti che non tanto si applicassero alle incombenze del lor ministero, quanto ad avanzar la casa colle rendite e cogli onori, essi debbono lor risponder quel che rispose Gesù Cristo alla sua divina Madre: Nesciebatis quia in


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his quae Patris mei sunt oportet me esse? (Luc. II, 49). Debbon dunque rispondere: “Io son sacerdote, l'officio mio non è di far danari e procurare onori, né di tenere l'amministrazione della casa, ma di star ritirato, far orazione, studiare ed aiutare l'anime.” Quando poi vi fosse qualche precisa necessità di aiutar la casa, dee aiutarla per quanto può, ma senza lasciare la sua incombenza principale, ch'è di attendere alla santificazione sua e degli altri.

Inoltre chi vuol esser tutto di Dio dee esser distaccato dalla stima mondana.

Quanti per questa maledetta stima si allontanano da Dio, e quanti anche lo perdono! Per esempio, se sentono parlare di qualche lor difetto, che non fanno per giustificarsi e far credere che sia falsità e calunnia? Se poi fanno qualche bene, che non fanno per renderlo manifesto a tutti? Vorrebbero che tutto il mondo lo sapesse acciocché gli lodassero. Non fanno così i santi; essi vorrebbero che tutto il mondo sapesse i loro difetti, acciocché gli tenessero per quei miserabili quali essi si tengono; ed all'incontro se fanno qualche atto di virtù vorrebbero che lo sapesse solo Dio, a cui solo desiderano di piacere; e perciò tanto amano la vita nascosta, ricordevoli de' documenti di Gesù Cristo che disse: Te autem faciente eleemosynam, nesciat sinistra tua quid faciat dextera tua (Matth. VI, 3). E nel v. 6: Tu autem cum oraveris intra in cubiculum tuum, et clauso ostio, ora Patrem tuum in abscondito.

Sovratutto bisogna avere il distacco da noi stessi, cioè dalla propria volontà.

Chi vince se stesso facilmente poi vincerà tutte le altre ripugnanze. Vince teipsum, era l'avvertimento che usava di dare a tutti S. Francesco Saverio.48 E Gesù Cristo disse: Si quis vult post me venire abneget semetipsum (Matth. XVI, 24). Ecco


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ove consiste tutto ciò che abbiamo da fare per farci santi, negare noi stessi e non seguire la propria volontà: Post concupiscentias tuas non eas, et a voluntate tua avertere (Eccli. XVIII, 30). E questo è il maggior dono, dicea S. Francesco d'Assisi, che uno possa ricevere da Dio, il vincere se stesso negando la propria volontà.49 Scrive S. Bernardo che se tutti gli uomini si opponessero alla loro propria volontà niun mai si dannerebbe: Cesset propria voluntas, et infernus non erit.50 Scrive lo stesso santo che la propria volontà giunge a fare che le stesse tue opere buone per te diventino difettose: Grande malum propria voluntas, qua fit ut bona tua tibi bona non sint.51 Come sarebbe, se un penitente volesse fare qualche mortificazione, un digiuno, una disciplina, contra la volontà del padre spirituale; ecco che quella mortificazione fatta per seguire la propria volontà diventa difetto. Ma misero chi vive schiavo della propria volontà! perché bramerà molte cose, e non potrà ottenerle; all'incontro ricuserà di soffrire molte altre cose a lui dispiacevoli, e sarà costretto a soffrirle: Unde bella et lites in vobis? nonne hinc? ex concupiscentiis vestris quae militant in membris vestris? Concupiscitis et non habetis (Iac. IV, 1 et 2).


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La prima guerra ci viene dall'appetito de' diletti sensuali: leviamo l'occasione, mortifichiamo gli occhi, raccomandiamoci a Dio, e cesserà la guerra. - La seconda guerra ci viene dalla cupidigia delle ricchezze: procuriamo di amar la povertà, e cesserà la guerra. - La terza guerra ci viene dall'ambizione degli onori: amiamo l'umiltà e la vita nascosta, e cesserà la guerra. - La quarta guerra e la più dannosa ci viene dalla propria volontà: rassegnamoci in tutto ciò che avviene per volontà di Dio, e cesserà la guerra. - Scrive S. Bernardo che quando si vede una persona disturbata, la causa del suo disturbo altra non è che il non poter contentare allora la propria volontà: Unde turbatio, dice il santo, nisi quia propriam voluntatem sequimur?52 Di ciò si lamentò una volta il Signore con S. Maria Maddalena de' Pazzi, dicendo: “Certe anime vogliono lo spirito mio, ma come piace loro, e perciò si rendono inabili a riceverlo.”53

Bisogna dunque amare Dio come piace a Dio, non come piace a noi. Iddio vuole che l'anima sia spogliata di tutto per poterla unire a sé e riempirla del suo divino amore. Scrive S. Teresa: “L'orazione di unione non mi pare altro che un morir quasi affatto a tutte le cose del mondo per godere solo di Dio. Il certo è, che quanto più ci voteremo delle creature con distaccarcene per amore di Dio, tanto più egli ci


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riempirà di se stesso, e più saremo uniti con lui.”54 - Molte persone spirituali vorrebbero arrivare all'unione con Dio, ma poi non vorrebbero le avversità che Dio lor manda: non vorrebbero le infermità che l'affliggono, non la povertà che soffrono, non gli affronti che ricevono; ma non rassegnandosi, non mai giungeranno ad unirsi perfettamente con Dio. Udiamo quel che dicea S. Caterina da Genua: “Per arrivare all'unione di Dio son necessarie le avversità che ci manda Iddio, il quale attende per mezzo di quelle a consumare in noi tutti i pravi movimenti di dentro e di fuori. E però tutti i disprezzi, infermità, povertà, tentazioni ed altre cose contrarie tutte sommamente ci abbisognano, acciocché combattiamo, e per via di vittorie i nostri movimenti pravi vengano talmente ad estinguersi che più non li sentiamo: anzi finché le avversità non ci paiano amare ma soavi per Dio, non giungeremo mai alla divina unione.”55

Aggiungo qui la pratica che ne insegna S. Giovanni della Croce. Dice il santo che per la perfetta unione “è necessaria una totale mortificazione de' sensi e degli appetiti. Per li sensi, qualsivoglia gusto che si presenta, se non è puramente per gloria di Dio, rifiutarlo subito per amor di Gesù Cristo; per esempio, si presenta una voglia di vedere o di udire cose che non conducono maggiormente a Dio, se ne faccia di meno. Per gli appetiti poi, sforzarsi d'inclinare sempre se stesso a peggiore, al più dispiacevole o al più povero, senza desiderare altro che di patire e d'essere disprezzato.”56

In somma chi ama veramente Gesù Cristo perde l'affetto a tutti i beni di terra, e cerca spogliarsi di tutto per tenersi


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unito solo a Gesù Cristo. Verso Gesù son tutti i suoi desideri, a Gesù sempre pensa, sempre a Gesù sospira, e solo a Gesù in ogni luogo, in ogni tempo, in ogni occasione cerca di piacere. Ma per giungere a ciò bisogna continuamente attendere a vuotare il cuore d'ogni affetto che non è per Dio.

Dimando: Che importa il darsi un'anima tutta a Dio? Importa per sfuggire ogni cosa che a Dio dispiace e far quello che più gli piace. Importa per accettar senza eccezione tutto ciò che viene dalle sue mani, per duro e dispiacente che sia. Importa per preferire in ogni cosa la volontà di Dio a' nostri voleri: questo importa l'esser tutta di Dio.




1 «Aveva frequentemente in bocca quella sentenza: che quanto amore si pone nelle creature, tanto se ne toglie a Dio.» BACCI, Vita, lib. 2, cap. 15, n. 14. - (Gabriello Tana, discepolo di S. Filippo, stando per morire), «voltatosi a quelli ch' erano presenti, diceva loro: «... Adesso conosco veramente quel che ci ha detto tante volte il nostro Padre, che quanto amore si pone nella creature, tanto se ne toglie al Creatore. Però vi prego che poniate tutto l' amor vostro in Dio.» Ibid., lib. 2, cap. 8, n. 4.



2 «Despegue el corazòn de todas las cosas, y busque y hallarà a Dios.» S. TERESA, Avisos, 36. Obras, VI, pag. 51.



3 Vedi Appendice, 69.



4 «Oh, gran cosa es adonde el Senor da esta luz, de entender lo mucho que se gana en padecer por El! No se entiende esto bien hasta que se deja todo, porque quien en ello se està, senal es que lo tiene en algo; pues si lo tiene en algo, forzado le ha de pesar de dejarlo, y ya va  imperfeto todo y perdido. Bien viene aquì, que es perdido quien tras perdido anda... Y qué màs perdiciòn, y que màs ceguedad, qué màs desventura que tener en mucho lo que no es nada?» S. TERESA, Libro de la Vida, cap. 34. Obras, I, pag. 291.



5 S. AUGUSTINUS, De consensu Evangelistarum, lib. 1, cap. 12, n. 18: ML 34-1050; cap 18, n. 26: ML 34-1053, 1054. - Vedi però Appendice, 70.



6 S. HIERONYMUS, Epistola 22, ad Eustochium, De custodia virginitatis, n. 25. ML 22-411.



7 «Quels sentiments, dit ce Bienheureux, relevés, ardents et pressants, je ressens, toujours confirmé par ce divin amour... Enfin, nous sommes tout à Dieu sans autre prétention que l' honneur d' être des siens. Si j' avais un seul filet d' affection qui ne fût pas à lui et de lui, eh Dieu! je l' arracherais tout soudain. Qui, si j' avais un seul brin de mon coeur qui ne fût marqué du crucifix, je ne le voudrais pas garder d' un seul moment.» S. J. Fr. de  CHANTAL, Déposition pour la canonisation de S. François, art. 26. Vie et Œuvres, tom. 3. - «Il dit un jour, en l' excés de son esprit, à une personne de confiance, de qui nous le tenons: «Certes, dit-il, si je connaissais un seul filet d' affection en mon âme qui ne fût de Dieu, en Dieu et pour Dieu, je m' en déferais aussitôt; et j' aimerais mieux n' être point du tout, que de n' être point tout à Dieu, et sans réserve. Si je savais la moindre partie en moi qui ne fût point marquée de la marque de Jésus-Christ, je m' en dessaistrais incontinent, et la rejetterais en la maniére que l' Ecriture nous enseigne, qu' il faut arracher l' oeil ou la main ou le pied qui nous scandalisent.» CAMUS, Esprit, partie 10, ch. 9. - «Libenter dicam caritati vestrae, quod si vel minimum suspicarer in corde meo dilectionis motum qui ad Deum non tenderet, aut alteri quam divino consecraretur amori, infidelem ac spurium hunc animi mei foetum, omni conatu, cum ipsis visceribus evellere satagerem, nec in mente mea abortivum illud vel uno momento paterer.» S. FRANÇOIS DE SALES, Œuvres,  XXI, Annecy, 1923, Lettre 1969, au Père de Quoex (traduite du français par le destinataire, au procès de béatification). - Cf. Œuvres, XIII, Lettre 358, (juillet-aôut 1606), à la Baronne de Chantal.



8 S. GIOVANNI DELLA CROCE, Salita del Monte Carmelo, lib. 1, cap. 11. -Vedi Appendice, 71.



9 «Va muy fuera del espiritu de Descalzas ningùn género de asimiento, aunque sea con superiora, ni medraràn en espiritu jamàs. Libres quiere Dios a sus esposas, asidas a solo El... Oh espiritu verdadero de obediencia, còmo en viendo una en lugar de Dios no le queda repunancia para amarla! Por El pido a Vuestra Reverencia, que mire que cria almas para esposas del Crucificado; que las crucifique en que no tengan volunad, ni anden con ninerias. Mira que es principiar en nuevo reino (i. e. en el antiguo Reino de Granada); y que Vuestra Reverencia y las demàs estàn màs obligadas a ir como varones esforzados, y no como mujercillas.» S. TERESA, Carta 421, a la M. Ana de Jesùs, Priora de Granada, y a sus religiosas, 30 de mayo de 1582. - Il Padre Francesco di S. Maria, O. C., nelle sue Croniche, (Riforma dei Scalzi di Nostra Signora del Carmine, tom. 1, lib. 5, cap. 32), riferisce quindici « Avvisi che diede la gloriosa Madre S. Teresa dopo il suo felice transito ». L' avviso decimo viene espresso in questi termini: «Procurinsi di ammaestrare le anime molto staccate da tutto il creato interiormente ed esteriormente, poiché si allevano per spose d' un Re tanto geloso, che vuole che ancor di sé stesse si scordino.» S. Alfonso ha conosciuto tanto la Lettera quanto l' Avviso, giacché, nelle sue opere, cita ora l' una, ora l' altro. Qui si riferisce alla Lettera, e pure il suo testo  piuttosto conforme a quello del' Avviso. Per altro, non vi è differenza sostanziale tra i due testi.



10 (Eletta Maestra delle Giovani, cioé delle novelle professe uscite dal Noviziato), « le stimolava con sì vive parole ed all' osservanza della povertà ed alla spropiazione d' ogni minima cosa, che non si può esprimere... S' accorse... che (una di quelle) portava affetto particolare ad un libro, nel quale da se stessa avea scritte alcune cose spirituali; onde per renderla più pura nel cospetto di Dio, le impose che sul fuoco lo gittasse.» PUCCINI, Vita, Firenze, 1611, parte 1, cap. 54.



11 Vedi Appendice, 72.



12 S. GERTRUDIS MAGNA, Legatus divinae pietatis, lib. 4, cap. 26. - Vedi Appendice, 73.



13 «Las que de esta manera se pudieren encerrar en este cielo pequeno de nuestra alma, adonde està el que le hizo, y la tierra, y acostumbrar a no mirar ni estar adonde se destrayan (distraigan) estos sentidos exteriores, crea que ll'va ecelente camino, y que no dejarà de llegar a beber el agua de la fuente, poque camino mucho en poco tiempo... Està, màs siguros de muchas ocasiones; pégase màs presto al fuego del amor divino, porque con poquito que soplen con el entendimiento, como estàn cerca del mesmo fuego con una centellica que le toque se abrasarà todo. Como no hay embarazo de lo exterior, estàse sola el alma con su Dios; hay gran aparejo para encenderse.» Camino de perfecciòn, cap. 28. Obras, III, pag. 130, 132.



14 «Da totum pro toto: nil exquire, nil repete: 14. Sta pure et inhae-itanter in me: et habebis me.» De Imitatione Christi, lib. 3, cap. 37.



15 Vedi Appendice, 74.



16 «Alcune volte mi pareva che era vergogna il dire a Nostro Signore: Io vi amo più dei cieli, più della terra, più degli angioli; come sarebbe vergogna dire a un amico: Io vi amo più di una piuma o più di un soldo, ecc.; poiché senza comparazione è da più Dio di tutto il creato, che non è l' uomo o di una piuma o di un soldo.» Sentimenti e lumi spirituali del Ven. P. LUIGI DA PONTE, Roma, 1690, § 8, n. 33.



17 Da qual fonte abbia attinto S. Alfonso questa narrazioncella, non sappiamo. Un fatto simile - se pur non è lo stesso - di chi andasse in cerca di Dio nella solitudine, viene cautamente riferito da S. EUCHERIO (Epistola de laude eremi, n. 4: ML 50-703): «Ferunt quemdam alii quaerenti quali inesse loco Deum crederet, respondisse ut quo se duceret impiger sequeretur. Tum comitante eodem, ad late patentis eremi secreta venisse. Et ostendens solitudinis vastae recessum: «En, inquit, ubi Deus est.» Nec immerito ibi esse promptius creditur, ubi facilius invenitur.»



18 «Virgines benedictis vestibus, exceptis velis, indutae, binae et binae, seriatim redeunt ad Pontificem, cantantes Responsorium...: Regnum mundi, et omnem ornatum saeculi contempsi, propter amorem Domini nostri Iesu Christi: Quem vidi, quem amavi, in quem credidi, quem dilexi.»  PONTIFICALE ROMANUM, De benedictione et consecratione Virginum.



19 «Quand il voulait porter les âmes à la vie chrétienne et leur faire quitter la vie du monde, il ne leur parlait point de l' extérieur, ni des cheveux, ni des habits, ni de semblables choses; il ne parlait qu' au coeur et du coeur, sachant que, ce donjon gagné, le reste ne tient plus. Quand le feu est dans une maison, disait-il, voyez-vous comme l' on jette tous les meubles par les fenêtres. Quand le vrai amour de Dieu posséde un coeur, tout ce qui n' est point de Dieu nous semble fort peu de chose.» CAMUS, Esprit de S. François de Sales, partie 3, ch. 27.



20 «Scrisse (il P. Segneri Iuniore) in una sua lettera che «l' amore d' Iddio è un caro ladro, il quale ci spoglia di tutti gli affetti, sino a poter dire al suo Amato: Quid volui super terram, nisi te, Domine? Come il fuoco vuol sempre abbrucciare, così egli vuol sempre spogliarci: e non avendo poi di che spogliarci, caccia le mani dentro il cuore, spogliandoci sino delle consolazioni, sino de' nostri privati interessi, acciò sia unicamente, intieramente, perfettamente posseduto dal suo Signore.» GALLUZZI, S. I., Vita, lib. 4, c. 1.



21 « Eremita spoliatus a praedonibus, et in semiuncilis ambulans seminudus, interrogatus quis eum spoliasset, respondit: «Codex iste caelestis, docens omnia esse danda pauperibus.» Cui cum diceretur quia adhuc aliquid haberet, ipsa semiuncia pauperi dedit.» PETRUS BLESENSIS, Sermo 46, In festo Omnium Sanctorum sextus, ML 207-699.700.



22 «O Dieu, quelle bénédiction de rendre toutes nos affections humblement et exactement sujettes à celles du plus pur amour divin! Ainsi l' avons-nous dit, ainsi a-t-il été résolu, et notre coeur a pour sa souveraine loi la plus grande gloire de l' amour de Dieu. Or, la gloire de ce saint amour consiste à brûler et consumer tout ce qui n' est pas luiméme, pour réduire et convertir tout en lui. Il s' exalte sur notre anéantissement, et régne sur le trône de notre servitude. Mon Dieu, ma trés chére Mére, que ma volonté s' est trouvée dilatée en ce sentiment!» S. François de Sales, Œuvres, XXI, Lettre 1966 (sans date), à la Mére de Chantal. - «Le divin amour supplante et assujettit les affections et passions... O sainte et sacrée alchimie! ô divine poudre de projection, par laquelle tous les métaux de nos passions, affections et actions sont convertis en l' or trés pur de la céleste dilection!» Traité de l' amour de Dieu, liv. 11, ch. 20: Œuvres, V, Annecy, 1894, pag. 312, 313. - «Ma chère Fille, toyt ce qui se fait pour l' amour est amour; le travail, oui même la mort n' est qu' amour, quand c' est pour l' amour que nous les recevons.» Œuvres, XV, Annecy, 1908, Lettre 713, à la Mère de Chantal, 14 semptembre 1611.



23 S. TERESA, Conceptos del amor de Dios, cap. 6. Obras, IV, Burgos, 1917. -Vedi Appendice, 75.



24 «Siquidem oportet ut nos ipsos primum abnegemus, et crucem sustollamus, ac tum demum illum sequamur. Nihil est autem aliud sui ipsius abnegatio, nisi summa rerum omnium vitae superioris (i. e. praeteritae) oblivio, atque a sui ipsius voluntatibus recessio.» S. BASILIUS, Regulae fusius disputatae, Interrogatio 6. Opera, tom 2., Parisiis, 1637, curante Godefrido Tilmanno Cartusiano, pag. 539. - MG 31-925.



25 Oratio quotidiana B. P. Francisci (ex variis documentis et auctoribus collecta): inter Opera S. FRANCISCI, Pedeponti, 1739, tom. 1, pag. 20. - BARTHOLOMAEUS DE PISIS, Liber conformitatum, Mediolani, 1513, fol. 41. -Vedi Appendice, 76.



26 «1. Ecce Deus meus, et omnia. Quid volo amplius; et quid felicius desiderare possum? O sapidum et dulce verbum! sed amanti Verbum, non mundum nec ea quae in mundo sunt. 3. Deus meus, et omnia. Intelligenti satis dictum est: et saepe repetere iucundum est amanti.» De Imitatione Christi, lib. 3, cap. 34.



27 «Soleva dir loro (agli ecclesiastici) ben spesso che fossero molto avvertiti a non inchinarsi all' amore dei parenti, né lasciarsi muovere dal loro affetto a far cosa men che degna di ecclesiastico; anzi non aver con loro molta familiarità, perché quest' amore dei parenti ha gran forza di piegare l' animo, e deviarlo molto da quella retta intenzione del puro servizio di Dio, che si ricerca in un ecclesiastico; e di più lo raffredda nel fervore della carità e negli esercizi delle buone opere, e l' induce eziandio talora a far cose aliene dalla vita e professione sua. E soleva portar un esempio di se stesso, dicendo che mai andava a casa de' suoi parenti, benché di rado vi andasse, che non sentisse in un certo modo raffreddarsi lo spirito ed indebolire le forze nelle cose spettanti al servizio di Dio.» GIUSSANO, Vita, lib. 8, cap. 11.



28 «Dalla nobilissima stirpe Giusmana e Mendoza trasse la sua origine il P. Antonio (de Mendoza, + 1596)... Una delle sue rare virtù fu il tener celata ogni sua virtù, e ogni altra cosa che gli potesse appresso gli altri dar qualche lustro. Non parlava mai de' suoi illustri parenti: anzi, quando fu nel Messico, dov' essi erano, fuggiva a più potere d' abboccarsi con loro. Gli fu detto una volta: perché mostrar lui tanta avversione a' parenti? Rispose: «Perché dall' esperienza ho imparato che in niun luogo i religiosi perdono tanto la divozione, quanto in casa dei lor parenti.» PATRIGNANI, Menologio d. C. d. G. 24 maggio.



29 «Si vero non sint (parentes) in tali necessitate ut filiorum obsequio multum indigeant, possunt, praetermisso parentum obsequio, filii religionem intrare, etiam contra praeceptum parentum; quia post annos pubertatis quilibet ingenuus libertatem habet quantum ad ea quae pertinent ad dispositionem sui status, praesertim in his quae sunt divini obsequii; et mgis est obtemperandum patri spirituum ut vivamus, quam parentibus carnis, ut Apostolus dicit ad Hebr. XII, 9.» S. THOMAS Aquinas, Sum. Th., II-II, qu. 189. art. 6. c.



30 «Frequenter amici carnales adversantur profectui spirituali, secundum illud Mich. VII, 6: Inimici hominis domestici eius.» S. THOMAS, Summ. Th., II-II, qu. 189. art. 10, ad 2.



31 Epistola 111, ex personna Eliae monachi ad parentes suos: : «... Si diligeretis me, gauderetis utique quia vado ad meum atque vestrum, imo universorum Patrem... O durum patrem! o saevam matrem! o parentes crudeles et impios: imo non parentes, sed peremptores; quorum dolor, salus pignoris; quorum consolatio, mors filii est!... Domus ardet, ignis instat a tergo, et fugienti prohibetur egredi, evadenti suadetur regredi!... Quare vos non potius sequimini me fugientem, ut non ardeatis? ... Quid ergo? ibo et consolabor lugentem matrem meam mei ad tempus visitatione, ut in aeternum lugeam et me et ipsam sine consolatione? Ibo, inquam, et satisfaciam patri meo irascenti pro mei ad tempus absentia, consolandus et ipse ad tempus de eius praesentia, ut postmodum et quisque pro se, et uterque pro alterutro, inconsolabili desoletur tristitia? Desinite igitur, parentes mei, desinite et vos frustra plorando affligere, et me gratis revocando inquietare: ne, si adieceritis nuntios ultra mittere pro me, plus me elongare cogatis. Si autem dimittitis, Claram-Vallem in perpetuum non dimittam... Ibi pro meis atque vestris peccatis iugiter orabo; ibi precibus assiduis - quod et vos cupitis - impetrabo, si potero, ut, qui eius amore hoc modico tempore ab invicem separamur, in alio saeculo simul felici et inseparabili societate, in eius amore vivamus per omnia saecula saeculorum. Amen.» S. BERNARDUS, l. c. ML 182-254, 255.



32 Lud. HABERT, Theologia dogmatica et moralis, De sacramento Ordinis, pars 3, cap. 1, § 2. - Vedi Appendice, 77.



33 Anche il P. Rosignoli, S. I. (La saggia elezione, parte 1, cap. 2, § 1: Opere, tom. 3, Venezia, 1713, pag. 451) scrive: «Parlò pure da quel savio e santo uomo che era il P. LUIGI DI GRANATA, quando chiamò l' elezione dello stato regola universale e ruota maestra di tutta la vita.»



34 Restant autem duo de quibus consiliari relinquitur his qui religionis assumendae propositum gerunt: quorum unum est de modo religionem intrandi, aliud autem est si aliquod speciale impedimentum habeant, per quod impediantur a religionis ingressu, puta si sint servi, vel matrimonio iuncti, vel aliquid huiusmodi. Sed ab hoc consilio primo quidem amovendi sunt carnis propinqui. Dicitur enim Prov. XXV, 9: Causam tuam tracta cum amico tuo, et secretum extraneo ne reveles. Propinqui autem carnis in hoc proposito amici non sunt, sed potius inimici, secundum illud quod habetur Micheae VII, 6: Inimici hominis domestici eius. Quod etiam Dominus introducit Matth. X, 36. In hoc igitur casu sunt praecipue vitanda carnalium propinquorum consilia.» S. THOMAS, Contra pestiferam doctrinam retrahentium homines a religionis ingressu, cap. 9. Opera, Romae, 1570, tom. 17, opusc. 17, fol. 110.



35 Vedi Appendice, 78.



36 «Subdiaconi et diaconi ordinentur habentes bonum testimonium, et in minoribus ordinibus iam probati.» CONCILIUM TRIDENTINUM, Sessio 23, Decretum de reformatione, cap. 13.



37 Decreti prima pars, distinctio 24, C. 2: «Nullus ordinatur clericus, nisi probatus fuerit, vel episcoporum examine, vel populi testimonio.»



38 «Nullus in posterum ad subdiaconatus ordinem ante vigesimum secundum, ad diaconatus ante vigesimum tertium, ad presbyteratus ante vigesimum quintum aetatis suae annum promoveatur. Sciant tamen episcopi non singulos in ea aetate constitutos debere ad hos ordines assumi, sed dignos dumtaxat, et quorum probata vita senectus sit.» CONCILIUM TRIDENTINUM, Sessio 23, Decretum de reformatione, cap. 12.



39 «Minores ordines iis qui saltem latinam linguam intelligant, per temporum interstitia, nisi aliud episcopo expedire magis videretur, conferantur, ut eo accuratius quantum sit huius disciplinae pondus possint edoceri, ac in unoquoque munere iuxta praescriptum episcopi se exerceant, idque in ea, cui adscripti erunt, ecclesia - nisi forte ex causa studiorum absint - atque ita de gradu in gradum adscendant, ut in iis cum aetate vitae meritum et doctrina maior accrescat, quod et bonorum morum exemplum, et assiduum in ecclesia ministerium, atque maior erga presbyteros et superiores ordines reverentia, et crebrior, quam antea, corporis Christi communio maxime comprobabunt. Cumque hinc ad altiores gradus et sacratissima mysteria sit ingressus, nemo iis initietur quem non scientiae spes maioribus ordinibus dignum ostendat. Hi vero non nisi post annum a susceptione postremi gradus minorum ordinum ad sacros ordines promoveantur, nisi necessitas aut ecclesiae utilitas iudicio episcopi aliud exposcat.» CONC. TRID., Sessio 23, Decretum de reformatione, c. 11.



40 «Si vero religiosus etiam ordine careat, sicut patet de conversis religionum, sic manifestum est excellere praeeminentiam ordinis quantum ad dignitatem: quia per sacrum ordinem aliquis deputatur ad dignissima ministeria, quibus ipsi Christo servitur in Sacramento altaris, ad quod requiritur maior sanctitas interior, quam requirat etiam religionis status.» S. THOMAS, Sum. Theol., II-II, qu. 184, art. 8, c.



41 «Ordines sacri praeexigunt sactitatem: sed status religiosus est exercitium quoddam ad sanctitatem assequendam. Unde pondus ordinum imponendum est parietibus iam per sanctitatem desiccatis: sed pondus religionis desiccat parietes, id est, homines ab humore vitiorum.» S. THOMAS, Sum. Theol., II-II, qu. 189, art. 1, ad 3.



42 «Ad idoneam exsecutionem ordinum, non sufficit bonitas qualiscumque, sed requiritur bonitas excellens, ut sicut illi qui ordinem suscipiunt super plebem constituuntur gradu ordinis, ita et superiores sint merito sanctitatis; et ideo praeexigitur gratia quae sufficiebat ad hoc quod digne connumerentur in plebe Christi, sed confertur in ipsa susceptione ordinis amplius gratiae munus, per quod ad maiora reddantur idonei.» S. THOMAS, Sum. Theol., IIIae partis supplementum (ex IV Sent.), qu. 35, art. 1, ad 3.



43 Lib. VI, tractatus 1, cap. 2, n. 63-77.



44 Inter Opera S. Anselmi, Coloniae, 1612. - Ven HERVEUS, In Epistolam ad Hebraeos, cap. 5. ML 181-1565. - Vedi Appendice, 79.



45 «Qui sciens et volens, nulla divinae vocationis habita ratione, sese in sacerdotium intruderet, haud dubie seipsum in apertissimum salutis discrime, iniiceret.» ABELLY, episcopus Ruthenensis (Rodez), Sacerdos christianus, seu Manuductio ad vitam sacerdotalem pie instituendam, editio tertia in Germania, Coloniae Agrippinae, 1698, pars 1, cap. 4.



46 «Prima conclusio. Quamvis morum integritas non sit de essentia sacramenti, est tamen praecepto divino maxime necessaria... Secunda conclusio. Quamvis honestas vitae sit in sacerdotibus et aliis ministris, scilicet diacono et subdiacono, necessaria necessitate praecepti, non tamen est de necessitate et essentia sacramenti, neque ad eorum usum... At vero, quod articulo praesenti de idoneitate eorum, qui sacris sunt ordinibus initiandi, definitur, non est generalis illa dispositio quae in suscipiente quodcumque sacramentum requiritur, ne sacramentalis gratia obicem inveniat: est enim illa quaedam actualis praeparatio. Sed definitio praesens ad morum habitus attinet. Enimvero, quoniam per sacramentum ordinis homo non solum gratiam suscipit, sed ad sublimiorem statum conscendit, requiritur in eo morum honestas et virtutum claritas, ut testimonia praecedentia (Scripturae et Patrum pro prima conclusione) testantur.» Dominicus SOTO, O. P., In IV Sententiarum, dist. 25, quaestio 1, art 4.



47 Vedi Appendice, 80.



48 «Nihil antiquius illi (Xaverio) fuit quam ut cupiditates, motusque animi a ratione abhorrentes atque honestate, quam maxime vinceret... Socios autem identidem admonebat, ut semet parvis in rebus vincere assuescerent; ita demum magnorum certaminum fore victores.» Hor TURSELLINUS, S. I., Vita, lib. 6, cap. 7. - «Nel domestico suo favellare, che sempre era o per Dio o di Dio, null' altro avea più spesso (S. Ignazio) in bocca, che, vince te ipsum: lezione tanto bene appresa da S. Francesco Saverio, ch' egli altresì a' nostri nell' Indie altro più frequentemente non ripeteva, che questo medesimo, vince te ipsum. » BARTOLI, S. I., Vita di S. Ignazio, lib. 4. § 12.



49 «Audi conclusionem: Inter omnia charismata Sancti Spiritus, quae Christus servis suis concessit et concedet, praecipuum est vincere seipsum, et libenter propter Deum et caritatem Dei opprobria sustinere.» S. FRANCISCUS ASSISIAS, Opusculum de vera et perfecta laetitia. Opera, tom. 1, Pedeponti, 1739, pag. 16, col. 2.



50 « Voluntatem dico propriam, quae non est communis cum Deo et hominibus, sed nostra tantum; quando quod volumus, non ad honorem Dei, non ad utilitatem fratrum, sed propter nosmetipsos facimus, non intendentes placere Deo et prodesse fratribus, sed satisfacere propriis motibus animorum. Huic contraria est recta fronte caritas, quae Deus est. Haec enim adversus Deum inimicitias exercens est, et guerram crudelissimam. Quid enim odit aut punit Deus praeter propriam voluntatem? Cesset voluntas propria, et infernus non erit.» S. BERNARDUS, In tempore Resurrectionis sermo 3, n. 3. ML 183-289, 290.



51 «Vereor ne et inter nos aliqui sint, quorum non acceptet munera Sponsus, eo quod non redoleant lilia. Etenim si in die ieiunii mei inveniatur voluntas mea, non tale ieiunium elegit Sponsus, nec sapit illi ieiunium meum, quod non lilium obedientiae, sed vitium propriae voluntatis sapit. Ego autem non solum de ieiunio, sed de silentio, de vigiliis, de oratione, de lectione, de opere manuum, postremo de omni observantia monachi, ubi invenitur voluntas sua in ea, et non obedientia magistri sui, id ipsum sentio. Minime prorsus observantias illas, etsi bonas in se, tamen inter lilia, id est inter virtutes, censuerim deputandas; sed audiet a propheta, qui eiusmodi est: Numquid tale est obsequium quod elegi, dicit Dominus? et addet: In die bonorum tuorum inveniuntur voluntates tuae (Is. LVIII, 3, 5). Grande malum propria voluntas, qua fit ut bona tua tibi bona non sint.» S. BERNARDUS, In Cantica, sermo 71, n. 14. ML 183-1128.



52 «Unde enim sunt scandala, unde turbatio (al. tribulatio) nisi quod propriam sequimur voluntatem, et temere quod volumus in corde nostro definientes, si quo modo id prohiberi contingat aut impediri, continuo etiam in impatientiam, in murmurationem et in scandalum proni sumus: non attendentes quoniam omnia cooperantur in bonum his qui secundum propositum vocati sunt sancti: et ipse, qui nobis casus videtur, sermo quidam Dei est, suam nobis indicans voluntatem?» S. BERNARDUS, Sermones de diversis, sermo 26, n. 3. ML 183-611.



53 «Cominciò (la Santa, in estasi) ad interrogare il Verbo Eterno... «Deh, Eterno Verbo, dimmi, ti prego, qual è quello impedimento che fa che questo per tutto spirante e tanto fruttificante spirito non faccia nell' anima l' intera opera sua? Egli è pur dolce ed ameno. Deh, dimmi , perché da tanto pochi è conosciuto e inteso il suo soave operare?...» Mostrò dopo queste parole di rispondere in persona del Verbo...: «Carissima mia sposa, varii sono gli impedimenti, grandi sono gli impedimenti, perché varii sono gli stati delle creature... Sappi che un impedimento, a quelli che sono lontani da me, è la malizia... Alcuni altri pongono l' impedimento del proprio volere. Altri non solo del proprio volere, ma ancora del proprio vedere e sapere, a tal che mi vogliono servire a modo loro. Vogliono il mio spirito, sì, ma lo vogliono in quel modo che piace loro, e quando a lor pare, e in questo modo si rendono inabili a riceverlo.» Vinc. PUCCINI, Vita, Firenze, 1611, parte 3, Prima Notte, pag. 17, 18.



54 S. TERESA, Moradas quintas, Obras, IV, cap. 1, pag. 70; cap. 2. pag. 78, 79. Camino de perfecciòn, cap. 28, Obras, III, pag. 133, 134. -Vedi Appendice, 81.



55 «Ella vedeva, tutto esser necessario quello che Dio ne manda - il quale solo attende a consumare tutti i nostri pravi movimenti di dentro e di fuori - e che tutte le villanie, ingiurie, infermità, povertà, tutti i dispregi, l' essere abbandonato da parenti ed amici, le tentazioni de' demoni, le confusioni, e tutte le altre cose che son contra l' umanità, sommamente ne son di bisogno, acciocché con esse combattiamo, sinché avendone la vittoria, sieno estinti in noi essi pravi movimenti, e più non gli stimiamo: anzi sino a tanto che più non ne paiano amare, ma soavi per Dio, le avversità, non potremmo far con lui questa unione.» S. CATERINA DA GENOVA, Vita (Marabotto e Vernazza), cap. 29.



56 S. GIOVANNI DELLA CROCE, Salite del Monte Carmelo, lib. 1, cap. 13. -Vedi Appendice, 82.






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