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S. Alfonso Maria de Liguori
Riflessioni utili a' Vescovi

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Introduzione da Th. Rey Mermet

Alfonso iniziò la stesura delle Riflessioni utili ai Vescovi per la pratica di ben governare le loro Chiese, dopo un ventennio di peregrinare missionario che lo aveva posto di fronte a tante situazioni carenti di cura pastorale.

Scrive il Tannoia: " Girando le Provincie, deplorò Alfonso l'indolenza di tanti Vescovi, che godendo de' beni delle Chiese, non facevansi carichi de' proprj doveri. Volendo giovare, e risvegliare in tutti lo zelo del proprio carattere, restrinse in un libriccino le precise loro obbligazioni. Quest'operetta quanto è picciola di mole, altretanto è gravida di sensi ".

L'inviò "a tutt'i Vescovi Italiani" Forse bisogna leggere o aggiungere: "a tutt'i Vescovi dell'Italia meridionale ", dove era ben conosciuto e venerato e poteva perciò permettersi questa audacia, che egli certo sentiva come un problema di coscienza.

Non pretendeva assolutamente presentare alle Loro Eccellenze un nuovo "specchio del vescovo", non essendone sprovviste, a cominciare dalla Regula pastoralis di san Gregorio Magno fino al classico Buon Vescovo di Giuseppe Crispino (1682). Ma i vescovi trovavano il tempo per immergersi in queste opere? Alfonso aveva fatto voto di non perdere un minuto, detestava i chiacchieroni e gli scrittori prolissi, come le speculazioni fatte per il solo gusto di speculare.

Nella introduzione all'opuscolo scriveva: "Già vi sono molti libri, che trattano diffusamente degli obblighi de' prelati circa il governo delle loro chiese. Io però, avendo avvertito coll'uso di venti anni di missioni, che molte notizie non giungono alle orecchie de' vescovi, per solo desiderio della gloria di Gesù Cristo ho voluto notare solamente qui in succinto in questi pochi fogli alcune riflessioni di maggior peso, che possono loro molto giovare per meglio regolarsi nella pratica così circa le cure più principali del loro officio (e cioè: il seminario, gli ordinandi, i sacerdoti, i parroci, la casa vescovile e le monache), come circa i mezzi più efficaci che debbono usare per la coltura delle loro greggie (cioè: l'orazione, il buon esempio, la residenza, la visita pastorale, le missioni, il sinodo, la prudenza nel consigliarsi, la disponibilità alle udienze, il coraggio nel correggere); e questo è stato l'unico mio intento. Queste cure e questi mezzi si noteranno in due brevi capitoli, sperando nella divina bontà, che queste povere carte, le quali per il poco conto che merita l'autore, non meriterebbero neppure d'esser mirate, siano lette almeno per la loro brevità con qualche profitto".

Qual era il tipo di vescovo al quale si rivolgevano le Riflessioni di Alfonso? Un corpo di pastori poco simile all'episcopato dell'Ancien Régime che pontificava allora in Francia e in Germania.

Nel Regno di Napoli la mitra episcopale non era più, e da lungo tempo, riservata alla nobiltà: i 147 vescovi erano generalmente poveri, in diocesi troppo piccole. Fu questa una delle ragioni per cui, anche se i vescovi non rispettavano tutti il dovere della residenza, la commenda vi era fortunatamente quasi sconosciuta? I soggetti poi erano ben selezionati: il re aveva diritto di nomina per 22 sedi e le sue scelte erano serie, anche perché dovevano essere accettate da Roma; alle altre 125 provvedeva la Santa Sede e vi metteva tanta più oculatezza e cura, quanto più il Regno era vicino e quindi facile informarsi. Generalmente i vescovi venivano scelti tra l'élite del clero napoletano, degli Ordini religiosi o dei capitoli canonicali, per cui si ebbero uomini medi, tra i quali alcuni giganti di zelo e di santità, come Costantino Vigilante o il venerabile Antonio Lucci. Buona parte del loro tempo e delle loro energie veniva per forza di cose spesa non in commissioni nazionali, come accade oggi, ma in sterili diatribe: in alto, con un potere regale meticolosamente "sagrestano"; in basso, con i sacerdoti e i "patroni" laici delle chiese ricettizie.

I capitoli di Alfonso non erano quindi una requisitoria, ma un programma concreto ed esigente, che partiva dalla constatazione che intorno a vescovi "onesti" andavano a rotoli cleri e fedeli miserabili, e dalla convinzione, nata anch'essa dall'esperienza, che vescovi santi e zelanti erano capaci di cambiare il mondo. Da qui la loro responsabilità: " ...bisogna persuadersi ogni vescovo, che in ricever la mitra si addossa gran pesi sulla coscienza ".

È questo uno dei tratti più marcati della mentalità e della coscienza di Alfonso: la responsabilità è... dei responsabili. Se in missione invitava i notabili a uno speciale ritiro, non era certo per adulare la loro classe sociale, ma per il peso delle loro decisioni, del loro spirito, del loro esempio su tutta una baronia. Con più forti ragioni: nelle diocesi, dai vescovi "dipende la santificazione de' popoli", nelle parrocchie, "dalla cura de' parrochi dipende il profitto o la ruina de' popoli"; nei monasteri, "dalle superiore e dai confessori dipende l'osservanza o il rilassamento"; nei seminari, occorrono prima di tutto non buoni seminaristi, ma un "buon rettore", "buoni professori", prefetti "attempati, spirituali e forti nel correggere".

Non rispettare le responsabilità può comportare il pericolo di perdizione: Alfonso sottolinea " il gran pericolo che hanno i prelati di perdersi " e, citando san Giovanni Crisostomo che ne metteva in inferno più della metà, aggiunge: "se in ciò il santo esageri troppo, io non lo so ".

Quando sarà eletto vescovo anche lui, dirà: "Io tremo, ritrovandomi anch'io vescovo... Io prescindo qui dalla questione se chi pretende di esser vescovo, stia in istato di peccato mortale; ma non intendo come possa alcuno che desidera di assicurar la sua salute, pretendere di esser vescovo, e porsi volontariamente in tanti pericoli di perdersi, a' quali i vescovi son soggetti" (6).

Cf. Th. ReyMermet,

Il Santo del secolo dei lumi

Città Nuova 1982, pp. 487-488; 627

 

 

 

 




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