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S. Alfonso Maria de Liguori Rifless. sulla Passione di Gesù Cristo IntraText CT - Lettura del testo |
CAPO IX - Tutte le nostre speranze dobbiamo riporle né meriti di Gesù Cristo
1. Non est in alio aliquo salus (Act. IV, 12). Dice S. Pietro che tutta la nostra salute sta in Gesù Cristo, il quale per mezzo della croce, ove sagrificò per noi la sua vita, ci aprì la via a sperare da Dio ogni bene se siamo fedeli a' suoi precetti. -Udiamo quel che dice della croce S. Giovan Grisostomo: Crux spes Christianorum, claudorum baculus, consolatio pauperum, destructio superborum, contra daemones triumphus, adoloscentium paedagogus, navigantium gubernator, periclitantium portus, iustorum consiliarius, tribulatorum requies, aegrotantium medicus, martyrum gloriatio (S. Chrysost. Hom. de cruce, tom. III).1 La croce dunque, dice il santo, cioè Gesù crocifisso, è la speranza de' fedeli, perché se non avessimo Gesù Cristo, non vi sarebbe per noi la speranza di salute. È il bastone de' zoppi: tutti siamo zoppi nel presente stato di corruzione, altra forza non abbiamo di camminare nella via della salute che solamente quella che ci comunica la grazia di Gesù Cristo. È la consolazione de' poveri, quali siamo tutti, poiché quanto abbiamo, tutto l'abbiamo da Gesù Cristo. È la distruzione de' superbi, poiché i seguaci del Crocifisso non sanno esser superbi, vedendolo morto qual malfattore sulla croce. È il trionfo de' demoni, mentre il solo segno della croce basta a discacciarli. È il maestro de' principianti: quanti belli insegnamenti dà la croce a quei che cominciano a camminare nella via di Dio! È il nocchiero de' naviganti: oh come ben ci guida la croce nelle tempeste della presente vita! È porto de' pericolanti: quei che stanno in pericolo di perdersi per le tentazioni o forti passioni, trovano un porto sicuro ricorrendo alla croce. È consigliera dei giusti: quanti santi consigli ci dà la croce, cioè la tribulazione nel tempo della vita! È riposo degli afflitti: e dove gli afflitti provano maggiore sollievo che nel mirar
la croce ove patisce un Dio per loro amore? È medico degl'infermi: gl'infermi che si abbracciano colla croce, restan guariti da tutte le piaghe dell'anima. È la gloria de' martiri: questa è la maggior gloria che hanno i martiri, di esser fatti simili a Gesù Cristo re de' martiri.
2. In somma tutte le nostre speranze son poste ne' meriti di Gesù Cristo. Dicea l'Apostolo: Scio et humiliari, scio et abundare (ubique et in omnibus institutus sum); et satiari et esurire; et abundare et penuriam pati. Omnia possum in eo qui me confortat (Philip. IV, 12 et 13). Sicché S. Paolo, ammaestrato dal Signore, come dichiarò, dicea: Io so come deggio portarmi; quando Dio mi umilia, io so rassegnarmi al suo volere; e quando m'innalza, so renderne a lui tutto l'onore; quando il Signore mi fa godere l'abbondanza, io so ringraziarlo; quando mi fa patir la penuria, anche lo benedico; ma tutto ciò non lo fo per mia virtù, ma per la forza della grazia che Dio mi dona: Omnia possum in eo qui me confortat. Nel testo greco in vece delle parole in eo qui me confortat, sta, in corroborante me Christo:2 chi diffida di sé e confida in Gesù Cristo, vien da esso avvalorato con una forza invincibile.- Il Signore, dicea S. Bernardo, rende onnipotenti tutti coloro che in esso pongono la lor confidenza: Omnipotentes facit omnes qui in se sperant (Serm. LXXXV in Cant.). Soggiungeva il santo che un'anima che non presume delle sue forze, ma e confortata da Gesù Cristo, ella potrà esser talmente padrona di se stessa, che non lascerà farsi dominare da alcun peccato: Ita animus si non praesumat de se sed confortetur a Verbo, poterit dominari sui, ut non dominetur ei omnis iniquitas. E poi concludea che per colui che si appoggia a Gesù non vi è né forza né frode né piacere che possa abbatterlo: Ita Verbo innixum nulla vis, nulla fraus, nulla illecebra poterit stantem deiicere.3
3. L'Apostolo pregò tre volte Iddio che lo liberasse da un solletico impuro che lo molestava, e gli fu risposto: Sufficit tibi gratia mea; nam virtus in infirmitate perficitur (II Cor. XII, 9). Come va che la virtù si perfeziona nella debolezza? Spiega S. Tommaso col Grisostomo: Quanto è maggiore la nostra debolezza e l'inclinazione al male, tanto maggior forza comunica Dio a chi confida in lui.4 Quindi soggiungea S. Paolo
nel luogo citato: Libenter igitur gloriabor in infirmitatibus meis, ut inhabitet in me virtus Christi. Ben dunque, dicea, io mi glorierò nelle mie debolezze, mentre così meglio in me si stabilirà la virtù di Gesù Cristo. Siegue poi a dire: Propter quod placeo mihi in infirmitatibus meis, in contumeliis, in necessitatibus, in persecutionibus, in angustiis pro Christo; cum enim infirmor. tunc potens sum (Ibid. vers. 10). Perciò, dicea, io mi compiaccio di vedermi così debole nel soffrire per Gesù Cristo le ingiurie, la povertà, le persecuzioni e le angustie, perché allora, quanto più mi vedo infermo, tanto più confido in lui, e così divento più forte.
4. Verbum enim crucis pereuntibus quidem stultitia est; iis autem qui salvi fiunt, id est nobis Dei virtus est (I Cor. I, 18). Qui S. Paolo ci avverte a non seguire i mondani che metton la loro confidenza nelle ricchezze o ne' loro parenti ed amici del mondo, e stimano pazzi i santi che disprezzano questi appoggi terreni; ma gli uomini dabbene ripongono tutte le loro speranze nell'amor della croce, cioè di Gesù crocifisso che ottiene ogni bene a chi in esso confida. Bisogna non però avvertire insieme che la potenza e fortezza del mondo è tutta diversa da quella di Dio: quella si acquista colle ricchezze e cogli onori mondani; ma questa si acquista coll'umiltà e tolleranza; onde scrisse S. Agostino che la fortezza nostra è nel conoscerci deboli e confessarci con umiltà miseri quali siamo: Fortitudo nostra est infirmitatis in veritate cognitio, et in humilitate confessio (S. Aug. Lib. de grat. Chr. c. 12).5 E S. Girolamo disse che tutta la perfezione della vita presente è nel conoscerci imperfetti: Haec una praesentis vitae perfectio est ut te imperfectum agnoscas (Epist. ad Ctesiphont.).6 Sì, perché quando noi ci riconosciamo per quegl'imperfetti che siamo, allora, diffidando delle nostre forze, ci abbandoniamo in Dio il
quale protegge e salva coloro che in lui confidano: Protector est omnium sperantium in se (Ps. XVII, 31). Qui salvos facis sperantes in te (Ps. XVI, 7). Aggiunge Davide che chi confida nel Signore diventa forte come un monte, che non sarà smosso da tutti gli sforzi 'de suoi nemici: Qui confidit in Domino, sicut mons Sion, non commovebitur in aeternum (Ps. CXXIV, 1).7 Quindi S. Agostino ci ammonisce che ne' pericoli di peccare, quando siamo tentati, dobbiamo ricorrere ed abbandonarci in Gesù Cristo, il quale non si ritirerà per lasciarci cadere, ma ci abbraccerà per sostenerci, e così rimedierà alla nostra debolezza: Proiice te in eum, non se subtrahet ut cadas; excipiet te et sanabit te.8
5. Gesù Cristo colle debolezze assunte sovra di sé della nostra umanità, ci ha meritata una forza che supera la debolezza nostra. Dice S. Paolo: In eo enim in quo passus est ipse et tentatus, potens est et eis qui tentantur auxiliari (Hebr. II, 18). Come va questo che il Salvatore per essere stato anch'egli tentato può avvalorarci nelle nostre tentazioni? S'intende perché Gesù Cristo con essere stato amitto dalle tentazioni, si è renduto più proclive a compatirci e darci aiuto quando noi siamo tentati. Al che corrisponde quell'altro testo che spiega lo stesso Apostolo: Non enim habemus Pontificem qui non possit compati infirmitatibus nostris; tentatum autem per omnia pro similitudine absque peccato (Hebr. IV, 15). Quindi ci esorta l'Apostolo a ricorrere con confidenza al trono della grazia, qual'è la croce, acciocché riceviamo dal Crocifisso la grazia che desideriamo: Adeamus ergo cum fiducia ad thronum gratiae, ut misericordiam consequamur et gratiam inveniamus in auxilio opportuno (Ibid. vers. 16).
6. Gesù col sottoporsi a patire timori, tedi e mestizie, siccome ci attestano i Vangelisti parlando delle afflizioni ch'egli specialmente patì nell'orto di Getsemani nella notte precedente alla sua morte: Coepit pavere, taedere, contristari et maestus esse (Marc. XIV, 33, et Matth. XXVI, 37),9 ci ha meritato
il coraggio di resistere alle minacce di coloro che vogliono pervertirci; il vigore di superare il tedio che proviamo nell'orazione, nelle mortificazioni ed in altri esercizi divoti; e la forza di soffrire con pace la mestizia che ci affanna nelle avversità. Sappiamo in oltre ch'egli nell'orto, a vista di tanti dolori e della morte desolata che l'aspettava, volle patire tal debolezza nell'umanità, che disse: Spiritus quidem promptus est, caro autem infirma (Matth. XXVI, 41). E giunse a pregare il suo divino Padre che se era possibile, ne l'avesse liberato: Pater mi, si possibile est, transeat a me calix iste (Matth. XXVI, 39). Ma poi subito soggiunse: Verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu (Ibid.). E per tutto quel tempo che seguì ad orare nell'orto, replicò sempre la stessa preghiera: Fiat voluntas tua... Et oravit tertio eumdem sermonem dicens (Ibid. vers. 44). Gesù Cristo con quel fiat allora meritò ed ottenne a noi la rassegnazione in tutte le cose avverse, ed impetrò a' martiri e suoi confessori la fortezza di resistere a tutte le persecuzioni e tormenti de' tiranni: Haec vox " fiat " omnes confessores accendit, omnes martyres coronavit: così scrisse San Leone (De Pass. serm. 7, cap. 5).10 Così parimente coll'abborrimento de' nostri peccati che gli fecero patire nell'orto un'aspra agonia - factus in agonia prolixius orabat (Luc. XXII, 43) - merito a noi la contrizione delle nostre colpe. Coll'abbandono del Padre che soffrì nella croce, ci meritò il vigore di non perderci d'animo nelle desolazioni ed oscurità di spirito. Col chinare la testa spirando su quel patibolo per ubbidire alla volontà del Padre - factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis (Philip. II, 8), - ci meritò tutte le vittorie che otteniamo contra le passioni e le tentazioni, e la pazienza nei dolori della vita e particolarmente nelle amarezze - ed angustie che si soffrono nella morte.
7. Insomma scrive S. Leone che Gesù Cristo venne a prendersi le nostre infermità ed affanni per comunicarci la sua virtù e costanza: Venit nostra accipiens, et sua retribuens
(Serm. III, Cap. 4).11 Dice S. Paolo: Et quidem cum esset Filius Dei, didicit ex iis quae passus est obedientiam (Hebr. V, 8): Imparò da tutto quel che patì, ad ubbidire. Ciò non s'intende già che Gesù nella sua Passione avesse appresa la virtù dell'ubbidienza che prima ignorava, ma s'intende, come spiega S. Anselmo, ch'egli nella sua Passione imparò, oltre la scienza che ne aveva, anche colla sperienza, quanto fosse dura la morte che patì per ubbidire al Padre.12 Ed insieme allora sperimentò quanto è grande il merito dell'ubbidienza; mentre con quella ottenne per sé il sommo grado della gloria, quale fu quello di sedere alla destra del Padre, ed ottenne per noi l'eterna salute. Quindi soggiunse l'Apostolo: Et consummatus factus est omnibus obtemperantibus sibi causa salutis aeternae (Ibid. vers. 9). Dice consummatus, poiché avendo perfettamente adempita l'ubbidienza, con soffrire pazientemente quanto patì nella sua Passione, si è fatto causa dell'eterna salute a tutti coloro che gli sono ubbidienti in soffrire con pazienza i travagli della vita presente.
8. Da questa pazienza di Gesù Cristo sono stati poi animati ed avvalorati i santi martiri ad abbracciare con pazienza i più fieri tormenti che la crudeltà de' tiranni ha saputo inventare, e non solo con pazienza, ma con gioia e desiderio di più patire per amore di Gesù Cristo. Leggasi la celebre lettera che S. Ignazio martire, già condannato alle bestie, scrisse a'
Romani prima di giungere al luogo del suo martirio: «Lasciate, disse, figliuoli miei, ch'io sia macinato da' denti delle fiere, acciocché sia ritrovato frumento del mio Redentore. Io non cerco altro che colui il quale è morto per me. Egli ch'è l'unico oggetto del mio amore, è stato per me crocifisso; e l'amore che gli porto fa ch'io desideri di esser crocifisso per lui.»13 S. Leone scrive del martire S. Lorenzo, che mentre stava sulla craticola era meno cocente il fuoco che bruciavalo di fuori, di quello che gli ardea di dentro.14 Scrivono Eusebio e Palladio15 di S. Potamiena, vergine di Alessandria, ch'essendo ella condannata ad essere gittata in una caldaia di pece bollente, la santa, affin di più patire per amore del suo sposo crocifisso, pregò il tiranno che ve l'avessero fatta entrare a poco a poco, acciocché la morte le fosse riuscita più tormentosa; ed ebbe l'intento, poiché cominciarono a calarla nella pece dai piedi, in modo ch'ella stiè tre ore in quel tormento, e non morì se non quando la pece arrivò al collo. Ecco la pazienza e la fortezza che riceverono i martiri dalla Passione di Gesù Cristo.
9. Or questo coraggio che il Crocifisso infonde a chi l'ama, facea poi dire a S. Paolo: Quis ergo nos separabit a caritate Christi? tribulatio? an angustia? an fames? an nuditas? an periculum? an persecutio? an gladius? (Rom. VIII, 35). Ma nello stesso tempo dicea ch'egli sperava di superar tutto in virtù e per amore di Gesù Cristo: Sed in his omnibus superamus propter eum qui dilexit nos (Ibid. vers. 37). L'amore de' martiri verso Gesù Cristo era invincibile, perché ricevea la forza dall'Invincibile che gli confortava a patire. E non
pensiamo già che ne' martiri i tormenti per miracolo perdessero la forza di tormentare o pure che le consolazioni celesti assorbissero il dolore de' tormenti; ciò forse avvenne tal volta, ma ordinariamente i tormentati ben sentivano i dolori, e molti per debolezza cedeano agli strazi; onde per coloro ch'eran costanti a soffrirli, la loro pazienza era tutto dono di Dio, che somministrava loro il vigore.
10. L'oggetto primario della nostra speranza è la beatitudine eterna, cioè il godimento di Dio, fruitio Dei, come insegna S. Tommaso.16 Tutti gli altri mezzi poi per conseguire la salute che consiste in godere Dio, come sono il perdono de' peccati, la perseveranza finale nella divina grazia e la buona morte, tutti dobbiamo sperarli non dalle nostre forze né da' nostri buoni propositi; ma solo da' meriti e dalla grazia di Gesù Cristo. - Acciocché dunque sia ferma la nostra confidenza, bisogna credere con certezza infallibile che l'adempimento di tutti questi mezzi della nostra salute, solo dobbiamo noi sperarlo da' meriti di Gesù Cristo.
«Et dixit mihi: Sufficit tibi gratia mea: virtus enim mea in infirmitate perficitur.... Ne mihi hoc imbecillitati adscribatur, quod multi sint qui tibi insidias adstruant, teque caedant et exagitent ac flagris conscindant: nam hoc potius meam potentiam indicat.... cum videlicet vos persecutionem patientes, eos qui vos persequuntur superatis; cum vexati, de iis qu vos vexant palmam refertis; cum vinculis adstricti, eos qui vos vinciunt convertitis. Quocirca supervacanea ne poscas. Vides qoumodo ipse aliam causam afferat, aliam Deus? Ipse enim ait: Ne extollar, datus est mihi stimulus carnis: Deum vero dixisse ait, se istud idcirco permittere, ut potentiam suam ostendat. Non igitur supervacaneam dumtaxat rem postulas, sed etiam quae potentiae meae gloriae tenebras offundat... Postquam igitur haec audivi, inquit, libentissime in infirmitatibus meis gloriabor.... Ostendit se ptopterea (propter persecutiones) illustriorem fieri, Deique potentiam hac ratione magis elucessere.... Unde etiam subiungit: Ut inhabitet in me virtus Christi. Hoc loco aliud quiddam tacite significat, quod quanto magis tentationes augebantur, tanto eiam magis gratia crescebat, ac permanebat.... Ac deinde aliam quoque causam ponit: Cum enim infirmor, tunc potens sum. Quid miraris, si Dei potentia tunc ostendatur? ipse quoque tunc potens sum, siquidem tunc maxime graia accedebat... Nam tunc etiam anima purgatur, cum propter Deum premitur: tunc maiori auxilio fruitur, atque ampliori gratia digna exsistit, cum maiore
subsidio opus habet.» S. Io. CHRYSOSTOMUS, In Epist. II ad Cor., hom. 26, n. 3. MG 61-578, 579. - Come si vede, e più chiaramente viene espresso un poco sopra e nei passi che abbiamo omessi, il Grisostomo intende, col nome di stimolo della carne, gli avversari dell' apostolato di Paolo. Ma la stessa ragione vale per la lotta contro i nemici della nostra salute.