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S. Alfonso Maria de Liguori
Selva di materie predicabili

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ISTRUZ. IX. Circa la mortificazione esterna.

 

Dice s. Gregorio che niun uomo è degno d'esser ministro di Dio e di offerire il sacrificio dell'altare, se prima non sacrifica a Dio tutto sé stesso: Nullus Deo et sacrificio dignus est, nisi qui prius se viventem hostiam exhibuerit6. E s. Ambrogio dice: Hoc est sacrificium primitivum, quando quisque se offert, ut postea munus suum possit offerre7. E prima disse il Redentore Nisi granum frumenti cadens in terram mortuum fuerit, ipsum solum manet8. Chi dunque vuole far frutti di vita eterna bisogna che muoia a se stesso, cioè che niente desideri per propria soddisfazione ed abbracci tutto ciò che morte alla carne, come scrisse s. Gregorio: Nihil quod caro blanditur libeat; nihil quod carnalem vitam trucidat


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spiritus perhorrescat1. Chi è morto a se stesso, dice Lanspergio, ha da stare in questo mondo come niente vedesse, niente udisse, niente lo sturbasse e niente lo contentasse se non Dio: Qui enim voluerit animam suam salvam facere, perdet eam2. Oh felice perdita, esclama s. Ilario, perder tutte le cose di questo mondo ed anche la vita per seguire Gesù Cristo ed acquistarsi la vita eterna! Iactura felix! Contemptus universorum, Christus sequendus et aeternitas comparanda. Dice s. Bernardo che se non vi fosse altra ragione di darci tutti a Dio, basterebbe solo il sapere che Dio si a dato tutto a noi: Integrum te da illi, quia ille ut te salvaret integrum se tradidit3. Ma per darci tutti a Dio bisogna discacciare da noi ogni desiderio di terra: Augmentum caritatis, scrive s. Agostino, diminutio cupiditatis; perfectio, nulla cupiditas4. Chi meno desidera i beni di questa terra, più ama Dio: chi niente desidera l'ama perfettamente

 

Parlammo nell'istruzione antecedente della mortificazione interna: parliamo ora dell'esterna che importa la mortificazione de' sensi; ed è anche necessaria, mentre per causa del peccato noi abbiamo con noi una carne nemica ch'è contraria alla ragione, siccome di sé lagnavasi l'apostolo: Video aliam leiem in membris meis repugnantem legi mentis meae5. Idest, come spiega s. Tommaso in detto luogo, concupiscentia carnis contrarians rationi. Bisogna intendere che o l'anima si ha da mettere sotto i piedi il corpo, o il corpo si metterà sotto i piedi l'anima. Dio ci ha dati i sensi affinché ce ne serviamo non già secondo piace a noi, ma secondo egli dispone: onde bisogna che mortifichiamo i nostri appetiti, che son contrarj alla divina legge: Qui... sunt Christi carnem suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiis suis6.

Perciò i santi sono stati così applicati a macerare il corpo. S. Pietro d'Alcantara propose di non dar mai alcuna soddisfazione al suo corpo e l'osservò sino alla morte. S. Bernardo maltrattò il suo corpo a tal segno che morendo gli domandava perdono. Dicea s. Teresa: «Il pensare che Dio ammetta alla sua amicizia gente comoda è sproposito». Ed in altro luogo: «Anime che da vero amano Dio non possono dimandar sollievi». E s. Ambrogio scrisse che chi non lascia di contentare il corpo, lascierà di contentare Dio: Qui non peregrinantur a corpore, peregrinantur a Domino7. Chi fa soggiacere la ragione alla carne, dice s. Agostino, è un mostro che cammina colla testa sotto e i piedi in su, inversis pedibus ambulat. Ad altro fine più nobile noi siam nati che per essere schiavi del nostro corpo: Ad maiora natus sum quam ut sim mancipium corporis mei; così parlava Seneca, un gentile. Quanto più dobbiam ciò dire noi che sappiamo per fede esser creati per godere Dio in eterno! Dice s. Gregorio che condiscendendo a' desiderj della carne, non facciamo altro che alimentar nemici: Dum carni parcimus, contra nos hostes nutrimus8.

 

Piange s. Ambrogio la disgrazia di Salomone, dicendo che questo infelice re ebbe la gloria di fabbricare il tempio di Dio, ma meglio avrebbe


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fatto a conservare a Dio il tempio del suo corpo, per cui contentare perdé poi il corpo, l'anima e Dio: Salomon templum Dei condidit; sed utinam corporis sui templum ipse servasset1! Noi abbiamo da trattare il nostro corpo come uno tratterebbe un cavallo furioso, sopra del quale andrebbe, tenendolo sempre colla briglia tirata. Inoltre dice s. Bernardo che noi dobbiamo contraddire al nostro corpo, come il medico contraddice all'infermo, che cerca ciò che gli nuoce e ricusa quel che gli giova. Se il medico concedesse all'infermo quel che l'uccide per contentarlo, non sarebbe un crudele? E così persuadiamoci che il compiacere il corpo non è carità, ma la maggior crudeltà che possiamo usare contro noi stessi; mentre, per contentare la carne per un momento, condanniamo l'anima a patire eternamente: così parla s. Bernardo: Ista caritas destruit caritatem, talis misericordia crudelitate plena est; quia ita corpori servitur ut anima iuguletur2. In somma bisogna che mutiamo palato e facciamo ciò che disse il Signore a s. Francesco: «Se mi desideri piglia le cose amare per dolci e le dolci per amare».

 

Notiamo i frutti della mortificazione esterna. Per 1. ella ci fa scontar le pene a noi dovute per li diletti presi, le quali pene in questa vita sono molto più miti che quelle dell'altra. Narra s. Antonino che ad un infermo fu proposto dall'angelo se voleva per tre giorni stare nel purgatorio o pure per due anni in letto con quell'infermità che pativa. L'infermo elesse i tre giorni di purgatorio; ma essendovi stato appena un'ora, si lamentava coll'angelo che in vece di tre giorni avesse fatto passare più anni. L'angelo gli rispose: «Che dici? Il tuo corpo ancora è caldo sul letto dove sei morto e tu parli di anniNon vis castigari? dice il Grisostomo; sis iudex tui ipsius, te reprehende et corrige. Per 2. la mortificazione stacca l'anima dai gusti terreni e la rende spedita per volare ad unirsi con Dio. Dicea s. Francesco di Sales: «Non potrà mai l'anima sollevarsi a Dio, se la carne non è mortificata e depressa». E lo stesso disse s. Girolamo: Anima in coelestia non surgit, nisi mortificatione membrorum3. Per 3. la penitenza ci fa acquistare beni eterni, come rivelò s. Pietro d'Alcantara dal cielo a s. Teresa, dicendo: O felix poenitentia quae tantam mihi promeruit gloriam! Perciò i santi han cercato di macerar la loro carne continuamente e quanto più poteano. Dicea s. Francesco Borgia che sarebbe morto sconsolato in quel giorno in cui non avesse mortificato il suo corpo con qualche penitenza. La vita molle e deliziosa in questa terra non può essere la vita d'un cristiano.

 

Se non abbiamo lo spirito di mortificare il corpo con gran penitenze, almeno facciamo qualche mortificazione piccola, almeno sopportiamo con pazienza quelle penalità che ci occorrono; per esempio quell'incomodo, quella veglia, quella puzza in assistere a' moribondi, in andar a confessare i carcerati, in ascoltare la confessione de' rozzi che male odorano e cose simili. Almeno priviamoci di quando in quando di alcun piacere lecito. Dice Clemente alessandrino: Cito facient quae non licent


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qui faciunt omnia quae licent1. Chi vuol prendere tutte le soddisfazioni che per se stesse son lecite difficilmente starà lungo tempo senza prendersi le illecite. Il gran servo di Dio, il p. Vincenzo Carafa della compagnia di Gesù, dicea che Dio ci ha donate le delizie di questa terra non solo per dilettarci, ma ancora affinché noi avessimo onde esser grati con lui, donandogli i suoi medesimi doni col privarcene per dimostrargli il nostro amore; essendoché all'incontro, come scrive s. Gregorio, facilmente s'astiene da' piaceri illeciti chi si è avvezzato ad astenersi da' leciti.

 

Ma parliamo delle mortificazioni che possiamo fare circa i nostri sensi in particolare e specialmente circa la vista, circa il gusto e circa il tatto. E per 1. bisogna mortificare la vista. Dice s. Bernardo: Per oculos intrat ad mentem sagitta amoris2. Le prime saette che feriscono l'anima casta e talvolta la fan morire entrano per gli occhi. Oculus meus depraedatus est animam meam3. Per mezzo degli occhi sorgono i mali pensieri nella mente. Dicea s. Francesco di Sales: «Quel che non si vede non si desidera». Perciò il demonio prima tenta a guardare, indi a desiderare e poi ad acconsentire. Così praticò col nostro medesimo Salvatore: Ostendit ei omnia regna mundi; e poi lo tentò dicendo: Haec omnia tibi dabo, si cadens adoraveris me4. Con Gesù Cristo niente poté guadagnare il maligno; ma ben guadagnò facendo così con Eva, la quale vidit... quod bonum esset lignum... et pulchrum... et tulit etc.5. Dice Tertulliano che certe piccole occhiate exordia sunt maximarum iniquitatum. E s. Girolamo scrisse che gli occhi sono come certi uncini che quasi ci tirano a forza al peccato: Oculi quasi quidam raptores ad culpam6. Dee pertanto serrar le porte chi non vuole che i nemici entrino nella piazza. L'abate Pastore, per aver guardata una donna, per quarant'anni fu tentato di mali pensieri. S. Benedetto similmente per aver veduto una donna quando stava nel secolo, ritrovandosi poi nell'eremo, fu talmente molestato dalla tentazione che per vincerla si gittò nudo tra le spine e così la vinse. Similmente s. Girolamo, stando nella grotta di Betlemme, fu per molto tempo vessato da pensieri osceni per causa d'alcune donne vedute in Roma. Questi santi vinsero coll'aiuto di Dio e colle orazioni e penitenze; ma tanti altri per cagion degli occhi miseramente son caduti: per causa degli occhi cadde un Davide; per causa degli occhi cadde un Salomone. Specialmente è orrendo il fatto che narra s. Agostino di Alipio. Questi andò al teatro con proposito di non guardare, dicendo: adero absens; ma poi tentato a guardare, dice il santo che non solo prevaricò, ma giunse a farsi pervertitore anche degli altri: Spectavit, clamavit, exarsit, abstulit inde insaniam.

 

Ben disse dunque Seneca che l'esser cieco è un grande aiuto per conservarsi innocente: Pars innocentiae est caecitas. Non è lecito a noi cavarci gli occhi per esser ciechi, ma dobbiamo renderci ciechi con chiuderli e non vedere ciò che può istigarci al male: Qui claudit oculos suos ne videat malum... iste in excelsis habitabit7. Perciò disse Giobbe aver


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fatto patto cogli occhi suoi di non guardar alcuna donna, acciocché poi non avessero a molestarlo i mali pensieri: Pepigi foedus cum oculis meis, ut ne cogitarem quidem de virgine1. S. Luigi Gonzaga non ardiva di alzare gli occhi neppure in faccia alla sua madre. S. Pietro d'Alcantara asteneasi di guardare anche i suoi fratelli religiosi, tanto che alla voce li conosceva, ma non alla vista. Disse il concilio turonense che i sacerdoti debbon guardarsi da ogni cosa che può offendere i loro occhi o le loro orecchie: Dei sacerdotes abstinere debent ab omnibus quae ad aurium et oculorum pertinent illecebras2. E specialmente in ciò debbono star cautelati i sacerdoti secolari che praticano spesso per le piazze e per le case dei laici. Se essi danno libertà agli occhi di mirar tutti gli oggetti che lor si presentano, difficilmente si manterranno casti. Ci avverte lo Spirito santo: Averte faciem tuam a muliere compta… : propter speciem mulieris multi perierunt3. E se a caso qualche volta scappano gli occhi, dice s. Agostino, almeno guardiamoci di fissarli in alcuno: Etsi oculi nostri iaciantur in aliquam, defigantur in nulla4. Quindi bisogna astenersi di andare a balli, a commedie profane o altri ridotti secolareschi dove convengono uomini e donne. E quando per necessità si ha da assistere in qualche luogo dove son donne, ivi bisogna specialmente attendere alla modestia degli occhi. Il p. Alvarez assistendo ad una funzione pubblica della degradazione d'un sacerdote, perché ivi stavano donne, si prese in mano un'immagine della b. Vergine, ed a lei tenne fissi sempre gli occhi per più ore mentre durò la funzione, per timore che non s'incontrasse a veder qualche donna. Sin dalla mattina che ci svegliamo, preghiamo il Signore con Davide: Averte oculos meos, ne videant vanitatem5.

 

Oh quanto giova per noi ecclesiastici, ed oh che edificazione degli altri è il tener gli occhi bassi! È celebre il fatto di s. Francesco d'Assisi, che, dicendo al compagno di dover andare a fare una predica, uscì dal convento, fe' una girata per la terra, tenendo sempre gli occhi bassi. Ritirati che furono, dimandò il compagno: «E la predica dov'è?» Rispose il santo: «La predica è fatta colla modestia degli occhi che abbiam fatta vedere a questa gente». Nota un autore che gli evangelisti dicono in più luoghi che il nostro Salvatore in alcune occasioni alzò gli occhi a guardare (elevatis oculis in discipulos6: cum sublevasset ergo oculos Iesus7), per significarci ch'egli ordinariamente tenea gli occhi bassi. Onde s. Paolo scrisse, lodando la modestia di Gesù Cristo: Obsecro vos per mansuetudinem et modestiam Christi8. Dice s. Basilio che bisogna tener gli occhi dimessi verso la terra e l'anima sollevata verso il cielo: Oportet oculos habere ad terram deiectos, animum vero ad coelum erectum9. E s. Girolamo scrisse che la faccia è lo specchio dell'anima e che gli occhi pudici dimostrano la pudicizia del cuore: Speculum mentis est facies, et tacite oculi cordis fatentur arcana10. All'incontro dice s. Agostino: Impudicus oculus impudici cordis est nuntius11. Aggiunge s. Ambrogio


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che gli stessi moti del corpo dinotano la compostezza o scompostezza dello spirito: Vox animi, corporis motus1. Quindi narra il santo ch'egli fece mal prognostico di due uomini per averli veduti camminare scompostamente; e il prognostico si avverò, perché in fatti uno si scoprì empio e l'altro eretico. S. Girolamo, parlando specialmente degli uomini sacri, dice che ogni loro azione, discorso e portamento è un insegnamento per li secolari: Quorum habitus sermo, vultus, incessus doctrina est.

 

Pertanto il concilio di Trento disse: Sic decere omnino clericos vitam moresque suos componere ut habitu, gestu, incessu nihil nisi grave ac religione plenum praeseferant2. Ed il Grisostomo scrisse: Sacerdos animo splendescere oportet, ut illustrare possit qui oculos in eum convertunt3. Sicché il sacerdote dee dare esempio a tutti di modestia in ogni cosa; modestia negli occhi, modestia nel camminare, modestia nel parlare, e specialmente nel parlar poco e nel parlare come si dee. Nel parlar poco. Chi parla assai cogli uomini segno che parla poco con Dio. Le anime d'orazione sono di poche parole. Quando s'apre la bocca del forno n'esce il calore. In silentio proficit anima, disse Tomaso da Kempis. E s. Pier Damiani: Custos iustitiae silentium. E prima disse Isaia: In silentio et spe erit fortitudo vestra4. Nel silenzio sta la fortezza, perché nel parlare assai non manca mai qualche colpa: In multiloquio non deerit peccatum5. Nel parlar come si dee. Disse s. Anselmo: Os tuum os Christi; non debes, non dico ad detractiones, ad mendacia, sed nec ad otiosos sermones os aperire6. Chi ama Dio, procura di parlar sempre di Dio. Chi ama anche una persona di terra, par che non sappia parlare che di quella. Memento, dice Gilberto, os tuum coelestibus oraculis consecratum; sacrilegium puta, si quid non divinum sonet7. Offende anche la modestia, dice s. Ambrogio, il parlare con voce troppo alta: Vocis sonum liberet modestia, ne cuiusquam offendat aurem vox fortior8. Conviene ancora alla modestia non solo l'astenersi dal dir parole immodeste, ma anche dal sentirle: Saepi aures tuas spinis, linguam nequam noli audire9. Dee ben anche il sacerdote usar modestia nelle vesti. Dice s. Agostino che alcuni, per comparire ben vestiti di fuori, si spogliano di modestia di dentro: Ut foris vestiaris, intus expoliaris10. Il vestir di seta, il vestir di corto con bottoni d'argento a' polsi, fibbie d'argento alle scarpe, manicotti di velluto alle mani, dinota che vi è poca virtù nell'anima. Scrive s. Bernardo: Clamant nudi et dicunt: nostrum est quod effunditis; nostris necessitatibus detrahitur quidquid accedit vanitatibus vestris11. Fu scritto nel concilio niceno II. can. 16.: Virum sacerdotalem cum moderato indumento versari debere: et quicquid non propter usum, sed ostentatorium ornatum assumitur, in nequitiae reprehensionem incurrere. Dee anche usare modestia ne' capelli. Martino papa ordinò che i cherici non ministrassero nella chiesa se non col capo tosato in modo che comparissero le orecchie: Nisi attonso capite, patentibus auribus. Qual giudizio pertanto faremo di coloro che Clemente alessandrino


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chiama illiberales tonsos, cioè che sono avari de' loro capelli, non permettendo che si taglino se non con gran parsimonia? Che vergogna, dice s. Cipriano, è il comparire un ecclesiastico colla chioma composta a somiglianza di donna! Capillis muliebribus in foeminam transfiguratus1! E prima lo notò l'apostolo, scrivendo a' corinti, che il nudrire la chioma siccome è gloria delle donne, così è ignominia d'un uomo: Vir quidem, si comam nutriat, ignominia est illi2. E ciò dicea d'ogni uomo anche secolare. Or qual concetto si farà d'un ecclesiastico che porta la chioma a modo di perrucchino? e taluno ancora coi capelli arricciati e forse anche imbiancati di polvere? Dicea Minuzio Felice che noi ecclesiastici dobbiamo farci conoscere per tali non già cogli ornamenti del corpo, ma coll'esempio della modestia: Nos non notaculo corporis, sed modestiae signo facile dignoscimur3. Scrisse parimente s. Ambrogio che il portamento del sacerdote dee esser tale che gli altri in vederlo faccian concetto di Dio, di cui quel sacerdote è ministro: Decet actuum nostrorum esse publicam aestimationem, ut qui videt ministrum altaris Dominum veneretur, qui tales sacerdotes habeat4. Sicché per contrario un sacerdote immodesto fa perdere la venerazione verso Dio.

 

Parliamo per 2. della mortificazione del gusto o sia della gola. Scrive il p. Rogacci nel suo Uno necessario che la maggior parte della mortificazione esterna consiste nel mortificar la gola. E perciò dicea s. Andrea Avellino che dee cominciare a mortificar la gola chi vuole incamminarsi alla perfezione. E così attesta s. Leone aver praticato i santi: Tyrocinium militiae christianae sanctis ieiuniis inchoarunt5. S. Filippo Neri ad un suo penitente, che in ciò era poco mortificato, disse: «Figlio mio, se non mortifichi la gola, non ti farai mai santo». Tutti i santi hanno molto atteso a mortificarsi nel vitto. S. Francesco Saverio non cibavasi d'altro che d'una branca di riso abbrustolato. S. Giovan Francesco Regis non d'altro che d'un poco di farina cotta con acqua. S. Francesco Borgia, essendo ancora secolare e viceré di Catalogna, non si cibava che di pane e d'erbe. S. Pietro d'Alcantara non d'altro che d'una scodella di brodo. Dicea s. Francesco di Sales che noi dobbiamo mangiare per vivere, non vivere per mangiare. Alcuni par che vivano solo per mangiare, facendo diventare, come dicea l'apostolo, il ventre lor Dio: Inimicos crucis Christi, quorum finis interitus, quorum Deus venter est6. Scrisse Tertulliano che il vizio della gola morte o almeno molto nuoce a tutte le virtù: Omnem disciplinam victus occidit aut vulnerat7. Il peccato della gola è stato la causa della rovina del mondo; Adamo per cibarsi d'un pomo recò la morte a sé ed a tutto il genere umano.

 

Ma specialmente i sacerdoti che hanno il voto della castità debbono mortificare la gola. Dice s. Bonaventura che dalla intemperanza del vitto si nudrisce l'impudicizia: Luxuria nutritur a ventris ingluvie8. E s. Agostino scrisse Si ciborum nimietate animus obruatur, illico mens torpescit et spinas libidinum germinabit. Quindi


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nel canone apostolico 42. si disse: Sacerdotes qui intemperanter ingurgitant deponendi sunt. Disse il Savio: chi ha avvezzato il suo servo a vivere delicatamente, dopo non lo troverà ubbidiente a ciò che gli ordina: Qui delicate a pueritia nutrit servum suum, postea sentiet eum contumacem1. Non diamo, avverte s. Agostino, forze alla carne, colle quali combatta contro l'anima: Ne praebeamus vires corpori, ne committat bellum adversus spiritum2. Narra Palladio che un certo monaco il quale molto attendeva alle penitenze, interrogato perché tanto straziasse il suo corpo, saggiamente rispose: Vexo eum qui vexat me. Lo stesso facea e dicea s. Paolo: Castigo corpus meum et in servitutem redigo3. La carne, quando non è mortificata, difficilmente ubbidisce alla ragione. All'incontro dice s. Tomaso che il demonio, se resta vinto tentando di gola, lascierà di tentar d'impudicizia: Diabolus victus de gula non tentat de libidine. Aggiunge Cornelio a Lapide che vinto il vizio della gola facilmente si vincono tutti gli altri vizi: Gula debellata, facilius christianus alia vitia profligabit4. Ma riflette Blosio che da molti più facilmente sogliono vincersi gli altri vizj che quello della gola: Ingluvies a plerisque superari difficilius solet quam caetera vitia5.

 

Ma dicono taluni: Dio apposta ha creati questi cibi acciocché li godiamo. Rispondo: Dio li ha creati acciocché ci servano per vivere, ma non già per abusarcene coll'intemperanza. Ed alcuni cibi deliziosi, non già necessari al sostentamento della vita, il Signore li ha creati ancora affinché talvolta ce ne mortifichiamo. Il pomo che Dio proibì ad Adamo lo creò acciocché Adamo se ne astenesse. Almeno in servircene osserviamo la temperanza. Per osservar la temperanza, dice s. Bonaventura, dobbiamo evitare quattro cose: 1. il mangiar fuor di tempo; 2. la soverchia avidità; 3. la troppa quantità; 4. la troppa delicatezza. Ecco le parole del santo: 1. Ante debitum tempus vel saepius comedere more pecudum; 2. cum nimia aviditate, sicut canes famelici; 3. nimis se implere ex delectatione; 4. nimis exquisita quaerere6. Che vergogna è vedere un sacerdote che spesso va cercando questi e quei cibi, e fatti in questo ed in quel modo; e se non vengono secondo tutto il genio della gola, inquieta i servi, i parenti e tutta la casa! I sacerdoti di spirito si contentano di quel che loro vien posto avanti. Avvertasi ancora quel che dice s. Girolamo: Facile contemnitur clericus qui saepe vocatus ad prandium ire non recusat7. Perciò i sacerdoti esemplari sfuggono di andare a' conviti, ne' quali ordinariamente poco si osserva la modestia e la temperanza: Consolatores nos potius, soggiunge s. Girolamo, laici in moeroribus suis, quam convivas in prosperis noverint.

 

Per 3. circa il sentimento del tatto per prima bisogna astenerci da ogni confidenza colle donne, ancorché parenti. Ma quelle mi son sorelle, nipoti. Ma son donne. I confessori cautelati saggiamente proibiscono alle loro penitenti anche che loro bacino la mano. Bisogna ancora circa questo sentimento (che è di molto pericolo per un sacerdote) usar tutta


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la cautela e modestia ancora con se stesso: Sciat unusquisque vestrum, esorta l'apostolo, vas suum possidere in sanctificatione... non in passione desiderii1. I sacerdoti santi sogliono ancora usare qualche penitenza afflittiva, come di disciplina o di qualche catenella. Alcuni disprezzano queste cose, dicendo che la santità consiste in mortificar la volontà. Ma io trovo che tutti i santi sono stati avidi di penitenze ed intenti a macerar quanto più poteano la loro carne. S. Pietro d'Alcantara portava un cilizio di ferro bucato che gli tenea lacerate tutte le spalle. S. Giovanni della Croce portava una giubba armata di ferri aculeati ed una catena di ferro, che per togliergliela in tempo di sua morte bisognò strappargli anche pezzi di carne. E diceva questo santo queste parole: «Chiunque si vedesse insegnar dottrina di remissione circa la mortificazione della carne, non gli si doni fede, benché la confermasse co' miracoli».

 

È vero che la mortificazione interna è la più necessaria; ma l'esterna anche è necessaria. Così saggiamente rispose s. Luigi Gonzaga a chi volea distorlo dal macerarsi col dirgli che la santità consiste nel vincer la propria volontà, adducendo le parole del vangelo: Haec oportet facere, et illa non omittere2. Disse il Signore alla madre Maria di Gesù teresiana: il mondo è perduto per li piaceri, non per le penitenze. Mortifica corpus tuum, et diabolum vinces, scrisse s. Agostino. Specialmente nelle tentazioni d'impurità è rimedio usato da' santi il macerar la carne. S. Benedetto e s. Francesco in tali tentazioni si rivoltarono ignudi tra le spine. Dice il p. Rodriguez: «Se uno tenesse una serpe avvolta a sé d'intorno, la quale cercasse continuamente co' suoi morsi avvelenati di ucciderlo, costui, se non potesse levarle la vita, almeno procurerebbe di levarle il sangue e le forze, acciocché questa avesse minor vigore di nuocergli». Disse Giobbe che la sapienza non si trova tra le delizie terrene: Nescit homo pretium eius, nec invenitur in terra suaviter viventium3. Lo sposo de' sacri cantici disse in un luogo ch'egli sta sul monte della mirra: Vadam ad montem myrrhae4. In altro luogo poi dice che si trattiene tra' gigli: Qui pascitur inter lilia5. Concilia Filiberto questi due testi, e dice che nello stesso luogo, cioè nel monte della mirra dove si mortifica la carne, ivi nascono e si conservano i gigli della purità: Lilia haec oriuntur in monte myrrhae, et illic illaesa servantur. Ubi carnis mortificantur affectus, ibi lilia castimoniae nascuntur et florent6. E se taluno un tempo ha offeso la castità, vuol la ragione che dopo castighi la sua carne: Sicut enim exhibuistis membra vestra servire immunditiae... ita nunc exhibete... servire iustitiae in sanctificationem7.

 

Almeno, se non abbiamo lo spirito di mortificar la carne colle penitenze, almeno, dico, procuriamo di accettar con pazienza quelle mortificazioni che ci manda Dio, d'infermità, di caldo, di freddo. S. Francesco Borgia arrivando tardi ad un collegio, gli bisognò di stare all'aria aperta per tutta una notte nella quale faceva un gran freddo e fioccava. Venuta la mattina, i padri del collegio


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si affliggevano; ma il santo disse che in quella notte era stato molto consolato, pensando che Dio era quegli che compiacevasi di mandargli quel vento gelato e que' fiocchi di neve. Curre, Domine, dice s. Bonaventura, curre et vulnera servos tuos vulneribus sacris, ne vulnerentur vulneribus mortis1. Così dobbiamo dir noi quando ci vediamo afflitti da morbi e da dolori: Signore, affliggeteci voi con queste ferite di salute, acciocché restiamo liberi dalle ferite mortali della carne. O pure diciam con s. Bernardo: Conteratur contemptor Dei; si recta sentis, dices: reus est mortis, crucifigatur: Sì, mio Dio, è giusto che sia afflitto chi vi ha disprezzato: io son reo di morte eterna; sia dunque io crocifisso in questa vita, affinché non sia tormentato eternamente nell'altra. Sopportiamo almeno dunque quelle pene che ci manda Dio. Ma bene avverte un autore che con difficoltà soffrirà con perfetta pazienza le pene necessarie chi non abbraccia le volontarie. Ed all'incontro dice s. Anselmo: Cessat vindicta divina, si conversio praecurrat humana2. Iddio lascerà di castigare quel peccatore che da sé stesso si castiga in pena de' suoi peccati.

 

Suppongono alcuni che la vita mortificata è vita infelice: ma no che non fa vita infelice chi si mortifica, bensì chi contenta i suoi sensi con offesa di Dio: Quis restitit ei, et pacem habuit3? Un'anima in peccato è un mare in tempesta: Impii... quasi mare fervens, quod quiescere non potest4. Dice s. Agostino che chi non ha pace con Dio egli è quel nemico che muove guerra a se stesso: Ipse sibi est bellum qui pacem noluit habere cum Deo5. Le soddisfazioni che diamo al corpo, quelle ci muovono guerra e ci rendono infelici: Unde bella et lites in vobis? nonne hinc? ex concupiscentiis vestris, quae militant in membris vestris6? All'incontro dice Dio: Vincenti dabo manna absconditum7. A' mortificati fa provare il Signore quelle dolcezze e quella pace ch'è nascosta agl'immortificati e che supera tutti i piaceri del senso: Pax Dei quae exsuperat omnem sensum8. Ond'è che quelli che vivono morti a' diletti terreni son chiamati beati: Beati mortui qui in Domino moriuntur9. I mondani stimano infelice chi vive lontano da' piaceri sensuali: Crucem vident, unctionem non vident, dice s. Bernardo: essi vedono le mortificazioni de' santi, ma non vedono le consolazioni interne colle quali Dio anche in questa vita gli accarezza. Non possono mancare le promesse di Dio: Tollite iugum meum super vos... et invenietis requiem animabus vestris10. Eh che un'anima amante di Dio non patisce nel mortificarsi! Qui amat non laborat, dice s. Agostino11: chi ama, in niente trova difficoltà. Amor nomen difficultatis erubescit, scrisse un altro autore. Siccome niente resiste alla morte, così niente resiste all'amore: Fortis est ut mors dilectio12.

 

Se vogliamo acquistare i piaceri eterni, dobbiam privarci de' temporali: Qui... voluerit animam suam salvam facere, perdet eam13. Onde dice s. Agostino: Noli amare in hac vita, ne perdas in aeterna vita. S. Giovanni vide i beati tutti colle palme


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nelle mani: Stantes ante thronum... et palmae in manibus eorum1. Per salvarsi tutti abbiam da essere martiri o di ferro per mezzo de' tiranni, o di mortificazione per mezzo di noi stessi. Intendiamo che tutto è niente quanto patiamo, a confronto della gloria eterna che ci aspetta: Non sunt condignae passiones huius temporis ad futuram gloriam quae revelabitur in nobis2. Queste brevi pene ci frutteranno una beatitudine eterna: Momentaneum et leve tribulationis nostrae... aeternum gloriae pondus operatur in nobis3. Quindi scrisse Filone ebreo: Oblectamenta praesentis vitae quid sunt nisi furta vitae futurae? Le soddisfazioni che concediamo al corpo con discapito dell'anima son furti del paradiso che noi facciamo a noi stessi. All'incontro dice il Grisostomo che quando Iddio ci occasione di patire è maggior grazia che la grazia di render la vita a' morti: Quando Deus dat alicui ut mortuos suscitet, minus dat quam cum dat occasionem patiendi. E ne apporta la ragione: Pro miraculis enim debitor sum Deo, at pro patientia debitorem habeo Christum. I santi sono le pietre vive di cui è composta la celeste Gerusalemme: Tamquam lapides vivi superaedificamini domus spiritualis etc.4. Ma queste pietre prima debbon lavorarsi collo scarpello della mortificazione: Scalpri salubris ictibus, canta la santa chiesa, et tunsione plurima fabri polita malleo hanc saxa molem construunt. Ogni atto dunque di mortificazione è un lavoro di paradiso. Questo pensiero ci renderà dolce tutto l'amaro che sentiremo nel mortificarci: Iustus autem ex fide vivit5. Per viver bene e salvarsi, dobbiam viver di fede, cioè a vista dell'eternità che ci aspetta: Ibit homo in domum aeternitatis suae6. Pensiamo, dice s. Agostino, che il Signore nello stesso tempo in cui ci esorta a combattere contro le tentazioni, ci aiuta e ci prepara la corona: Deus hortatur ut pugnes et deficientem sublevat et vincentem coronat7. L'apostolo, parlando de' lottatori, dice che se questi astengonsi da tutte le cose che possono loro impedire la vittoria d'una corona misera e temporale, quanto più noi dobbiam morire per acquistare una corona immensa ed eterna? Omnis... qui in agone contendit ab omnibus se abstinet; et illi quidem ut corruptibilem coronam accipiant, nos autem incorruptam8.

 




6 Orat. 1.



7 L. 2. de Abel c. 6.



8 Io. 12. 24. et 25.



1 Hom. 12. in evang.



2 Matth. 16. 25.



3 De mod. bene viv se. 8.



4 L. 83. quaest. 36.



5 Rom. 7. 23.



6 Galat. 5. 24.



7 L. 7. in Luc.



8 Ap. s. Bon. p. 2. c. 12.



1 Ap. 2. Dav. c. 3.



2 In apolog. ad Guill. ab.



3 In c. 6. ad Ephes.



1 Paedagog l. 1. c. 1.



2 Ser 13.



3 Thren. 3. 51.



4 Matth. 4. 8. et 9.



5 Gentile. 3. 6.



6 In c. 3. Thren.



7 Isa. 33. 15. et 16.



1 Iob. 31. 1.



2 Anno 811. can 7.



3 Eccl. 9. 8. et 9.



4 In Reg. 3. c. 21



5 Ps. 118. 37.



6 Luc. 6. 20.



7 Io. 6. 5.



8 2. Cor. 10. 1.



9 Serm. de Ascens. 20.



10 Epist. 10.



11 32. quaest. 5.



1 1. off. c. 18.



2 Sess. 22. c. 1.



3 De sacerd. l. 3. c. 12.



4 30. 15.



5 Prov. 10. 19.



6 Med. 1. §. 5.



7 Serm. 18. in Cant.



8 L. 1. off. c. 18.



9 Eccl. 28. 28.



10 Serm. 50. de temp.



11 Ep. ad Henric.



1 De ieiun.



2 l. Cor. 11 14



3 In Octavio.



4 L. 1. off. c. ult.



5 Serm. 1. in Pentec.



6 Phil. 3. 18. et 19.



7 De ieiunio.



8 De prof. relig. l. 2. c. 52.

 

 



1 Prov. 29. 21.



2 De sal. mon. c. 35.



3 1. Cor. 9. 27.



4 In 1. Cor. 9. 27.



5 Glos. in Enchir. doctr. 11.



6 De perfect. l. 1. c. 36.



7 Ad Nepot.



1 1. Thess. 4. et 5.



2 Matth. 23. 23.



3 28. 13.



4 4. 6.



5 2. 16.



6 Serm. 28 in Cant.



7 Rom. 6. 19.



1 Stim. div. am. c. 3.



2 In 1. Cor. 11. 7.



3 Iob. 9. 4.



4 Isa. 57. 20.



5 Serm. 11. de verb. Dom.



6 Iac. 4. 1.



7 Apoc. 2. 17.



8 Phil. 4. 7.



9 Apoc. 14. 13.



10 Matth. 11. 29.



11 In manual.



12 Cant. 8. 6.



13 Matth. 16. 25.



1 Apoc. 7. 9.



2 Rom. 8. 18.



3 2. Cor. 4. 17.



4 1. Petr. 2. 5.



5 Rom. 1. 17.



6 Eccl. 12. 5.



7 In ps. 32. conc. 1.



8 1. Cor. 9. 25.






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