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S. Alfonso Maria de Liguori
Sermoni compendiati

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SERMONE XLVIII. - PER LA DOMENICA XIX. DOPO PENTECOSTE

 

Della pena del danno che si patisce nell'inferno.

Mittite eum in tenebras exteriores, ibi erit fletus. (Matth. 22. 13.)

Secondo tutte le leggi divine ed umane la pena dee corrispondere alla gravità del delitto: Pro mensura peccati erit et plagarum modus3. Or l'ingiuria principale che il peccatore fa a Dio in commettere un peccato mortale è nel voltare le spalle al suo creatore e suo sommo bene: Aversio ab incommutabili bono, così si definisce il peccato mortale da s. Tommaso4. Di questa ingiuria precisamente si lamenta il Signore: Tu reliquisti me, dicit Dominus, retrorsum abiisti5. Essendo questa dunque


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la maggior reità del peccatore, il volere spontaneamente perdere Dio, giustamente nell'inferno la sua pena più grande sarà la perdita di Dio: Ibi erit fletus. Nell'inferno sempre si piange, ma quale è il soggetto più amaro di questo pianto de' poveri dannati? È il pensare che per loro colpa han perduto Dio. E questo sarà l'unico assunto del presente sermone. Attenti.

 

No, cristiani miei, non sono i beni di questa terra il fine per cui Dio ci ha posti nel mondo; il fine per cui egli ci ha creati, è per farci acquistare la vita eterna: Finem vero vitam aeternam1. La vita eterna è l'amare Dio e possederlo in eterno: chi conseguisce questo suo fine sarà per sempre felice: chi per sua colpa nol conseguisce, perde Dio, sarà per sempre infelice, piangendo e dicendo: Periit finis meus2.

 

Il dolore della perdita di una cosa corrisponde al valore della cosa che si perde. Se uno perde una gemma, un diamante che vale 100. scudi, sente gran pena: se valea 200. sente doppia pena: se 400. più pena. Ora dimando: qual bene ha perduto il dannato? Ha perduto Dio, un bene infinito. La pena pertanto della perdita di Dio, dice s. Tomaso, è una pena infinita: Poena damnati est infinita, quia est amissio boni infiniti3. Lo stesso scrisse prima s. Bernardo, dicendo che il valore di questa perdita si misura coll'infinità del sommo bene che è Dio. Dunque non fa l'inferno il fuoco che divora, non la puzza che ammorba, non le grida e gli urli che mandano continuamente i dannati, non la vista de' demonj che gli spaventa, non la strettezza di quella fossa di tormenti, ove giacciono i miseri gli uni sopra gli altri: la pena che fa l'inferno è l'aver perduto Dio; e tutte le altre pene non sono che un piccolo sorso a rispetto di questa. Il premio de' servi fedeli in paradiso, come Dio disse ad Abramo, è Dio stesso: Ego ero merces tua magna nimis4. Onde siccome la mercede del beato è Dio, così la perdita di Dio è la pena del dannato.

 

Ben disse perciò s. Brunone, che per quanto si aggiungessero a' dannati i tormenti, non mai eguaglierebbero la gran pena di essere privati di Dio: Addantur tormenta tormentis, at Deo non priventur5. Lo stesso scrisse il Grisostomo, parlando della perdita di Dio: Si mille dixeris gehennas, nihil par dices illius doloris6. Iddio ha tante belle parti per essere amato, che merita un amore infinito. Egli è così amabile che tiene in cielo talmente pieni di gaudio ed assorti i beati nel suo divino amore, che essi altro non bramano, né ad altro pensano, che ad amarlo con tutte le loro forze. Al presente i peccatori, per non lasciare i loro indegni piaceri, chiudono gli occhi per non conoscere Dio e l'amore che si merita; ma nell'inferno il Signore per loro castigo si farà conoscere per quel gran bene ed amabile che egli è: Cognoscetur Dominus iudicia faciens7. Il peccatore oppresso da' piaceri sensuali appena conosce Dio, lo conosce all'oscuro, e perciò poco stima il perderlo; ma nell'inferno ben lo conoscerà per suo castigo, e questo sarà l'unico suo pensiero che lo tormenterà in eterno, di aver perduto volontariamente


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questo sommo bene. Un certo dottore di Parigi comparve al suo vescovo e gli disse che era dannato. Il vescovo l'interrogò se nell'inferno si ricordava delle scienze, di cui era stato perito in vita. Rispose che nell'inferno non si pensa ad altro che alla pena di aver perduto Dio.

 

Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum1. Discedite a me, questa parola è quella che fa l'inferno; separatevi da me, voi non sarete più miei, ed io non sarò più vostro: Vos non populus meus, et ego non ero vester2. Questa pena, dice s. Agostino, ora solamente da' santi si teme: Haec amantibus, non contemnentibus poena est. Ella è una pena che più di tutti i tormenti dell'inferno spaventa gli amanti di Dio; ma non atterrisce i peccatori che vogliono vivere immersi fra le tenebre del peccato: in morte non però per loro maggior castigo intenderanno il gran bene di cui sono stati privati per loro colpa.

 

Bisogna intendere che l'uomo è creato per Dio, e naturalmente è tirato ad amarlo. In questa vita le tenebre del peccato e gli affetti terreni che in lui regnano tengono sopita questa sua tendenza ed inclinazione che ha di unirsi con Dio suo sommo bene, e perciò non molto l'affligge la pena di esserne separato; ma quando l'anima lascia il corpo ed è libera da' sensi che la tengono ottenebrata, allora chiaramente intende che ella è creata per Dio e che solo Dio è quel bene che può farla contenta, come dice s. Antonino: Separata autem anima a corpore intelligit Deum summum bonum, et ad illud esse creatam. Onde quando ella è sciolta da' legami del corpo subito si slancia per andare ad abbracciarsi col suo sommo bene; ma stando in peccato sarà da Dio respinta come nemica. Benché però respinta e discacciata, ella non perde la somma inclinazione che ha di unirsi con Dio, e questo sarà il suo inferno, in vedersi sempre tirata a Dio e sempre discacciata da Dio.

 

Se un cane vede la lepre, che forza fa per rompere la catena che lo tien legato, ed andare ad afferrar la preda? Così l'anima in dividersi dal corpo, da una parte è tirata a Dio, ma dall'altra il peccato la separa da Dio e la strascina seco all'inferno. Il peccato, dice il profeta, è come un muro d'immensa grandezza che si frappone e divide l'anima da Dio: Iniquitates vestrae diviserunt inter vos et Deum vestrum3. Onde la misera confinata in quel carcere, stando lontana da Dio, questo sarà il suo pianto, ibi erit fletus, il dire; dunque, mio Dio, io non sarò più vostra e voi non sarete più mio! Io più non vi amerò e voi più non mi amerete! Questa separazione da Dio spaventava Davide quando diceva: Nunquid in aeternum proiiciet Deus? Aut non apponet, ut complacitior sit adhuc4? E quale sciagura, diceva, sarebbe la mia, se Dio avesse per sempre a discacciarmi da sé e non avesse mai a placarsi meco? Ma questa sciagura già la patisce ogni dannato all'inferno, e la patirà in eterno. Davide, mentre stava in peccato, sentiva rimproverarsi dalla coscienza e dirsi: Ubi est Deus tuus? O Davide, dov'è il tuo Dio, che prima tanto ti amava? Ora tu l'hai perduto


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ed egli non è più tuo; e Davide afflitto da questo dolore, scrisse che notte e giorno non faceva altro che piangere: Fuerunt mihi lacrymae meae panes die ac nocte; dum dicitur mihi quotidie: Ubi est Deus tuus1? Così anche da' demonj sarà detto al dannato: misero, dov'è più il tuo Dio? Davide non però colle sue lagrime placò Dio e lo ricuperò; ma il dannato spargerà un mare immenso di lagrime, e non mai placherà il suo Dio, né mai lo ricupererà.

 

Dice s. Agostino che se i dannati vedessero la bellezza di Dio, Nullam poenam sentirent, et infernus ipse verteretur in paradisum2. Ma no che il dannato non potrà vedere più Dio. Quando Davide condannò Assalonne suo figlio a non comparirgli più davanti, fu tale il dolore di Assalonne, che pregò Gioabbo di dire a suo padre, che se gli proibiva di veder più la sua faccia, piuttosto l'avesse fatto morire: Obsecro ergo ut videam faciem regis, quod si memor est iniquitatis meae, interficiat me3. Filippo II. similmente ad un certo grande che stava in chiesa con irriverenza, disse con volto severo: Non mi comparite più dinanzi. Fu tanta la pena di quel grande, che giunto alla casa se ne morì di dolore. Che sarà quando Dio in morte dirà al reprobo: va via, che io non voglio vederti più, né tu vedrai più la faccia mia; secondo la minaccia fatta: Abscondam faciem ab eo, et invenient eum omnia mala4? Qual compassione fa il sentire un figlio che stava sempre unito col padre, mangiavano insieme e insieme dormivano; e poi morendogli il padre, il figlio piange e non trova pace dicendo: padre mio, ti ho perduto, non ti ho da vedere più! Ah se ora udissimo un'anima dannata che piange amaramente, e le chiedessimo: anima, perché tanto piangi? Risponderebbe la misera: piango perché ho perduto Dio e non l'ho da vedere più.

 

Accrescerà la pena del reprobo la cognizione che avrà della gloria del paradiso che godono i beati, e dalla quale egli si vede e si vedrà sempre escluso. Qual pena sarebbe ad alcuno, se essendo stato invitato dal principe a venire al suo teatro, a godere ivi della vista delle scene, de' canti e de' balli, ma poi per qualche mancanza commessa ne fosse escluso, e mentre sta di fuori udisse le voci di festa e gli applausi che fanno quei di dentro? Ora i peccatori disprezzano il paradiso e lo perdono per cose da nulla, dopo che Gesù Cristo ha speso tutto il suo sangue per renderci degni di entrarvi; ma quando saranno gl'infelici confinati all'inferno la cognizione del paradiso sarà per essi una pena più grande di tutte le altre pene. Scrive s. Giovanni Grisostomo che a' dannati il vedersi discacciati da quella patria di contenti sarà un dolore che avanzerà il dolore per diecimila volte di più sopra l'inferno che patiscono: Decem mille quis ponat gehennas, nihil tale dicet, quale est a beata gloria excidere5. Avessi almeno speranza, dirà il dannato, che dopo mille ed anche un milione di secoli in questi tormenti potessi ricuperare la divina grazia, e mi facessi degno di andare a vedere Dio in cielo! Ma no, si sentirà rispondere: Mortuo homine impio, nulla erit ultra spes6.


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Finché era in vita poteva salvarsi, ma essendo morto in peccato, la sua perdita è irreparabile. Onde il misero piangerà disperato: Non videbo Dominum Deum in terra viventium1.

 

Accrescerà a' reprobi la pena il pensare che han perduto Dio e il paradiso, solamente per loro colpa. Dirà ciascuno di quei miserabili: io potea fare una vita felice in terra, con amare Dio, e mi avrei acquistata un'immensa felicità in eterno; ma per aver amati i miei vizj, avrò da stare in questo luogo di tormenti, mentre Dio sarà Dio! Dirà allora le parole di Giobbe: Quis mihi tribuat, ut sim iuxta menses pristinos, secundum dies quibus Deus custodiebat me2! Oh chi mi concedesse di tornare al tempo di mia vita, quando Dio mi custodiva, acciocché io non cadessi in questo fuoco! Non era io già tra i barbari, tra gl'indiani, tra i chinesi, che fossi stato privo di sacramenti, di prediche e di maestri che m'istruissero: son nato in grembo alla vera chiesa, e ben sono stato ammaestrato ed ammonito da' predicatori e confessori. A questo carcere non già mi hanno strascinato i demonj, vi son venuto volontariamente io co' piedi miei: queste catene che mi tengono legato e lontano da Dio, io stesso me le ho fabbricate colla mia volontà. Quante volte Iddio mi ha parlato al cuore e mi ha fatto sentire: emendati e torna a me; vedi che non venga il tempo, in cui non potrai più rimediare alla tua rovina! Oimè questo tempo è già venuto e la sentenza è già fatta; son dannato, ed alla mia dannazione non vi è né vi sarà più rimedio per tutta l'eternità. Almeno, se già ha perduto Dio e non può più vederlo, potesse almeno amarlo; ma no, perché l'ha abbandonato la grazia, e con ciò fatto schiavo del suo peccato, è costretto a odiarlo. Questa è la disperazione del reprobo, il vedersi fatto contrario a Dio, per averlo disprezzato in vita: Quare me posuisti contrarium tibi, et factus sum mihimetipsi gravis3? Quindi è che il dannato vedendosi fatto contrario a Dio e suo nemico, nello stesso tempo che conosce Dio degno di un amore infinito, non avrà oggetto di maggiore orrore davanti a' suoi occhi che se medesimo; e questo sarà il castigo datogli da Dio, il maggiore d'ogni castigo, il vedere Dio così amabile, e se stesso così deforme e nemico di questo Dio: Statuam te contra faciem tuam4.

 

Accrescerà poi sommamente la pena del dannato la vista di quanto ha fatto Iddio per salvarlo: Peccator videbit et irascetur5. Videbit tutti i beneficj concessigli dal Signore, tutti i lumi dati, tutte le chiamate fatte, la pazienza che ha avuto in sopportarlo: Videbit sopra tutto quanto l'ha amato Gesù Cristo e quanto ha patito per sua amore, e poi si vedrà per sua colpa non più amato, ma odiato da Gesù Cristo: Si mille quis ponat gehennas, scrive il Grisostomo, nihil tale dicturus est, quale est exosum esse Christo6. Dunque, dirà il dannato, il mio Redentore che per compassione di me sudò sangue, patì agonia e volle morire abbandonato da ogni conforto, or non ha pietà più di me! Io piango, grido, ma egli più non mi sente né mi guarda più, e si è affatto scordato di me! Un


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tempo mi amava, ed ora mi odia e mi odia con ragione, perché io ingrato non ho voluto amarlo! Dice Davide che i presciti sono gittati nel pozzo della morte: Deduces eos in puteum interitus1. Onde poi scrisse s. Agostino: Puteus claudetur sursum, aperietur deorsum, dilatabitur in profundum; et ultra nescientur a Deo, qui Deum scire noluerunt2.

 

Sicché il dannato vede che Dio merita un infinito amore e che esso non può amarlo. S. Caterina da Genova un giorno infestata da un demonio, l'interrogò chi fosse: rispose quegli piangendo: Ego sum ille nequam privatus amore Dei; io sono quel misero che non posso amare più Dio. Il dannato non solo non può amare Dio, ma abbandonato nel suo peccato è costretto ad odiarlo; e questo è il suo inferno, l'odiare il suo Dio nello stesso tempo che lo conosce infinitamente amabile; l'ama veementemente come suo sommo bene, e l'odia come punitore del suo peccato: Res miserrima, dice un dotto autore, amare vehementer, et amatum simul odisse3. L'amore naturale lo tira continuamente a Dio, ma l'odio ne lo divide con violenza; queste due contrarie passioni sono come due fiere che ogni momento sbranano il cuore del povero dannato, onde lo fanno e lo faranno vivere in una continua morte per tutta l'eternità. Il reprobo dunque odierà e maledirà per sempre Dio, e odiando Dio, odierà e maledirà tutti i beneficj che gli ha fatti, la creazione, la redenzione, i sacramenti; e fra questi specialmente il sacramento del battesimo, per cui si è fatto maggiormente reo avanti a Dio co' suoi peccati; il sacramento della penitenza, con cui potea salvarsifacilmente, se voleva; e soprattutto il ss. sacramento dell'altare, in cui Dio gli avea donato tutto se stesso. Odierà conseguentemente tutti gli altri mezzi che gli sono stati di aiuto a salvarsi; onde odierà e maledirà tutti gli angeli e i santi; ma specialmente maledirà l'angelo suo custode, i santi suoi speciali avvocati, e più di tutti la divina madre Maria; ma principalmente poi maledirà le tre divine persone, il Padre, il Figliuolo e lo Spirito santo, e fra esse singolarmente maledirà Gesù Cristo, il Verbo incarnato, che un giorno ha tanto patito ed è morto per la di lui salute, maledicendo le piaghe di Gesù Cristo, il sangue di Gesù Cristo e la morte di Gesù Cristo. Ecco a qual fine il maledetto peccato conduce le anime comprate da Gesù Cristo a tanto suo costo.

 




3 Deut. 25. 2.

4 P. 1. qu. 24. a. 4.

5 Ier. 15. 6.

1 Rom. 6. 22.

2 Thren. 3. 18.

3 1. 2. q. 87. a. 4.

4 Gen. 15. 1.

5 Serm. de iud. fin.

6 Hom. 49. ad Pop.

7 Psal. 9. 17.

1 Matth. 25. 41.

2 Oseae 1. 9.

3 Isa. 59. 2.

4 Psal. 76. 8.

1 Psal. 41. 4.

2 L. de tripl. bab.

3 2. Regum 14. 32.

4 Deut. 31. 17.

5 Ap. s. Thom. suppl. qu. 98. art. 9.

6 Prov. 11. 7.

1 Isa. 38. 11.

2 Iob. 29. 2.

3 Iob. 7. 20.

4 Psal. 49. 21.

5 Psal. 111. 10.

6 Hom. 24. in Matth.

1 Psal. 54. 24.

2 Hom. 16. c. 50.

3 Magnotius medit.




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