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Sant'Alfonso Maria de Liguori
Storia delle Eresie

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ART. II. DELL'ERESIA DI ARIO

 

§. 1. Principj di Ario e sua condanna nel concilio niceno.

8. Origine di Ario. 9. Suoi errori e fautori. 10. Sinodo di Bitinia. 11. Sinodo di Osio in Alessandria. 12. Sinodo Ecumenico di Nicea. 13. Condanna di Ario. 14. 15. e 16. Formola di fede. 17. Esilio di Eusebio di Nicomedia e lettera maligna di Eusebio di Cesarea. 18. Bando di Ario. 19. Decreto pei Meleziani. 20. Decreto dei Quartordecimani. 21. Canoni. 22. Fine del Sinodo.

 

8. Ario fu africano, nato nella Libia Cirenaica. Egli passò in Alessandria colla speranza di ottener cariche ecclesiastiche. Era inteso di lettere umane e scienza profana. Era di maniere affabili, ma bruttissimo di aspetto, come scrive il Baronio3, ambizioso di gloria e amante di novità4. A principio Ario fu seguace di Melezio vescovo di Licopoli in Egitto nella Tebaide. Melezio ne' principj del quarto secolo non promosse già qualche errore contro la fede; ma per essere stato deposto per più delitti, anche d'idolatria da s. Pietro vescovo di Alessandria5, suscitò un grande scisma in Egitto contro s. Pietro, usurpandosi anche le ordinazioni a lui dovute. Ma Ario, vedendo che in quel partito non poteva avanzarsi secondo le sue idee, l'abbandonò; ed essendosi riconciliato con s. Pietro, ottenne di esser da esso promosso al diaconato; ma sapendo di poi il santo che Ario seguiva di nascosto a comunicar con Melezio, lo discacciò da Alessandria. Stando poi s. Pietro carcerato per la fede, e prossimo al martirio, Ario insisteva per esser di nuovo da lui ricevuto; ed allora, come rapporta Baronio6, ricavandolo dagli atti del martirio di s. Pietro, apparve Cristo al santo colla veste squarciata, e gli disse: Hanc mihi scidit Arius. Praecave omnino, ne eum in communionem recipias. Il p. Alessandro tiene per molto sospetta la detta visione7; ma i suoi argomenti non convincono. La riferita visione sta ancora descritta nel breviario nella festa di detto s. Pietro alli 26. di dicembre. Del resto Ario, dal vescovo Achille, il quale era succeduto nella cattedra a s. Pietro, martirizzato nell'anno 311., fu promosso al sacerdozio, ed anche fatto parroco di una chiesa, chiamata Baucale, in Alessandria8. Morto Achille, Ario ch'era già vecchio, come scrive Fleury, pretendea di succedergli nel trono, ma gli fu preferito s. Alessandro, uomo di gran sapienza ed illibato di costumi; onde Ario per invidia cominciò a censurare non solamente la di lui condotta, ma anche la dottrina, dicendo che s. Alessandro falsamente insegnava che il Verbo Figliuolo di Dio era eguale al Padre, da lui generato ab aeterno e d'una stessa natura e sostanza del Padre, e sostenne che tal dottrina era l'eresia di Sabellio. Pertanto si pose ad insegnare le seguenti bestemmie, cioè per 1. che il Verbo non era ab aeterno, ma era stato dal Padre tratto dal nulla e creato come noi; e per 2. che Cristo secondo il suo libero arbitrio era di sua natura mutabile, e che avrebbe potuto seguire il vizio, ma avendo abbracciata la virtù, per le sue buone opere Iddio l'avea fatto partecipe della divina natura, ed onorato de' titoli di Verbo, di Figliuolo


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e di Sapienza1. Scrive Natale Alessandro, che i mentovati errori si ricavano dalla di lui Talia, libro empio da lui composto, e dall'epistola sua scritta a s. Alessandro, riferita da s. Atanasio e dall'epistola sinodica del concilio Niceno alla chiesa alessandrina, addotta da Socrate, s. Epifanio e Teodoreto. Dice anche Natale Alessandro, sulla scorta di s. Atanasio e Teodoreto, che Ario insegnò inoltre che il Verbo nell'incarnazione assunse il corpo senza l'anima, e che la divinità avea fatte le parti di anima.

 

9. Ario prima cominciò a spargere privatamente i suoi errori; ma poi fatto più arrogante, si avanzò a predicarli pubblicamente nella sua parrocchia. Procurò s. Alessandro colle sue ammonizioni di farlo ravvedere; ma vedendo che riuscivano inutili, venne a rimedj più violenti: e perché in quel tempo gli errori di Ario si erano dilatati sino ad infettare alcuni vescovi, e specialmente Secondo di Tolemaide e Teona di Marmarica, convocò circa l'anno 320. un sinodo in Alessandria, nel quale oltre i preti intervennero molti vescovi dell'Egitto e della Libia al numero di quasi cento. Ivi chiamato Ario non arrossì di confermare pubblicamente i suoi errori; onde quei padri fulminarono l'anatema contro di lui e tutti i suoi partigiani. E s. Alessandro scrisse da quel sinodo una lettera circolare, dando conto di ciò a tutti i vescovi della chiesa2. Ciò non ostante Ario più ostinato cercò di avere più seguaci; sedusse molte altre persone, uomini e donne, delle quali si servì poi per concubine, come scrive Teodoreto3; e si pose sotto la protezione di Eusebio di Nicomedia, uomo potente e letterato, ma perverso, il quale avendo lasciato il vescovado di Berito, si era indegnamente intruso in quello di Nicomedia per mezzo di Costanza sorella di Costantino; onde Eusebio scrisse a s. Alessandro pregandolo a ricevere Ario nella sua comunione. Ma il s. patriarca non solo non l'ammise, ma lo costrinse allora ad uscire da Alessandria con tutti i suoi compagni4.

10. Allora Ario si ritirò nella Palestina, ove gli riuscì co' suoi inganni di conciliarsi il favore di più vescovi di quelle parti e delle province circonvicine e specialmente di Eusebio di Cesarea, Aezio di Lidda, o sia Diospoli, di Paolino di Tiro, Gregorio di Berito, Teodoto di Laodicea e Atanasio di Anazarbo. All'incontro s. Alessandro, sapendo ciò, se ne lagnò, scrivendo a molti vescovi palestini, i quali ravveduti si allontanarono da Ario; ed Ario di ciò accortosi si rifugiò presso Eusebio in Nicomedia, ove scrisse il suo infame libro Talìa in versi, riempendolo di detti buffoneschi, per allettare anche la gente rozza, e di tutte le bestemmie contro la fede, a fine d'istillare in tal modo a tutti il veleno della sua eresia5. Eusebio unì nella Bitinia un sinodo de' vescovi fautori di Ario, i quali scrissero per lui a molti vescovi, acciocché disponessero s. Alessandro a comunicare con esso; ma nulla poterono ottenere dal santo6.

11. Tra questo tempo Costantino riportò la vittoria di Licinio, e con quella ottenne di vedere in pace l'imperio. Ma giunto a Nicomedia molto si afflisse in sentire le dissensioni che vi erano tra s. Alessandro ed Ario e fra tutti i vescovi dell'Oriente. Eusebio Nicomediese, essendo stato il primo ad informar Costantino, gli diede ad intendere che la questione che si agitava era di poco momento, e non apparteneva alla sostanza della fede; onde altro non bisognava che imporre il silenzio ad ambo le parti. Dunque il credere se Gesù Cristo è Dio o semplice creatura era cosa di poco momento? Questa è l'arte degli eretici, il far credere esser di poca conseguenza quei dogmi di fede che essi combattono. L'imperatore ingannato in tal modo scrisse7 a s. Alessandro


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che non era bene per tal punto tenere agitata la chiesa, ma conveniva non parlarne, e lasciare ognuno nel suo sentimento. Ma sempre crescendo via più i rumori in oriente, da s. Silvestro, come vogliono il Baronio e Van-Ranst, oppure come vogliono più comunemente Fleury e Natale Alessandro con Socrate, Eusebio, Sozomeno e Teodoreto, da Costantino1 fu mandato a quietarli Osio vescovo di Cordova nelle Spagne, che per trenta anni avea retta quella sede, uomo di gran dottrina e santità, che molto anche avea sofferto nella persecuzione di Massimiliano. Giunto Osio in Alessandria, e vedendo che il male era di molto peso, di concerto con s. Alessandro adunò ivi un sinodo di vescovi, i quali di nuovo scomunicarono Ario cogli altri del suo partito, e condannarono i suoi errori2.

12. Ario dopo questa sua nuova condanna scrisse all'imperatore le sue difese; ma Costantino fatto consapevole della di lui perversa dottrina, gli rispose con una lunga lettera, ove confutando i suoi errori, lo trattò da maligno e da pazzo; e volle che questa sua lettera si facesse pubblica. Gli Ariani tanto s'irritarono di ciò, che spinti dalla rabbia giunsero ad insultare la statua di Costantino, sfigurandole il volto colle pietre. L'imperatore su questo fatto dimostrò un atto di gran mansuetudine; poiché quando i ministri l'incitavano a vendicarsi di un tale oltraggio, egli ridendo e palpando la sua faccia rispose: Ma io nella mia faccia non sento alcuna ferita. E non volle farne alcun risentimento3. Vedendo non però che il fuoco della discordia sempre più cresceva, deliberò di unire un concilio generale per la quiete di questo affare, e stabilì che il luogo del concilio fosse la città di Nicea di Bitinia, differente da Nicea di Tracia; ed a questo effetto invitò tutti i pastori delle chiese, anche fuori de' limiti dell'imperio, a portarsi a Nicea, esibendo loro tutte le spese pel viaggio4. I vescovi dell'Asia, Africa ed Europa tutti se ne consolarono, ed allegramente intervennero al concilio, sì che nell'anno 325 trovaronsi in Nicea uniti 318. vescovi5, come scrive Natale Alessandro con s. Ambrogio, contro Eusebio che vuole non essere stati più che 250. Oh qual gloria ebbe la fede in questo concilio, in vedervi tanti pastori santi congregati insieme? Tra essi comparvero anche molti prelati, che dimostravano le cicatrici delle piaghe sofferte nelle persecuzioni de' tiranni, e specialmente s. Pafnuzio vescovo nella Tebaide, a cui nella persecuzione di Massimino era stato cavato l'occhio destro, e bruciato il garetto del piè sinistro, s. Paolo vescovo di Neocesarea, che per ordine di Licinio avea perduto l'uso delle mani, essendogli stati bruciati i nervi con ferro rovente, s. Potamone vescovo di Eraclea privato anche esso, per la fede, dell'occhio destro, ed altri molti ecclesiastici, che erano stati tormentati dagl'idolatri6.

13. S. Silvestro, per secondare la santa intenzione dell'imperatore, consentì al concilio, e, non potendo intervenirvi per la sua età avanzata, vi mandò per suoi legati Vitone e Vincenzo preti romani ed Osio vescovo di Cordova, il quale presedesse in suo luogo, e regolasse le sessioni7. Tillemont nella sua storia all'anno 325., parlando di questo concilio, dubita se Osio vi presedesse, ma oltre gli autori poc'anzi citati per la verità di questa presidenza, anche Maclaine protestante, che fa le note alla storia di Mosheim pag. 578. non ne dubita, dal vedere Osio firmato il primo in quel concilio. Di più s. Atanasio8 chiama Osio duce del sinodo: In qua synodo ille dux, et non antesignanus fuit? Di più Gelasio


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Ciziceno storico del quinto secolo, parlando del Niceno, dice: Ipse Osius, qui Silvestri locum obtinebat, una cum Vitone et Vincentio in illo consessu adfuit. Ai 19. di giugno dell'anno 325. si aprì il sinodo nella gran chiesa di Nicea, come riferisce il cardinal Orsi1, secondo il sentimento più comune; poiché il congresso che si fece nel palazzo di Costantino alla sua presenza non fu nella prima, ma nell'ultima sessione, contro Fleury2, che vuole essersi fatto a principio nel palazzo. Il primo esame che si fece fu degli errori di Ario, il quale per ordine di Costantino si era portato in Nicea, ed ivi, chiamato a render conto della sua fede, audacemente vomitò gli stessi falsi dogmi da lui predicati, dicendo che il Figliuolo di Dio non era sempre stato, ma era stato tratto dal nulla, come ogni altro uomo, mutabile e capace di virtù e di vizio. In udir tali bestemmie i santi vescovi (che tutti erano uniti contro di lui, fuori di 22.3 che erano fautori di Ario, benché poi rimasero soli cinque, e finalmente due soli) per l'orrore si chiusero le orecchie, e pieni di zelo le detestarono4. Ma ciò non ostante volle il concilio che le proposizioni di Ario tutte si esaminassero; ed allora fu che s. Atanasio, condotto da Alessandria dal suo vescovo s. Alessandro, dimostrò il suo valore contro i nemici della fede, i quali sin d'allora lo tennero segnato, e poi lo perseguitarono in tutta la sua vita5. Si lesse nel concilio una lettera di Eusebio Nicomediense, in cui apparivano tutti i suoi sentimenti conformi a quelli di Ario, e fu la lettera lacerata in pubblico in sua presenza e con molta sua confusione6. Con tutto ciò gli Eusebiani non lasciavano di difender la dottrina di Ario; ma si contraddicevano l'un l'altro, e colle stesse loro risposte dimostravano l'insussistenza delle loro opinioni.

 

14. Gli Ariani furono richiesti da' Cattolici se ammetteano che il Figliuolo fosse in tutto simile al Padre: se fosse sua immagine: se fosse sussistente nel Padre: se fosse stato sempre: se era immutabile: se era virtù di Dio, e se era vero Dio. A principio quei del partito esitavano se dovessero ammettere tutti o alcuni soli de' suddetti termini; ma gli Eusebiani, brontolando sotto voce tra di loro, dissero che ben tutti si poteano ammettere: quel di simile, d'immagine, mentre sta scritto che l'uomo è immagine e gloria di Dio: Vir... imago et gloria Dei est7: quel di sussistente nel Padre, mentre sta scritto: In ipso enim vivimus et movemur et sumus8: quel di sempre è stato, perché anche di noi sta scritto: Semper enim nos qui vivimus, in mortem tradimur propter Iesum9, dicendo che anche noi siamo stati sempre nella potenza e mente di Dio: quel d'immutabile, perché sta scritto che niuno può separarci dalla carità di Dio: Neque mors, neque vita... poterit nos separare a caritate Dei10: quel di Virtù di Dio, mentre anche i bruchi furono chiamati virtù di Dio: vero Dio: perché il Figliuolo per li suoi meriti è stato fatto Dio, nome che vien dato talvolta anche agli uomini: Ego dixi: Dii estis11.

15. Vedendo per tanto i padri che gli Ariani storceano le scritture ed i termini a lor capriccio, conobbero esser necessario valersi d'un termine che rimovesse ogni dubbietà, e non soggiacesse ad alcuna falsa interpretazione de' contrarj; e questo termine fu la voce consostanziale, che giudicarono tra gli altri doversi inserire nel simbolo della fede, servendosi della parola greca omoousion, che significa il Figliuolo non solo simile, ma della stessa cosa e la stessa sostanza col Padre, secondo quel che disse il medesimo nostro Salvatore: Ego et Pater unum sumus12. Gli Ariani ricusavano fortemente di accettar la parola consostanziale, perché quella toglieva ogni sotterfugio da poter


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seguire a sostener la loro eresia; onde opponeano più cose, ma tutte insussistenti. Di queste opposizioni si farà parola nella dissertazione, o sia confutazione teologica di questa eresia che porremo in fine.

 

16. Nell'ultima sessione, secondo scrive il cardinal Orsi, l'imperatore volle trovarsi alla conclusione del sinodo, e volle che questa si facesse nella sala del suo palagio; onde portatosi da Nicomedia in Nicea, nell'entrare all'assemblea, alcuni vescovi inquieti gli presentarono più memoriali di accuse contro i loro colleghi, e voleano che Costantino ne fosse il giudice. Ma l'imperatore comandò che fossero dati al fuoco, dicendo a' padri queste memorabili parole, come riferisce Natale Alessandro1: Deus vos constituit sacerdotes, et potestatem dedit de nobis quoque iudicandi; et ideo nos a vobis recte iudicamur... Vos etenim nobis a Deo dati estis Dii, et conveniens non est ut homo iudicet Deos. Egli non volle sedere in quella sedia bassa che si avea fatta preparare senza averne prima il permesso de' vescovi2. Sedette poi l'imperatore, e dopo di lui, colla sua licenza, si assisero tutti i vescovi. Allora uno de' padri, creduto più comunemente Eustachio vescovo di Antiochia3 alzatosi in piedi fece il discorso, ove lodò lo zelo dell'imperatore, rendendo grazie a Dio per le sue vittorie. Indi parlò Costantino4 e disse che molto si consolava in vedere ivi i padri uniti negli stessi sentimenti; raccomandò loro la pace, e poi diede libertà a tutti di parlare; e nel sentire contendere fra di loro, siccome lodava i difensori della fede, così procurava di reprimere la temerità degli avversarj. Indi i padri fissarono il decreto nella seguente forma, come riferisce il Cabassuzio5: Credimus in unum Deum Patrem omnipotentem, omnium visibilium et invisibilium factorem: et in unum Dominum Iesum Christum Filium Dei, ex Patre natum unigenitum, Deum ex Deo, lumen ex lumine, Deum verum ex Deo vero: natum non factum, consubstantialem Patri: Per quem omnia facta sunt in coelo et in terra: Qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit, et incarnatus est, et homo factus. Passus est, et resurrexit tertia die: et ascendit in coelos: et iterum venturus est iudicare vivos et mortuos: Et in Spiritum sanctum. Questo simbolo fu composto da Osio, come scrive s. Atanasio6, e fu recitato nel sinodo. In seguito poi il concilio fulminò l'anatema contro chi dicea che erat aliquando, quando (Filius Dei) non erat; et antequam nasceretur non erat: et quia ex iis quae non sunt factus est; aut ex alia substantia vel essentia dicunt esse, vel creatum, vel mutabilem, vel convertibilem Filium Dei, anathematizat catholica et apostolica ecclesia. Scrive il Baronio7 che allora all'inno Gloria Patri etc. volle il concilio che si aggiungessero quelle parole: sicut erat in principio et nunc et semper, et in saecula saeculorum. Amen.

 

17. I vescovi contrarj da principio furono 22., come si disse di sopra; indi si ridussero a 17., come dice Sozomeno8: ma anche questi spaventati dalle minacce di Costantino, per non esser discacciati dalle loro chiese e mandati in esilio, si ridussero a cinque9, cioè ad Eusebio di Nicomedia, Teogni di Nicea, Mari di Calcedonia, Teona di Marmarica e Secondo di Tolemaide; e di costoro in appresso tre anche cedettero, e restarono i soli due ultimi ostinati nella loro empietà, né vollero sottoscrivere il sinodo; onde furono deposti ed esiliati10. Ma se questi furono temerarj, almeno furono più sinceri de' loro colleghi, i quali sottoscrissero, e poi furono persecutori del concilio e de' cattolici. Tra costoro fu specialmente Eusebio di Cesarea, il quale nella lettera a' suoi diocesani, dopo aver riferita la formola di fede approvata


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dal sinodo, disse, come riferisce Socrate1, di averla sottoscritta per non opporsi alla pace; e poi scrisse più menzogne, cioè che nel concilio era stata approvata la formola proposta da Eusebio di Nicomedia, quando quella era stata da tutti riprovata ed in pubblico lacerata: di più che la parola consostanziale per volontà dell'imperatore fu inserita nel simbolo, quando quella fu da' padri maturatamente apposta e consacrata come una tessera per distinguere i Cattolici dagli Ariani. Indi soggiunse che i padri, accettando tal voce, non aveano voluto significare altro, se non che il Figliuolo era dal Padre, ma non già come parte della di lui sostanza: e con quelle altre voci generato e non fatto, non altro che non essere fatto come le altre creature, che per esso furono poi create, ma di natura più eccellente. E concluse che il concilio in tanto avea fulminato l'anatema, a chi dicea il Figliuolo fatto dal nulla, e che non era prima di essere generato, in quanto tali espressioni non trovavansi usate nella scrittura; ed anche perché il Figliuolo prima di esser generato, benché non esistesse, era nondimeno nella potenza del Padre, il quale in potenza fu sempre creatore di tutte le cose. Oltre di questa lettera, s. Geronimo scrive2: Eusebium fuisse Arianum nemo est qui nesciat. Di più i padri del sinodo VII. nell'azione sesta dissero: Quis ignorat quod Eusebius Pamphili in reprobum sensum traditus eiusdem opinionis fuerit cum his qui Arii impietatem secuti sunt? Risponde Valesio che i padri dissero ciò incidentemente. Ma a Valesio risponde Giovenino3, che il sinodo proferì ciò non a caso, ma dopo averne presi più argomenti dalle di lui opere.

 

18. Ario, benché abbandonato da tutti, fuori di quei due vescovi ostinati, seguì a difendere i suoi errori; onde fu dal concilio scomunicato, e fu anche rilegato da Costantino nell'Illirico, insieme co' suoi settari. Furono insieme dal concilio e da Costantino condannati tutti gli scritti di Ario, e specialmente l'infame Talìa; anzi l'imperatore appresso pubblicò una lettera circolare, o per meglio dire un editto per tutto l'imperio, ove ordinò che tutti gli scritti di Ario fossero gittati al fuoco, e che coloro che in ciò avessero contravvenuto fossero puniti colla morte4.

19. Il concilio dopo la condanna dell'eresia Ariana venne a sospendere Melezio vescovo di Licopoli dall'esercizio del suo carattere vescovile e particolarmente dal promuovere alcun altro nelle ordinazioni; ma ordinò che i seguaci di Melezio fossero ammessi alla comunione della chiesa, sempre che affatto rinunziassero al di lui scisma e alla di lui dottrina5.

20. Di più in quanto alla questione che anche regnava nell'Asia circa il giorno della celebrazione della pasqua, ordinò il concilio che non si celebrasse più secondo il rito giudaico nel giorno quartodecimo della luna, ma secondo l'uso romano nella prima domenica dopo la quartadecima luna caduta dopo l'equinozio del verno, dichiarando che tal punto non era di fede, ma di disciplina6: poiché parlando della fede circa l'eresia di Ario, si disse: Così crede la chiesa; ma intorno a questo punto della pasqua, dissero i padri: Abbiamo decretato etc. Né tal decreto fu poi contraddetto da alcuno, come attestò Costantino nella riferita lettera circolare, ma tutte le chiese l'abbracciarono7. Ed allora credesi avere il sinodo adottato il ciclo de' 19. anni inventato da Metone astronomo ateniese per fissare le lunazioni di ogni anno, ritornando dopo il giro de' 19. anni le nuove lune nei giorni stessi dell'anno solare8.

21. Indi il concilio fece venti canoni di disciplina, a rispetto de' quali giova qui far menzione di alcuni più principali. Nel primo furono esclusi dal clero e deposti quei che volontariamente


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si son fatti eunuchi, contro l'eresia de' Valesiani che erano tutti eunuchi, e più contro coloro che si fossero fatto lecito d'imitare il fatto di Origene per amor della castità1. Nel canone terzo fu proibito a tutti i chierici di abitare con altre donne, fuori della madre, sorella o zia, oppure di alcun'altra che non recasse alcun sospetto. Voleva il concilio stabilire il celibato de' vescovi, preti e diaconi, e secondo Sozomeno, anche de' suddiaconi, ma ne fu distolto da s. Pafnuzio, il quale fortemente sostenne dover bastare che gli ascritti agli ordini sacri fossero inabili a prender moglie, ma essendo poi legge troppo grave l'obbligare a separarsi dalle mogli coloro che prima degli ordini si ritrovavano coniugati; e con ciò scrive Socrate2 che i padri si rimossero dalla prima sentenza, e fu rimesso all'arbitrio di ciascuno il separarsi o non separarsi dalla moglie. Ma all'incontro scrive il cardinal Orsi3 che l'autorità di Socrate non ci obbliga a tener per vero un tal fatto; mentre s. Epifanio, che vivea nel tempo del concilio, e s. Girolamo che nacque pochi anni appresso, attestano4 che non erano ammessi agli ordini sacri, se non coloro ch'erano vergini, o essendo maritati si separavano dalle mogli. Nel quarto canone si ordinò che le ordinazioni de' vescovi si facessero da tutti i vescovi comprovinciali, o almeno da tre col consenso degli altri, restando sempre al metropolitano il diritto di confermarlo5. Nel sesto canone si disse doversi conservare i privilegi delle sedi patriarcali e precisamente della sede Alessandrina pel diritto ch'ella ha sulle chiese dell'Egitto, della Libia e della Pentapoli; ad esempio del vescovo romano che ha una simile autorità sulle chiese soggette al suo patriarcato. Natale Alessandro in una special dissertazione6 dimostra che tal canone niente osta al primato del romano pontefice, rapportando fra le altre prove il canone VI. del concilio calcedonese, ove si disse: Ecclesia romana semper habuit primatum. Onde poi soggiunge ivi queste parole: id luculentius ex eo confirmatur, quod post sancitum canonem, romanus episcopus et de personis aliorum patriarcharum, et de sententiis ab ipsis latis iudicium tulit; nec ipsum eam ob rem usurpatae auctoritatis, violatique Nicaeni canonis sexti coarguit aliquis.

 

22. Finalmente i padri scrissero una lettera sinodale a tutte le chiese, dando loro notizia della condanna di Ario e dello stabilimento fatto sulla celebrazione della pasqua. Indi si sciolse il concilio; ma prima che si partissero i vescovi, Costantino in un giorno gli volle tutti alla sua mensa, e specialmente volle tener a sé vicini quei vescovi che erano stati tormentati per la fede, non saziandosi allora di baciare le cicatrici delle piaghe sofferte. Regalò poi ciascun di loro, e raccomandando loro di nuovo la concordia, li licenziò con grandi segni di affetto7. Fu intanto eseguita dopo ciò la condanna di esilio contro Eusebio e Teogni, essendo stati rilegati nelle Gallie, e sostituiti ad essi Anfione e Cresto, cioè ad Eusebio Anfione nel vescovado di Nicomedia, ed a Teogni Cresto in quel di Nicea8. Ma non passò molto che i vescovi del loro partito fecero vedere di non avere accettato il concilio, se non per mero timore.

 

§. 2. Avvenimenti sino alla morte di Costantino.

23. S. Atanasio fatto vescovo di Alessandria. Eusebio richiamato. S. Eustazio esiliato ed Ario rientrato in grazia. 24. Concilio di Tiro. 25. Accuse contro sant'Atanasio e suo esilio. 26. Ario scacciato da Alessandria. 27. Suo spergiuro e morte orrenda. 28. Battesimo di Costantino e sua morte. 29. Divisione dell'imperio.

 

23. Nell'anno seguente 326. morì sant'Alessandro patriarca di Alessandria, e dai vescovi di Egitto fu eletto s. Atanasio con voce uniforme di tutto il popolo. Ma il santo, udita la sua elezione, se ne fuggì in un luogo rimoto. Ritrovato però da' suoi ebbe a cedere,


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e fu collocato nel trono di Alessandria1 con grande applauso de' concittadini, e gran dispiacere degli Ariani, i quali, non potendo far altro, sparsero più calunnie contro la di lui promozione2. All'incontro fra lo stesso tempo Eusebio e Teogni, essendosi finti ravveduti presso Costantino, ed avendo mandata a' principali vescovi orientali un'altra lor finta ritrattazione in iscritto, furono da Costantino richiamati e ristabiliti ne' loro vescovadi. Si finsero ravveduti, ma nel medesimo tempo non lasciarono di promuovere i vantaggi di Ario, e tra le altre cose riuscì ad Eusebio in un conciliabolo da lui tramato in Antiochia3 di far deporre dalla sede di Antiochia s. Eustazio suo fortissimo contradditore, col pretesto di un adulterio commesso, di cui falsamente avealo accusato un'infame donna, senza altro testimonio. È vero che di poi si scoprì la calunnia; poiché la donna essendo caduta inferma palesò la trama ordita4: per allora nondimeno fu bandito e deposto s. Eustazio, e gli fu sostituito Paolino di Tiro ed indi Eulario. Ed essendo Eulario morto poco appresso la sua assunzione, fu eletto Eusebio vescovo di Cesarea, il quale fraudolentemente si era prima intruso in quella chiesa. Ma Eusebio per suoi fini ricusò di passare in Antiochia; per cui gli fu surrogato Efronio nativo di Cesarea e poi Flacillo, ambedue Ariani: onde molti cattolici in Antiochia non vollero mai comunicare con tali vescovi intrusi5. Indi riuscì ancora ad Eusebio di Nicomedia6 di rimettere Ario in grazia di Costantino, e farlo ritornare in Alessandria per opera di un certo prete Ariano, il quale, essendo entrato in famigliarità con Costanza sorella dell'imperatore, ottenne dalla medesima, che trovandosi ella in fine di vita domandasse al fratello questa grazia per Ario; ed allora Costantino rispose che, se Ario voleva sottoscrivere i decreti del concilio di Nicea, gli avrebbe perdonato. In fatti Ario fu richiamato, e venne in Costantinopoli, ove presentò all'imperatore una professione di fede, in cui professava di credere secondo le scritture, esser Gesù Cristo figliuolo di Dio, prodotto prima di tutti i secoli, ed essere egli il Verbo, per cui era stata fatta ogni cosa7. Costantino restò contento di tale attestato, credendo che avesse Ario veramente abbracciata la decisione del concilio, ma non badò che in quella carta non vi era nominata la voce consostanziale, e quelle parole: di credere secondo le scritture, erano un pretesto per interpretare Ario a suo capriccio le espressioni chiarissime che vi sono nelle scritture, e palesano la divinità del Figliuolo. Nulladimanco non volle riceverlo alla sua comunione da sé, senza sentirne prima il giudizio de' vescovi; onde mandollo al concilio che allora teneasi in Tiro (di cui qui appresso parleremo), scrivendo a quei prelati che esaminassero quella professione di Ario, ed anche se fosse vero il suo ravvedimento. Giunto Ario a Tiro, perché era ivi più potente il partito di Eusebio, fu ricevuto alla comunione con tutti suoi partigiani8.

24. Veniamo ora al conciliabolo di Tiro, ove riuscì agli Eusebiani di far discacciare s. Atanasio dalla chiesa di Alessandria. Ma prima di scrivere questa ingiusta deposizione, bisogna sapere che gli Ariani già avevan cominciato a macchinare la rovina di s. Atanasio, calunniandolo di molte imposture, che riportarono all'imperatore9, e specialmente di avere violata una vergine, di avere ucciso il vescovo di Ipsele nella Tebaide chiamato Arsenio, e di avere gittato a terra un altare e rotto un calice consacrato; e le stesse accuse poi produssero nel conciliabolo di Tiro10. Avea Costantino fatta fabbricare in Gerusalemme la gran chiesa della risurrezione a richiesta di s. Elena sua madre; perciò fece chiamare


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molti vescovi di quei contorni per farla solennemente consacrare. Con tale occasione gli suggerì Eusebio di Nicomedia che prima di tal consacrazione sarebbe stato bene di fare unire tutti que' vescovi in un concilio, affin di ristabilire una pace comune. Consentì l'imperatore, ch'era eccessivamente affezionato alla pace, e si stabilì di far questo congresso in Tiro, luogo atto per quei vescovi che doveano venire a Gerusalemme. Eusebio stesso, che ordì la trama, vi fece chiamare tutti i prelati del suo partito; onde si trovarono uniti in Tiro 60. vescovi, tra' quali ve ne furono ancora alcuni Cattolici. Questi furono molto pochi a principio, ma poi vi intervenne ancora s. Atanasio con molti vescovi dell'Egitto, e specialmente con Pafnuzio e Potamone. S. Atanasio ricusava di venirvi, prevedendo la tempesta che gli stava apparecchiata, ma fu costretto a venire dagli ordini di Costantino, che giunse a minacciargli l'esilio, se ricusava1. Ottenne di più Eusebio che vi intervenisse il conte Flavio, affinché, come dicea, mantenesse egli il buon ordine, e sedasse i tumulti; ma il vero fine fu di opprimere s. Atanasio ed i suoi difensori; mentre Flavio venne con molti soldati, con intenzione di mettere le mani contro chi si opponeva al partito di Eusebio2.

25. Si aprì già l'iniquo sinodo3, ed ivi s. Atanasio, che per la sua dignità meritava il primo luogo, fu costretto a stare in piedi, come un reo costituito per li delitti che ingiustamente gli apponeano. S. Potamone, vedendo ciò, sdegnatosi contro Eusebio di Cesarea, che sedea tra i giudici gli disse4: Dimmi, Eusebio; noi nella persecuzione fummo nella stessa carcere: io per difesa della fede perdei l'occhio destro, ma tu ne uscisti sano e salvo, senza dar segno della tua costanza; come ciò poteva avvenire, senza che cedessi alla volontà del tiranno? Eusebio adirato di tale invettiva, in vece di giustificarsi, si partì dal congresso adirato, e ruppe per quel giorno la sessione5. Ripigliatosi appresso il concilio, s. Atanasio si protestò di non voler egli stare al giudizio de' suoi avversarj; ma non fu inteso. I primi ad accusarlo furono due vescovi del partito di Melezio. Tra le accuse che addussero, tre furono le principali: quella della vergine violata, del vescovo Arsenio ucciso, e dell'altare e calice rotto. Questa ultima calunnia gli Ariani non potevano né pure per ombra provarla6; poiché non mai poteron provare che s. Atanasio avesse mandato, com'essi diceano, a rompere l'altare ed il calice; onde si appigliarono alle due altre calunnie, e prima a quella della violazione della vergine. Pertanto fecero comparir nel sinodo la donna accusatrice, la quale essendo una prostituta ebbe l'ardire d'infamare s. Atanasio, di averle tolto l'onore. Ma s. Atanasio, ch'era stato già avvisato della trama concertata, fece allora comparire un suo prete nominato Timoteo, che disse alla donna: Io dunque ti avrei violata? - , rispose quella sfacciata, tu mi deflorasti e mi facesti perdere la verginità, ch'io avea consacrata a Dio. E così si scoprì la falsità della prima calunnia. Parimente allora scoprissi la calunnia dell'uccisione di Arsenio, del quale gli Ariani dimostravano una mano recisa, come diceano da s. Atanasio dal di lui cadavere. Il fatto andò così7. Essendo stato già prima incolpato il santo di questa impostura, Arsenio maliziosamente prima erasi nascosto per farsi credere morto, ma poi essendosi ravveduto, si unì con s. Atanasio, e per liberarlo dall'impostura si portò in Tiro, e nel giorno dell'accusa presentossi al concilio. Onde mentre gli avversarj dimostravano la mano recisa, dimandò s. Atanasio se conosceano Arsenio. Risposero molti che sì, ed allora il santo fece comparire Arsenio, e gli fece alzar la testa per farlo meglio conoscere. Con ciò non si quietarono, dicendo che s. Atanasio


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gli avea recisa una sola mano; ma il santo allora alzò il mantello di Arsenio, e fece veder ambedue le di lui mani. Non sapendo poi essi più che dire, dissero che quello era incantesimo di s. Atanasio, ch'era mago1. Opposero un'altra calunnia, e dissero che s. Atanasio per costringere tutti a comunicar con esso, parte avea mandata in prigione, e parte fatta battere e tormentare, con deporre anche a flagellare alcuni vescovi. Finalmente s. Atanasio fu ivi condannato e deposto2. S. Atanasio vedendosi così ingiustamente deposto, ricorse all'imperatore in Costantinopoli, e lo fece consapevole dell'oppressione fattagli nel concilio di Tiro; onde Costantino scrisse a' vescovi che ancora stavano adunati in Gerusalemme, riprendendoli di aver oppressa con i tumulti la verità, e loro ordinò di subito portarsi in Costantinopoli a dar conto della loro condotta3. Vennero infatti gli Eusebiani in Costantinopoli, e mettendo da parte le accuse del calice rotto e dell'uccisione di Arsenio, ne inventarono un'altra nuova contro s. Atanasio, dicendo all'imperatore che Atanasio avea minacciato d'impedire il solito trasporto dei frumenti da Alessandria in Costantinopoli. Sentendo ciò Costantino, quantunque s. Atanasio si fosse discolpato, tutto si commosse a sdegno contro di lui, meditando di punirlo anche colla morte; ma poi si contentò di condannarlo solamente all'esilio4.

26. Quindi nell'anno 336. si tenne un altro concilio in Costantinopoli, in cui s. Alessandro vescovo allora di quella città, vedendo che vi avrebbero dominato gli Eusebiani, si adoperò per impedirlo, ma non l'ottenne. Ivi gli Eusebiani trattarono la causa di Marcello di Ancira, che nel concilio di Tiro avea difeso s. Atanasio, ma poi era stato accusato di avere scritto alcune eresie nel suo libro fatto contro Asterio Sofista, il quale avea composto una scrittura piena delle massime di Ario; onde perché Marcello era contrario al lor partito lo scomunicarono e deposero, e gli sostituirono Basilio partigiano di Ario5. Ma l'intento principale degli Ariani in questo concilio6 di ristabilire intieramente Ario e la sua dottrina; poiché Ario dopo essere stato ricevuto in Gerusalemme alla comunione de' vescovi, andò in Alessandria, sperando coll'assenza di s. Atanasio, bandito già dall'imperatore, di esser anche ivi ricevuto. I cattolici però in Alessandria non vollero affatto comunicare con esso; ma perché ivi erano molti partigiani di Ario, si eccitarono rumori. Di ciò avvisato l'imperatore fece sentire ad Ario che si portasse in Costantinopoli7. Dicesi che gli stessi Eusebiani sollecitarono quest'ordine, col fine di far ricevere Ario nella comunione della chiesa della città imperiale. S. Alessandro tuttavia si oppose con tutto lo sforzo a questo loro disegno. Onde gli Eusebiani8, gli minacciarono che l'avrebbero fatto deporre, se non avesse ricevuto Ario nel giorno da essi stabilito. S. Iacopo vescovo di Nisibe, trovandosi allora in Costantinopoli, disse che le sole orazioni e penitenze poteano rimediare a tanto male; quindi s. Alessandro mosso da questo buon consiglio9, lasciò le dispute e le prediche, e si chiuse solo nella chiesa della Pace, e quivi piangendo per più notti seguitò ad orare.

 

27. Gli Eusebiani persuasero all'imperatore che Ario teneva la dottrina della chiesa, e con ciò si stabilì di farlo ricevere alla comunione della domenica seguente. Il Sabato avanti non però volle Costantino10 meglio accertarsi della fede di Ario; onde fece chiamarlo, e gli dimandò, se tenea la fede di Nicea, e disse che volea da lui professione in iscritto e il giuramento. Ario gli diede la sua professione scritta, ma fatta con frode, e giurò di non tenere, né aver mai tenuta altra fede11:


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ma nel dare il giuramento, vogliono alcuni1 che Ario tenesse sotto del braccio un'altra carta, e secondo quella intendesse giurare. Sia come si voglia, l'imperatore fidato su quel giuramento disse al vescovo s. Alessandro che bisognava aiutare un uomo che cercava di salvarsi. S. Alessandro si sforzò di disingannarlo; ma vedendo che non facea con ciò altro che irritarlo, tacque e si ritirò. S'incontrò allora con Eusebio di Nicomedia, il quale gli disse2: Se non vuoi accogliere Ario, io domani lo farò entrare meco nella chiesa. S. Alessandro pieno di dolore se ne andò allora alla chiesa con due sole persone, e quivi colla faccia a terra e colle lagrime agli occhi, così pregò il Signore: Mio Dio, o togliete me dal mondo, o toglietene Ario, acciocché egli non rovini la vostra chiesa. Così pregava s. Alessandro: e frattanto in quel giorno di sabato tre ore dopo il mezzo giorno gli Eusebiani conducevano Ario per la città come trionfante, ed egli si andava già vantando del suo ristabilimento. Ma giunto alla piazza fu colpito dalla divina vendetta: Poiché sorpreso3 da un terribile spavento che gli sconvolse le viscere, e, costretto a sgravarsi, domandò se ivi fosse alcun luogo per le comuni necessità. Gliene fu additato uno dietro la stessa piazza. Colà portatosi egli in fretta, e nascostosi dentro, lasciando un suo domestico presso la porta, postosi a sedere, crepò per mezzo, come un altro Giuda, e mandò fuori insieme cogli escrementi le intestina, la milza ed il fegato, con gran profluvio di sangue, e dietro ad esso l'anima rea, privato nello stesso tempo della comunione della chiesa e della vita. Tardando poi egli ad uscire, accorsero colà gli amici, ed aperta la porta lo trovarono morto, e steso in terra in quel miserabile stato4; e ciò avvenne nell'anno 336.

28. Nell'anno poi seguente 337. venne a morte Costantino. Essendo caduto infermo (era egli allora nel principio dell'anno 64.) prima prese i bagni in Costantinopoli, e, non cessando l'infermità, per consiglio de' medici si portò in Elenopoli a prendere altri bagni5. Ma aggravatosi il male, passò a Nicomedia, e sentendo avvicinarsi la morte, volle ivi prendere il battesimo nella chiesa di s. Luciano. Vi è la questione per altro circa il quando e dove sia stato battezzato Costantino. E Eusebio6 scrive ch'egli ricevette il battesimo poche ore prima della sua morte in Nicomedia; altri scrittori poi vogliono che fu battezzato nell'anno 324. in Roma da s. Silvestro, 23. anni prima della sua morte. Quest'opinione è difesa a lungo dal cardinal Baronio7, il quale adduce molte autorità per tale opinione; e dallo Schelestrate8, il quale cita per la stessa opinione molti autori greci e latini. Ma la prima opinione, secondo scrive Eusebio, è molto più comune, ed è tenuta da Socrate, Sozomeno, Teodoreto, s. Girolamo, Fleury, Orsi e specialmente da Natale Alessandro9, il quale risponde a tutti gli argomenti del Baronio, e cita per sé s. Ambrogio, s. Isidoro, il Papebrochio ed i padri Maurini, i quali padri dicono che ritrovandosi Costantino in Nicomedia, ridotto all'estremo, nella stessa chiesa di s. Luciano volle ricevere da' vescovi l'imposizione delle mani, cerimonia precedente al battesimo, ed allora usata per tutti i catecumeni. Indi trasportato in un castello poco distante da Nicomedia, detto Aquirione, avendo ivi chiamati i vescovi10, li pregò a conferirgli il santo battesimo, che essendo stato da lui ricevuto con molta consolazione, disse: Ora sì che mi vedo veramente beato. Vennero poi i suoi officiali, i quali colle lagrime agli occhi espressero il desiderio che aveano della sua vita, ed egli rispose


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loro: La vera vita già l'ho ricevuta; altro non desidero che di andare a godere il mio Dio. S. Girolamo parlando nel suo cronico della morte di Costantino, scrisse di lui: In Arianum dogma declinavit: ma ne' Menologj greci si fa la festa di Costantino ai 21. di maggio, come scrive Natale Alessandro; il quale in un'altra dissertazione a parte1 difende fortemente che Costantino morì da vero cattolico, ed attesta che tutti gli antichi in ciò consentono con s. Atanasio, s. Ilario, s. Epifanio, s. Ambrogio e coll'autorità del concilio di Rimini nell'epistola sinodale a Costanzo imperatore, come si legge presso Socrate, Teodoreto, Sozomeno e s. Atanasio2. Soggiunge il cardinale Orsi3 che l'essere stato battezzato Costantino da Eusebio, come scrisse s. Girolamo, non ci dee far sospettare della fede di Costantino e di qualche sua propensione alla dottrina di Ario (come sospettò s. Girolamo): mentre si sa quanto Costantino aveva difeso e venerato il concilio di Nicea; tanto più che dopo il battesimo risolvette di richiamare dall'esilio s. Atanasio4, non ostante che in ciò gli si fosse opposto Eusebio di Nicomedia. Anzi Sozomeno5 scrisse che il principe lasciò ciò ordinato nel suo testamento; e perciò Costantino il giovine, quando mandò s. Atanasio ad Alessandria, dichiarò6 che in ciò egli eseguiva la volontà di suo padre. Nello stesso tempo, come attesta s. Atanasio7, tutti gli altri vescovi cattolici, furono riposti nelle loro chiese.

 

29. Morì Costantino ai 22. di maggio del detto anno 337. nella solennità di Pentecoste8, e lasciò l'imperio diviso a' suoi figliuoli e nipoti. A Costantino il maggiore de' suoi figliuoli lasciò tutto quello che aveva posseduto Costanzo suo padre e di più la Spagna, le Gallie e la gran Bretagna; a Costanzo ch'era il secondo l'Asia, l'Assiria e l'Egitto, ed a Costante il minore l'Africa, l'Italia e l'Illirico. Lasciò poi a Dalmazio e ad Annibaliano suoi nipoti altri regni di minor momento. Ma il signore poi permise che l'imperio, morti Costantino il giovine e Costante, si unisse tutto il Costanzo: dico permise; poiché la chiesa in Costanzo provò un troppo fiero e d ostinato persecutore9, a differenza di Costantino e Costante che la favorirono.

 

§. 3. Persecuzione dell'imperator Costanzo contro i cattolici.

30. Eusebio di Nicomedia passa alla sede di Costantinopoli. Sinodi in Alessandria ed in Antiochia. 31. Concilio Sardicese. 32. Concilio di Arles. 33. Concilio di Milano, ed esilio di Liberio. 34. Esilio di Osio. 35. Caduta di Osio. 36. Caduta di Liberio. 37. Formola prima di Sirmio. 38. Formola seconda. 39. Formola terza. 40. Liberio firma la formola etc. 41. e 42. Firma la prima. 43. Ritorno di Liberio a Roma e morte di s. Felice. 44. Divisione degli Ariani. 45. a 48. Concilio di Rimini. 49. Morte di Costanzo. 50. Passa l'imperio a Giuliano. Scisma di Lucifero.

 

30. Verso l'anno 340. morì s. Alessandro patriarca di Costantinopoli, essendo vivuto 98. anni, e fu eletto in suo luogo Paolo di Tessalonica; ma Costanzo, che già pubblicamente erasi dichiarato Ariano, ritrovandosi assente10 quando si fece tale elezione, tornato poi in Costantinopoli, ne ebbe estremo dispetto, e pretese che Paolo fosse indegno del vescovado; ed unitosi col partito degli Ariani fece radunare un concilio, in cui lo fece deporre, e fece mettere in suo luogo Eusebio di Nicomedia, il quale contro le regole della chiesa fu per la seconda volta trasferito in nuova sede11. In questo medesimo tempo si adunò un altro concilio in Alessandria12 di cento vescovi in circa dell'Egitto, Tebaide, Libia e Pentapoli a favore di s. Atanasio, ed ivi il santo fu giustificato e dichiarato innocente delle calunnie appostegli dagli Eusebiani13. All'incontro nel seguente anno 241. per opera di Eusebio di Nicomedia e di altri suoi aderenti si unì un concilio di 90. vescovi in Antiochia


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coll'occasione di celebrar la dedica della chiesa in detta città, principiata da Costantino e compita da Costanzo; ed ivi di nuovo fu deposto s. Atanasio, e collocato in suo luogo Gregorio di Cappadocia infettato dell'eresia Ariana1.

31. Ma poi nell'anno 347. in Sardica città dell'Illirico e metropoli di Dacia si unì un altro concilio di molti vescovi, ove fu confermato il simbolo niceno, e s. Atanasio fu giustificato di nuovo e riposto nella sua sede. E questo concilio fu senza dubbio generale, come contro Pietro de Marca, difendono il Baronio, Natale Alessandro, Pietro Annato2, Tournely, Cabassuzio, monsignor Battaglini ed altri molti. Scrive s. Atanasio3 che i vescovi i quali v'intervennero furono 270.; ma perché tra questi vi erano 50. orientali, ed essi appartaronsi da Sardica per non vedere condannati i loro eccessi nel concilio, come da qui a poco soggiungeremo, restarono ivi solamente cento padri4. Del resto non può mettersi in dubbio che questo sinodo fu ecumenico; mentre vi fu la convocazione generale, come apparisce dalla lettera circolare5, e vi assisterono i legati di Giulio papa, Archimedo e Filosseno preti, con Osio che vi presedette, come innanzi avea già preseduto al concilio di Nicea. Vedendo intanto gli Ariani che in Sardica apparecchiavansi molte accuse ben fondate contro di loro, cercarono che fossero cacciati dall'assemblea i vescovi, i quali erano stati condannati dai loro sinodi, altrimenti si protestarono che sarebbonsi partiti. Questa temeraria domanda fu da tutti ributtata; onde essi presero la fuga, e si ritirarono in Filippopoli6, ove fecero una nuova formola di fede adattata ai loro errori, la quale poi falsamente attribuirono al concilio Sardicese. All'incontro dal vero concilio di Sardica otto vescovi del partito Eusebiano, essendosi ivi chiarite le loro ingiustizie commesse, furono condannati e deposti, dicendo i padri: È giusto che siano separati dalla chiesa quei che vogliono separare il Figliuolo divino dal Padre7.

32. Dopo questo concilio Costanzo, fatto più mite verso i vescovi cattolici, permise loro di tornare alle loro chiese8; e specialmente in Antiochia accolse con buona grazia s. Atanasio9, e spedì gli ordini in favore del santo, il quale fu accolto poi con grande allegrezza da' vescovi dell'Egitto e dal clero e popolo di Alessandria10. Gli Ariani però di nuovo guadagnarono il favore di Costanzo; talmente che avendogli scritto Liberio papa, succeduto nell'anno 342. a s. Giulio, come riferisce s. Ilario11, che gli Eusebiani aveano tentato di sorprenderlo a condannare Atanasio, ma ch'egli nello stesso tempo avea ricevute le lettere di 80. vescovi che lo difendevano; onde non poteva in coscienza condannarlo, con opporsi al concilio di Sardica, che l'avea dichiarato innocente: ed avendo nello stesso tempo mandato a Costanzo ad Arles, ove allora stava la corte, due suoi legati, Vincenzo di Capua e Marcello vescovo della Campagna, pregando l'imperatore di convocare un sinodo in Aquileia, affin di risolvere la causa di Atanasio, ma più per mettere in sicuro l'affare della fede, e così stabilire la pace delle chiese: Costanzo di tale ambasciata, non sappiamo perché, si offese12, e convocò un altro sinodo in Arles: ove, quando giunsero i legati, trovarono già conclusa la condanna di Atanasio dagli Ariani, e cacciato fuori da Costanzo un editto di esilio contro i vescovi che non l'avessero confermata13; e per tanto volle Costanzo che anche i legati l'avessero sottoscritta. Contraddisse a principio Vincenzo di Capua; ma poi a forza


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di strapazzi e di minacce vi consentì insieme col suo collega, promettendo di non comunicare più con Atanasio1.

33. Dopo ciò l'imperatore, per abbattere totalmente il partito de' Cattolici, raccolse un altro concilio in Milano2. Questo concilio per altro era desiderato e richiesto anche da Liberio in quel tempo pontefice, affine di unire le chiese nella fede del sinodo niceno; ma gli Ariani si affaticarono a farlo congregare per far condannare da tutti s. Atanasio, e ristabilire la loro eresia; onde nell'anno 355. si trovarono uniti in Milano più di 300. vescovi3. Vi fu chiamato anche s. Eusebio di Vercelli; ma il santo ripugnava d'intervenirvi, prevedendo la prepotenza degli Eusebiani. Fu nondimeno costretto a portarsi in Milano pregato dagli stessi legati inviativi dal papa, cioè da Lucifero, Pancrazio ed Ilario diacono. Giunto in Milano s. Eusebio, fu dagli Ariani sollecitato a sottoscrivere la condanna di s. Atanasio, avendo essi rinnovate le accuse del calice rotto ec. Rispose s. Eusebio che prima bisognava sottoscriversi da tutti il concilio di Nicea, e poi si sarebbe trattato del resto4. S. Dionisio vescovo di Milano subito si adattò a sottoscriverlo; ma Valente di Mursia con violenza gli strappò dalle mani la penna e la carta, dicendo che per tal via nulla sarebbesi conchiuso5. Avendo ciò saputo il popolo di Milano, ne fece grandi lamenti vedendo così impugnata la fede dagli stessi vescovi6: onde l'imperatore temendo del popolo, fece passare il concilio dalla chiesa nel suo palagio7, ove disse risolutamente a' vescovi che avessero accettato il suo editto su questa materia, nel quale conteneasi tutto il veleno dell'eresia Ariana; specialmente avendosi fatto chiamare Lucifero, s. Eusebio e s. Dionigi, propose loro che avessero sottoscritta la condanna di s. Atanasio8. Ricusarono assolutamente eglino di ciò fare, dicendo che tal cosa era contraria alle regole della Chiesa. Rispose Costanzo9: Dee passar per regola quello che piace a me; ubbidite o anderete in esilio. Allora i mentovati vescovi con fortezza gli rappresentarono il conto che ne avrebbe renduto a Dio, se usava loro violenza. L'imperatore udendo tali parole10, tanto se ne sdegnò, che gl'insultò sin colla spada in mano, e comandò che fossero condotti alla morte; ma poi si contentò che fossero mandati in esilio11. E quelli dallo stesso concilio partirono carichi di catene, e circondati da soldati per i luoghi loro destinati, nei quali ebbero poi mille maltrattamenti dagli eretici12. Nello stesso tempo Ilario uno de' legati fu spogliato nudo, e crudelmente flagellato sulla schiena, rimproverandogli allora gli Ariani: E tu perché non ti sei opposto a Liberio13? Indi Costanzo sostituì Ausenzio nel vescovado a s. Dionigi14; e poi costrinse Liberio a portarsi in Milano. Giunto ivi Liberio, volea l'imperatore che egli avesse condannato Atanasio, ma ricusando di ciò fare il pontefice, Costanzo gli diede tre giorni di tempo, dicendogli che se non risolvea di condannare s. Atanasio, si fosse preparato esso a partire al luogo del suo esilio. Ed in effetto fu Liberio rilegato poi a Berea nella Tracia, ove era vescovo Demofilo perfido Ariano15.

34. Dopo Liberio era il grande Osio il principal sostegno della causa cattolica in occidente, così per la sua probità de' costumi, come per la dottrina. Aveva egli allora 60. anni di vescovado nella città di Cordova nella Spagna, ed era stato nella persecuzione di Massimiliano costante a confessar pubblicamente la fede di Gesù Cristo. Costanzo lo fece venire alla sua presenza, e l'esortò a comunicare cogli Ariani, ed a condannare s. Atanasio. Osio con fortezza disse di non poter fare né l'uno né l'altro. Costanzo lo lasciò partire


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per allora, ma poi gli scrisse di nuovo, e minacciò di punirlo, in caso che avesse persistito a non volerlo contentare. Ma Osio gli rispose con maggior fortezza1 dicendogli: Se tu sei risoluto a perseguitarmi, io sono apparecchiato a spargere il sangue, prima che tradire la verità; onde risparmiati l'incomodo di scrivermi più tali cose. Temi l'estremo giudizio, né volere intrigarti negli affari della chiesa: Iddio ha dato a te l'imperio, ma il governo della sua chiesa l'ha dato a noi. Costanzo di nuovo chiamò Osio affin di pervertirlo; e vedendo che tuttora resisteva, finalmente lo mandò esiliato in Sirmio, avendo in quel tempo Osio cento anni in circa di età2.

35. Veniamo ora alla caduta prima di Osio, e poi a quella di Liberio. Della caduta di Osio fu principale autore Potamio vescovo di Lisbona, il quale prima avea difesa la fede, ma poi obbligato a Costanzo per una certa terra del fisco da esso donatagli, si unì cogli Eusebiani; e perciò Osio spinto dal suo zelo lo diffamò per tutta la Spagna come un empio. Potamio pertanto per vendicarsene prima si adoperò per farlo rilegare in Sirmio; e poi, ritrovandosi ivi l'imperatore, l'istigò ad usargli tali violenze, che finalmente lo fece prevaricare. Ritrovandosi il povero vecchio indebolito da' patimenti, dopo una crudel flagellazione, in cui co' bastoni gli furono lacerate le carni, e dopo una lunga e violenta tortura, gli mancò lo spirito di più soffrire; e così il misero cadde e sottoscrisse la seconda formola di Sirmio, condannando nello stesso tempo s. Atanasio, ed accettando la comunione degli Ariani3. E specialmente Sozomeno narra che Eudosio avea veduta la lettera di Osio, in cui disapprovava così la parola consostanziale, come simile nella sostanza. E così ebbe egli la libertà di ritornare nelle Spagne, dove giunto, Gregorio vescovo di Elvira per la di lui prevaricazione non volle più seco comunicare4. Scrissero due autori Luciferiani, Fausto e Marcellino, che Osio fece una morte infelice; ma s. Atanasio5, il quale merita certamente maggior fede, come dice Orsi nel luogo citato, scrisse che Osio in morte dichiarò essere stato vinto dalla violenza a commettere il suo errore; onde anatematizzava l'eresia degli Ariani, ed esortava tutti ad averla in orrore. Scrive ancora s. Agostino6 che Osio morì nella comunione della chiesa7.

36. Passiamo ora a parlare della caduta di Liberio. Si è scritto da alcuni che Osio sottoscrisse la seconda formola di Sirmio. Pertanto affin di vedere quale sia stata la caduta di Liberio, è necessario qui premettere la notizia delle tre formole di fede composte in Sirmio. Natale Alessandro vuole8. che una sola formola si fece in Sirmio, e che le altre due furono fatte in altri luoghi; ma il Baronio, e comunemente gli altri scrivono che tutte le tre formole furono fatte ne' concilj, o per meglio dire ne' conciliaboli di Sirmio. Né pure è verosimile, da ciò che si dirà, quel che scrive Socrate9, cioè che tutte tre le formole furono fatte in uno stesso concilio di Sirmio. Gli Ariani, per aver Liberio sottoscritta una delle tre formole, si vantarono, secondo rapporta Orsi10, ch'egli si fosse unito a tener la stessa fede ch'essi professavano. All'incontro Orsi11 si sforza a far credere Liberio affatto innocente, supponendo che fu esso liberato e restituito in Roma per la promessa di Costanzo fatta alle dame romane, oppure affin di sedare le turbolenze che allora ardeano in Roma. Ma secondo il sentimento molto più comune degli scrittori, Liberio commise un grande errore; non cadde però nell'eresia. Ciò dipende dal vedere quale formola delle tre fatte in Sirmio egli sottoscrisse.


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37. La prima formola fu fatta nell'anno 351. in Sirmio, dove prima fu condannato di nuovo Fotino vescovo della stessa città di Sirmio, il quale negava a Gesù Cristo non solamente la consostanzialità col Padre, ma anche la divinità, dicendo con Cerinto, Ebione e Paolo Samosateno che il Figliuolo di Dio non era stato prima di Maria1. Fotino era stato già condannato dal concilio di Sardica; ma egli ottenne dall'imperatore l'appellazione a questo concilio di Sirmio, in cui ritrovasi ancora Costanzo. Ivi però di nuovo fu riprovata la sua dottrina dagli stessi Ariani, e poi fu stesa la detta prima formola in greco spettante all'eresia di Ario, coi seguenti due anatematismi, come riferisce Natale Alessandro da s. Atanasio e s. Ilario2, il quale così li trascrisse in latino. Il primo diceva: Eos qui dicunt: Ex non ente, aut ex alio subsistente et non ex Deo Filium extitisse, aut quod tempus aut aetas fuit, quando ille non erat, alienos a se censet sancta et catholica ecclesia. Il secondo poi diceva: Si quis Christum Deum, Filium Dei ante saecula, administrumque ad universitatis opificium fuisse neget, sed quo tempore e Maria genitus est, Christum et Filium appellatum fuisse, et principium suae Deitatis tum accepisse dicat, anathema esto. Sicché in questa formola si approvava il Figlio essere stato ab aeterno da Dio, ed ab aeterno aver avuta la sua divinità. S. Atanasio la riputò Ariana ed empia; ma s. Ilario l'espose come cattolica. La verità si è che, considerata in sé, era cattolica, ma come uscita dagli Ariani era ariana.

 

38. La seconda formola (fatta anche in Sirmio, ma nell'anno 357., scritta in lingua latina3 e sottoscritta da Potamio e da Osio) fu pure ariana, riprovandosi ivi le voci consostanziale e simile nella sostanza, come aliene dalla scrittura. Ceterum, sono le parole di questa seconda formola, come le rapporta s. Ilario presso Natale4, nullam harum vocum mentionem debere fieri, quod de iis nihil sit scriptum in sacris literis, et quod illae hominum intellectum transcendant. Inoltre vi furono aggiunte altre bestemmie, cioè che il Padre era senza dubbio maggiore del Figlio, in onore, dignità, deità e nello stesso nome di Padre; di più che il Figlio era soggetto al Padre, con tutte le cose che il Padre aveva soggettate al Figlio: Nulli vero ambiguum Patrem maiorem esse honore, dignitate, deitate, atque adeo ipso nomine paterno... Filium vero Patri, cum omnibus quae illi Pater subiecit, subiectum esse. Questa formola da s. Ilario fu chiamata bestemmia; e nel suo libro de' sinodi trovasi descritta con questa iscrizione: Exemplum blasphemiae apud Sirmium per Osium et Potamium conscriptae.

 

39. La terza formola fu fatta in Sirmio nell'anno 339.5 dopo otto anni, scritta parimente in latino; e questa fu quella che poi da Valente e da Osacio fu presentata al concilio di Rimini, come attesta s. Atanasio nel libro de' sinodi. In essa riprovasi la voce di sostanza, ma si dice il Figlio simile al Padre in tutte le cose con questi termini: Vocabulum6 porro substantiae, quia simplicius a patribus positum est, et a populis ignoratur, et scandalum affert, eo quod in scripturis non contineatur, placuit ut de medio tolleretur... Filium autem Patri per omnia similem dicimus, quemadmodum sacrae litterae dicunt et docent. Nella prima dunque si omettea la parola consostanziale, ma si ammettea sostanziale. Nella seconda si tacea l'una e l'altra parola ed anche quella di simile. Nella terza si esprimea solamente quella di simile.

 

40. Torniamo ora a Liberio. Costanzo avea promesso alle dame romane di restituirlo in Roma; ma all'incontro avea promesso agli Eusebiani di non liberarlo, se prima non comunicava con essi. Onde impose a Demofilo vescovo di Berea, ove Liberio trovavasi esiliato,


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che insieme con Fortunaziano vescovo di Aquileia (il quale anche avea prevaricato) in tutti i modi avessero indotto Liberio a soscrivere la formola di Sirmio, e condannare s. Atanasio. Liberio stava già da tre anni in circa esiliato in Berea, avvilito dagli strapazzi e dalla solitudine, e specialmente afflitto dal vedere l'antipapa Felice suo diacono occupare la sede romana; e così lasciossi pervertire a sottoscrivere la detta formola, condannando nello stesso tempo s. Atanasio, e comunicando co' vescovi Ariani1.

41. Or qui si questiona fra gli scrittori quale delle tre formole avesse soscritta Liberio. Valesio vuole che avesse soscritta la terza: ma questa opinione non può sussistere, perché la terza fu formata nell'anno 359, e, come scrive s. Atanasio2, in quel tempo Liberio era già tornato a Roma. Altri poi, come Blondello e Petavio3, vogliono che avesse firmata la seconda pure Ariana: e questa opinione seguitano ancora gli eretici, e d'indi pretendono arguire che la chiesa cattolica ha potuto mancare. Il protestante Daneo4 numera tra i vescovi che passarono al partito Ariano, anche Liberio, soscrivendo quella formola; e da ciò egli poi conclude non potersi negare che anche la chiesa romana possa errare: Inter quos etiam omnium historicorum consensu Liberius romanus episcopus recensetur, ne quis romanam ecclesiam errare posse neget. Ma la sentenza comune de' Cattolici, o almeno molto più comune e molto più probabile con Baronio, Natale Alessandro, Graveson, Fleury, Giovenino, Tournely, Bernino, Orsi, Hermant e il dotto Selvaggi nelle note che fa all'istoria di Mosheim, è che Liberio firmò la prima formola, col cardinal Gotti5, il quale dice, parlando di tale opinione: Ita communiter sentiunt auctores catholici. E tal comune sentenza sta appoggiata a più forti motivi. Primieramente, come riferisce Sozomeno6, la formola che fu soscritta da Liberio fu quella che si formò nello stesso tempo, in cui fu condannato Fotino, ed ella senza dubbio fu la prima, non la seconda. Secondariamente la formola firmata da Liberio, e offertagli da Demofilo, come prova Giovenino dalla lettera di Liberio e da' frammenti di s. Ilario, non fu fatta dagli Anomei, cioè da' puri Ariani, ma da' Semiariani, quali erano lo stesso Demofilo, Basilio di Ancira, Valente, Orsacio ed altri colleghi, i quali ammetteano essere il Figlio non già consostanziale col Padre, perché non voleano approvare il simbolo Niceno, ma essere dalla sostanza del Padre; il che stava espresso solamente nella prima, non già nella seconda formola, nella quale fu soppressa affatto la voce di sostanza e di similitudine. Anzi i nominati vescovi, poco dopo formata la seconda, la riprovarono in un sinodo speciale convocato in Ancira. Né osta che la formola soscritta da Liberio fu soscritta anche dagli Anomei; perché questi furono costretti a soscrivere da Costanzo, il quale favoriva il partito dei Semiariani, come scrive Socrate7. Si aggiunge che Liberio, come dice Sozomeno8, dichiarò nella sua lettera scritta a' Semiariani, essere alieni dalla chiesa coloro qui Filium secundum substantiam et per omnia Patri similem non esse assererent. Dal che si vede che Liberio sottoscrisse la formola, ove si omettea la consostanzialità, ma si approvava la sostanzialità e la similitudine.

 

42. Né pure osta il dire che s. Ilario chiama perfidia la formola firmata da Liberio, Perfidiam apud Sirmium descriptam. Poiché Natale suppone che tali parole insieme cogli anatematismi, che si leggono pronunziati contro Liberio da s. Ilario ne' suoi frammenti,


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furono aggiunti da altri; mentre s. Ilario scrisse questi frammenti, dopo che Liberio era già tornato in Roma, dove Liberio con fortezza negò di approvare la formola fatta nel concilio di Rimini. Altri poi, come Giovenino, rispondono che s. Ilario chiamò perfidia la detta prima formola, considerandola nel senso perverso, secondo cui l'aveano intesa gli eretici; giacché, parlando di quella in se stessa, prima l'avea chiamata cattolica. Si oppone di più quel che scrisse s. Girolamo nel suo cronico: Liberius, taedio victus exilii, in haereticam pravitatem subscribens, Romanam quasi victor intravit. Risponde Natale1 che ciò disse s. Girolamo, non già per aver soscritta una formola per sé eretica, ma per avere comunicato cogli eretici. Ma il comunicar cogli eretici era bensì errore, e non già eresia. Si risponde da altri che facilmente ciò scrisse s. Girolamo, perché gli eretici, come dice Sozomeno2, sparsero la fama che Liberio soscrivendo la formola non solo avea riprovata la consostanzialità, ma anche la similitudine del Figlio col Padre. Ma con ciò non s'intende di giustificar la mancanza di Liberio, almeno per aver condannato s. Atanasio, e comunicato cogli Ariani. Del resto Liberio di poi affatto negò di sottoscrivere la formola di Rimini; onde fu costretto a fuggire da Roma, e nascondersi ne' cimiterj sino alla morte di Costanzo3.

43. Ritornato poi Liberio in Roma nell'anno 358., o come vuole il Baronio, nell'anno seguente, il cardinal Orsi4 dice ch'egli nel ritorno fu ricevuto con grande allegrezza del popolo e del clero; ma il Baronio5 scrive che tra i romani ritrovò allora moltissimi che gli erano avversi per la sua caduta, e che aveano aderito a Felice II.; il quale, benché prima era stato scismatico ed ordinato illegittimamente da tre vescovi Ariani, al partito de' quali in quel tempo erasi unito, nondimeno sentendo l'errore di Liberio, si era unito co' Cattolici, ed avea scomunicato l'imperatore: e perciò allora cominciò ad esser tenuto per legittimo pontefice, e Liberio per decaduto dal pontificato. Indi, come scrive il Baronio6, secondo il libro de' ponteficj avvenne che Felice fu condotto da' ministri imperiali nella città di Ceri 17. miglia lontana da Roma, ed ivi fu decapitato. Marcellino scismatico con Fleury dicono che Felice visse sino ad otto anni dopo il ritorno di Liberio; ma Sozomeno7 scrive che morì poco dopo che Liberio ritornò in Roma. Del resto il papa Bened. XIV.8, parlando di s. Felice, scrive così: Nec vero de Felicis sanctitate et martyrio ulla amplius superest dubitatio; cum tantum inter eruditos disputetur, utrum martyr fuerit quod gladio necatus sit, an quod multa pro Christo pertulerit. Aggiunge poi il Baronio che a tempo di Gregorio XIII. si dubitò se doveva cancellarsi il nome di Felice II. nel martirologio, ove trovavasi scritto fra' santi: ed egli confessa che fu di questa opinione, considerando il vizioso ingresso di Felice nel pontificato; ma dice poi che si ritrovò casualmente sotto terra un'arca di marmo con certe reliquie di santi martiri da un lato, e dall'altro il corpo di s. Felice con questa iscrizione: Corpus s. Felicis papae et martyris, qui damnavit Constantium. E ciò avvenne appunto ai 19. di luglio dell'anno 1583. il giorno avanti della festa di s. Felice. E perciò nel martirologio si lasciò come stava il nome del santo. Natale Alessandro9 oppugna il Baronio, dicendo che Felice II. non fu mai vero papa; ma il Roncaglia nella sua nota insieme con ambedue i Pagi fortemente lo difende. Le ragioni di questi autori sono notate ne' luoghi citati. Specialmente provano i Pagi contro Natale che il nome di s. Felice posto nei martirologi non si può intendere di s. Felice I., ma dee necessariamente intendersi di s. Felice II.


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44. Ritorniamo agli Ariani. Nel tempo della caduta di Osio e di Liberio eglino si divisero in più sette. Quei che erano del partito di Acacio, di Eudossio, di Eunomio e di Aezio furono chiamati Anomei, ed erano puri Ariani, che ributtavano la consostanzialità, ed anche la similitudine del Figlio col Padre. Quelli poi che seguirono Orsacio e Valente ritennero il nome di Ariani, ma non seguivano in tutto le massime di Ario. Quei finalmente che si unirono a Basilio di Ancira e ad Eustazio di Sebaste furono nominati Semiariani, e questi condannavano le bestemmie di Ario, ma non ammettevano la consostanzialità delle divine persone1.

45. Quindi passiamo a parlare del celebre e funesto concilio di Rimini, per cui scrisse s. Girolamo che si vide condannata la fede Nicena, e gemente si ammirò il mondo divenuto Ariano: Damnatio Nicaenae fidei conclamata fuit et ingemiscens orbis terrarum se Arianum esse miratus est2. Ritrovandosi allora così turbata la chiesa per causa della fede, fu stabilito di tenere due concilj, uno a Rimini città dell'Illiria e l'altro a Seleucia in Oriente3. Prima si fece quello di Rimini nell'anno 359. Ivi concorsero i vescovi dell'Illiria, d'Italia, Africa, Spagna, delle Gallie e di Brettagna in numero di più di 400., tra' quali 80. erano Ariani, e tutti gli altri erano Cattolici4. Cominciandosi ivi a trattare della fede, Orsacio, Valente ed altri capi del partito ariano presentarono una carta5, e dissero che tutti doveano contentarsi di quel solo scritto, dov'era spiegata l'ultima formola di Sirmio dell'anno 359., in cui si rigettava la voce di sostanza, e si diceva il Figlio essere simile al Padre in ogni cosa. Ma i vescovi cattolici risposero uniformemente che non vi era bisogno di altra formola; mentre si aveva da credere solamente a quella del concilio di Nicea6. Onde si stese il decreto, in cui si disse nulla doversi aggiungere o togliere al simbolo niceno, e dover sussistere il nome di sostanza; inoltre fu di nuovo condannata la dottrina di Ario, con 10. anatemi contro gli errori di Ario, Sabellio e Fotino. Tutti i Cattolici sottoscrissero il decreto: ma Valente e gli altri Ariani si ostinarono a non volerlo sottoscrivere; onde i medesimi furono giudicati eretici, e come tali furono condannati e deposti con un atto formale7. Questi furono Orsacio, Valente, Caio e Germinio8.

46. Indi furono mandati dieci vescovi come legati del concilio all'imperatore colla lettera conciliare9, in cui gli si diceva essersi giudicato da' padri che nulla doveva togliersi alla formola del Niceno, e che doleansi i medesimi di Orsacio e Valente che voleano stabilire un'altra fede, secondo lo scritto da essi presentato. Andarono in fatti i dieci legati; e gli Ariani ne inviarono dieci altri con Orsacio e Valente, i quali giunsero prima, e preoccuparono l'imperatore contro il concilio10, presentandogli la formola di Sirmio, che dal concilio di Rimini era stata riprovata. Giunsero appresso i legati del concilio, e Costanzo non diede loro udienza; e appena dopo molto tempo rispose al concilio11 che egli dovea partire contro i barbari, e per tanto aveva ordinato a' legati che l'attendessero in Adrianopoli, dov'egli sarebbe andato al ritorno, ed avrebbe risoluto il tutto. I padri del concilio di nuovo scrissero a Costanzo12 che essi non si sarebbero mai mossi dal giudizio fatto, e che per ciò lo pregavano a dar loro licenza di ritirarsi. Arrivato poi l'imperatore in Adrianopoli, vi si portarono anche i legati, i quali furono condotti ad una picciola città vicina, chiamata Nizza o Nicea, ed ivi cominciarono a trattare cogli Ariani, contro l'ordine del concilio che ciò aveva lor proibito; e quelli per via d'inganni


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e di minacce li sedussero a sottoscrivere una formola peggiore della terza di Sirmio, mentre non solo vi si rigettava la voce di sostanza, ma si diceva essere il Figlio simile al Padre, senza aggiungervi in tutte le cose, come stava in quella di Sirmio: di più gli indussero a rivocare la deposizione di Orsacio e compagni fatta dal concilio; e tutti sottoscrissero la suddetta formola di proprio pugno.

 

47. Fatto ciò, i legati ritornarono a Rimini1; ed allora Costanzo ingiunse a Tauro prefetto2 che non permettesse il discioglimento del sinodo, prima che tutti non sottoscrivessero la formola ultima di Nizza, e mandasse in esilio i vescovi renitenti, purché non passassero il numero di quindici. Scrisse insieme una lettera ai padri del concilio, con cui ordinava loro di non fare più menzione di sostanza e consostanziale. Ritornarono ancora a Rimini Orsacio e Valente: ed essendosi allora fatto superiore il loro partito, s'impadronirono della chiesa, e di scrissero all'imperatore di aver ubbidito alla soppressione delle mentovate due voci. I cattolici all'incontro diedero a principio segni della loro costanza3 con negare la comunione ai legati, i quali scusavansi del loro fallo, per cagion delle violenze sofferte nella corte; ma poi a poco a poco per la noia della dimora in Rimini debolmente cedettero, e sottoscrissero la formola sottoscritta già da' legati4.

48. Non può negarsi che i vescovi cattolici di Rimini commisero un grande errore; ma essi non tanto furono colpevoli per la mala fede, quanto per la poca accortezza in non avvedersi delle frodi degli Ariani5. L'inganno che li fece cadere, fu questo. Stavano eglino titubanti se dovessero o no sottoscrivere quella formola. Ora, mentre erano tutti uniti nella chiesa, e si leggeano gli errori che attribuivansi a Valente, il quale avea composta la formola, egli si protestò che non era Ariano, e perciò cominciò a dire: sia scomunicato chi dice non esser Gesù Cristo Figliuolo di Dio, generato dal Padre innanzi a tutt'i secoli: scomunicato chi dice non esser simile al Padre, secondo le scritture: chi dice esser egli creatura come tutte le altre (coprendo il veleno; poiché intendea Valente esser Cristo creatura, ma più perfetta delle altre): chi dice esser egli tratto dal niente, e non da Dio Padre: chi dice esservi stato un tempo, in cui egli non era, per modo che metta una cosa innanzi a lui (questo era un altro inganno), sia scomunicato; e tutti risposero sia scomunicato. E con questi fraudolenti anatematismi i Cattolici s'ingannarono in persuadersi che Valente non era Ariano, e così s'indussero a sottoscrivere la formola. Onde avvenne che il concilio di Rimini, dopo avere avuto un principioglorioso, ebbe una finefunesta; e così si sciolse il concilio, ed i vescovi ebbero licenza di partire. Ma essi, come scrisse s. Girolamo6, presto si accorsero del loro errore ed inganno: mentre appena sciolto il concilio, gli Ariani cominciarono a cantar la vittoria, dicendo essere stato abolito il termine sostanziale, e con esso la fede Nicena, e che se erasi detto non essere il Figliuolo creatura, s'intendea non esser come le altre creature, ma più nobile. Ed allora fu, come notammo di sopra, che s. Girolamo disse che tutto il mondo gemente ammirò se stesso da Cattolico divenuto Ariano. Del resto Natale Alessandro prova con s. Girolamo, s. Ambrogio, ed altri, e con sodi argomenti, che i vescovi di Rimini furono immuni da ogni macchia contro la fede, mentre soscrissero quella formola, che nel senso apparente nulla contenea di eretico7. Nello stesso tempo che faceasi il concilio in Rimini, si fece l'altro concilio in Seleucia, ove concorsero molti vescovi Ariani; ma presto si sciolse senza concludere alcuna


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formola, perché i vescovi si divisero in due partiti, e perciò nulla ivi si risolse1.

49. Scioltosi poi il concilio di Rimini, gli Ariani in Antiochia nell'anno 361., non contenti di quella formola, ne fecero un'altra in cui dissero2 che il Figliuolo era in tutto dissimile al Padre, non solo secondo la sostanza, ma anche secondo la volontà; ed aggiunsero ch'era tratto dal nulla, come Ario avea detto da principio. Fleury3 numera sedici formole di fede fatte dagli Ariani. Liberio però dove nell'esilio errò nel sottoscrivere la prima formola di Sirmio, come riferimmo al num. 41., ricusò poi costantemente nell'anno 360. dopo la sua libertà di soscrivere la formola di Rimini; e come riferisce il Baronio dagli atti di Liberio4, il papa fu costretto a lasciar Roma, e nascondersi ne' cimiterj, ove s. Damaso e gli altri del suo clero andavano a ritrovarlo; e quivi dimorò sino alla morte di Costanzo, la quale accadde nell'anno 361. Narra s. Gregorio di Nazianzo5 che trovandosi Costanzo in fine di vita si pentì, ma inutilmente, di tre cose: di avere sparso il sangue de' suoi congiunti, di aver fatto Cesare Giuliano, e di aver cagionate tante confusioni nella chiesa. Del resto che che sia di questo pentimento, egli morì nelle braccia degli Ariani, ch'egli avea protetto con tanto impegno; ed Euzojo6, ch'egli avea poc'anzi fatto ordinare vescovo di Antiochia, gli amministrò in quell'estremo il battesimo. La morte di Costanzo diede fine ai sinodi, e restituì per allora la pace alla chiesa; onde scrisse s. Girolamo: Muore la bestia, e ritorna la calma7.

50. Morto Costanzo, passò l'imperio in mano dell'empio Giuliano apostata, il quale professandosi idolatra, mosse una persecuzione più fiera contro la chiesa, non tanto per favorire gli Ariani, quanto perché era nemico della religione cristiana. Prima di passare alle altre persecuzioni che fecero gli Ariani contro i Cattolici, giova sapere lo scisma fatto dal misero Lucifero vescovo di Cagliari, il quale dopo aver fatte tante fatiche, e dimostrata tanta fortezza in difender la chiesa cattolica, irritato poi nell'anno 362. dal non vedere approvata da s. Eusebio l'ordinazione da lui fatta di Paolino in vescovo di Antiochia, si separò ingiustamente dalla comunione, non solo di s. Eusebio, ma anche di s. Atanasio e di papa Liberio; e così diede principio ad uno scisma, e si ritirò pieno di dispetto nella sua chiesa in Sardegna, ove morì circa l'anno 370. senza lasciare alcuna prova del suo ritorno all'unità della chiesa; ma ben lasciò alcuni seguaci della sua setta in Sardegna ed in più regni, i quali aggiunsero poi allo scisma l'errore di ribattezzare i battezzati dagli Ariani8. Si avverta nondimeno che il Calmet nella sua Istoria sacra e profana9 scrive che la chiesa di Cagliari da qualche tempo fa la festa di Lucifero come di un santo o beato nel giorno 20. di maggio. Il pontefice poi Benedetto XIV.10 riferisce che due arcivescovi della Sardegna avendo scritto pro et contra la santità di Lucifero, la santa congregazione dell'inquisizione romana nell'anno 1641. impose silenzio sotto gravi pene alla controversia, e decretò doversi osservare il culto di Lucifero in quello stato in cui era prima. I Bollandisti11 difendono fortemente questo decreto della santa congregazione. All'incontro Natale Alessandro12, quanto il Baillet13 sostengono che Lucifero venerato nella chiesa di Cagliari non sia quello di cui parliamo, ma un altro morto martire nella persecuzione de' vandali. Che che ne sia di ciò, io seguo le vestigia del mentovato Benedetto XIV. il quale dice due cose: la prima, che non si può asserire come certo che Lucifero si debba avere come beato: la seconda, che Urbano VIII. proibì a tutti


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in generale ed in particolare di disputare pro o contra la santità e culto di Lucifero, ed ordinò che le cose restassero nello stato in cui si trovavano.

 

§. 4. Persecuzione di Valente, di Genserico, di Unnerico e di altri regnanti Ariani.

51. Giuliano è fatto imperatore, e muore. 52. Viene eletto Gioviano e muore. 53. Valentiniano e Valente imperatori. 54. Morte di Liberio. 55. e 56. Valente fa morire ottanta ecclesiastici. Altre crudeltà di Valente. 57. Lucio perseguita i Solitarj. 58. Orrenda morte di Valente. 59. 60. e 61. Persecuzione di Genserico. 62. 63. e 64. Di Unnerico. 65. e 66. di Teodorico. 67. e 68. Di Leovigildo.

 

51. Dopo la morte di Costanzo passò l'imperio all'empio Giuliano apostata, il quale prima restituì i vescovi cattolici alle loro chiese; ma poi perseguitò crudelmente non solo i vescovi, ma tutti i fedeli, non tanto come cattolici, quanto come cristiani, essendosi dichiarato idolatra e nemico di Gesù Cristo1. Egli morì nell'anno 363. nella guerra co' persiani in questo modo. Standosi nel calore della pugna, egli vide che i persiani cominciavano a voltar le spalle; onde, per animare i suoi ad inseguirli, gridava alzando in alto le braccia, ed allora una saetta lanciata, come dice il Fleury2, da un cavaliere de' persiani gli passò un braccio e le coste, e gli entrò ben dentro del fegato. Esso allora si sforzò di cavarla fuori, in modo che si tagliò le dita; ma mancandogli le forze, cadde sul medesimo cavallo. Subito venne tolto di , ed avendo presi alcuni rimedj, gli parve esser ristorato; e perciò chiese l'armi e il cavallo per rientrare nella battaglia: ma perdendo affatto le forze si trattenne dove stava, e spirò nella stessa notte ai 26. di giugno, in età di 31. anni e mesi, avendo regnato un anno ed otto mesi dopo la morte di Costanzo. Narrano Teodoreto e Sozomeno3 che quando Giuliano si sentì ferito, empié subito una mano del suo sangue, e lanciandola in alto disse: O Galileo, hai vinto. Dice di più Teodoreto che s. Giuliano Saba solitario, mentre stava piangendo per le minacce fatte da Giuliano contro la chiesa, tutto ad un tratto i suoi discepoli lo videro rasserenato, e allegro dire: È morto il cinghiale che devastava la vigna del Signore. E quando giunse poi la novella della morte di Giuliano, si appurò che allora appunto era morto quando il santo vecchio l'avea detto4. Si crede che il cavaliere il quale fu l'esecutore della morte di Giuliano, come porta il cardinal Orsi5, dalla cronica alessandrina, fosse stato il martire s. Mercurio, morto nella Cappadocia cento anni prima nella persecuzione di Decio; il che era già stato prima prenunziato a s. Basilio in una celeste visione.

 

52. Nello stesso giorno che morì Giuliano, i soldati si unirono ed elessero Gioviano6, il quale era stato il primo tra le guardie dell'imperatore. Benché non fosse generale di armata, era amato per la sua bella presenza e pel gran coraggio che aveva dimostrato in molte occasioni di guerra. Eletto che fu Gioviano imperatore, disse7: Essendo io cristiano, non posso comandare agli idolatri; poiché l'armata non può vincere priva dei soccorsi di Dio. Allora i soldati esclamarono tutti: Non dubitate, signore, voi comanderete a cristiani. Rallegrato Gioviano di tal risposta, accettò la tregua offertagli da' persiani per anni trenta, ed indi in poi favorì con grande zelo la religione cattolica, riprovando così gli Ariani, come i Semiariani8. Egli dunque restituì la pace alla chiesa; ma questa calma poco durò; mentre l'anno appresso morì in età d'anni 33., e dopo soli otto mesi del suo imperio9. La ragione più comune di sua morte presso gli scrittori, come si ha da s. Girolamo10, fu l'aver dormito una notte in una stanza, ove si era accesa una gran copia di carboni per asciugar le mura, che di fresco erano state intonacate. E così la chiesa perdette un esimio suo campione.


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53. Morto Gioviano, fu eletto dall'esercito Valentiniano nell'anno 364. Era figlio di Graziano prefetto del pretorio, e Giuliano l'avea bandito1 per esser egli cristiano, ed aver percosso il ministro, che lo bagnò coll'acqua lustrale. Trovandosi l'imperio assalito da' barbari per molte parti, fu richiesto da' soldati che si eleggesse un collega; ed egli si elesse Valente suo fratello, dichiarandolo imperatore, e con lui si divise l'imperio2. Valentiniano regnò in occidente ove la chiesa godette una somma pace; e Valente governò l'oriente3, ove mantenne, anzi accrebbe la dissensione, ed usò tante crudeltà contro i Cattolici, come vedremo da qui a poco.

 

54. Nell'anno 366. venne a morte Liberio papa, il quale prima di morire ebbe la consolazione4 di ricevere in Roma una delegazione di molti vescovi orientali, che vollero unirsi alla chiesa cattolica. Ebbe Liberio 14. anni di papato, e, non ostante l'errore commesso di aver sottoscritta la formola di Sirmio, s. Basilio, s. Epifanio e s. Ambrogio lo chiamarono pontefice di s. memoria; e scrive il cardinal Orsi, che in alcuni martirologj da' greci e da' cofti è venerato come santo5; e, come dice Sandino6, il suo nome sta ancora nel martirologio di Beda ed in quello di Vandelberto. Dopo la sua morte fu eletto papa s. Damaso, uomo di gran dottrina e probità, ma egli ebbe a soffrire per molti anni lo scisma di Orsino, detto comunemente Orsicino, il quale nello stesso tempo si fece sacrilegamente consacrare anche papa7.

55. Ma parliamo ora di Valente imperatore, in cui provò la chiesa un persecutore più fiero di Costanzo. Egli sedotto da Eudossio vescovo Ariano, si pose con grande impegno a proteggerlo, e per conseguenza a perseguitare i cattolici8. E di ciò ne fece giuramento. Poiché dovendo andare alla guerra contro i goti, egli volle farsi battezzare dal medesimo Eudossio, e quell'empio nel punto di battezzarlo, lo fece obbligare con giuramento a perseguitare e bandire dalle loro patrie tutti i difensori della fede cattolica9; e Valente fu empiamente fedele ad osservare il detestabile giuramento. Onde gli Ariani, prevalendosi del favore dell'imperatore, si affaticavano a maltrattare i Cattolici, quanto poteano. I Cattolici, non potendo più soffrirli, deputarono 80. ecclesiastici di gran pietà, i quali ricorsero a Valente in Nicomedia, acciocché mettesse freno alle violenze de' loro nemici10; ma l'empio principe si adirò contro questi ambasciatori, e comandò segretamente a Modesto prefetto del pretorio che li facesse tutti morire; e Modesto puntualmente l'ubbidì in un barbaro modo. Poiché a fine di non eccitar rumore nel popolo, fece uscir voce che li mandava in esilio; e poi li fece entrare in una barca con ordine ai marinari che quando fossero in mezzo al mare e molto lungi dalla terra, sì che da niuno fossero osservati, mettessero fuoco alla barca, e così li lasciassero perire. Fu eseguito l'ordine crudele, ed in mezzo al mare diessi fuoco alla barca. Ma il Signore dispose che allora uscisse un vento gagliardo, che presto condusse al lido la barca, mentre stava bruciando, ed ivi finì di esser consumata dal fuoco11.

56. Indi Valente esiliò molti altri ecclesiastici della chiesa di Edessa12. Son noti ancora gli sforzi ch'egli fece per mandare in esilio s. Basilio. Ma fu ritenuto dalla mano divina con più miracoli, essendoglisi rotta la penna in mano ed inaridito il braccio, volendo scrivere la sentenza13. Perseguitò anche i Cattolici seguaci di s. Melezio14; ed avendoli cacciati dalle chiese, que' buoni fedeli si adunarono a piè di un monte; ed ivi lodavano Dio esposti alle


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piogge, alle nevi ed agli ardori del sole nell'estate. Ma anche di appresso li fece discacciare. Poche furono le città che non piansero per la tirannia di Valente la perdita de' loro pastori. S. Gregorio Nisseno1 descrive la desolazione di molte provincie cagionata da questo principe. Giunto ad Antiochia, molti ne fece tormentare e molti morire affogati nell'acqua2; ed infiniti poi furono gli esiliati nella Palestina, Arabia, Libia e in molte altre provincie.

 

57. Tra questo tempo, mentre i santi Solitarj della Siria e dell'Egitto3 attendeano colle loro virtù e miracoli a conservare i popoli nella fede, che perciò eransi renduti gli oggetti più odiati da Valente, egli per abbattere questi sostegni della religione cattolica, li costrinse con un editto4 a prendere l'armi ed arruolarsi nelle sue truppe, a fine di castigarli poi, se essi non ubbidivano, come già prevedea ed avvenne. Allora gli Ariani ebbero la libertà di scatenarsi con tutto il lor furore contro quegli innocenti, e specialmente contro i monaci di s. Basilio5. Frontone vescovo intruso in Nicopoli fece orribili violenze contro i Cattolici6. Ma molto lo superò Lucio, falso vescovo di Alessandria, il quale avendosi aperta la via a quella sede colla crudeltà, collo stesso mezzo seguì a mantenervisi. Pubblicata la legge di Valente, che i Monaci si arruolassero nella milizia, Lucio si mosse7 da Alessandria, ed accompagnandosi col comandante delle truppe di Egitto, si pose alla testa di tremila soldati, ed andò a' deserti della Nitria. Ivi trovando quei santi solitarj apparecchiati, non già a combattere, ma a farsi uccidere per amore di Gesù Cristo, ebbe egli il piacere8 di trucidare intiere truppe di monaci. Molti non però ebbero il comodo di fuggire, e nascondersi sino al numero di cinquemila9. Sazio poi Lucio di tormentare e di uccidere quegli innocenti anacoreti, pose opera acciocché i loro maestri, quali erano Isidoro, Eraclide, Macario di Alessandria e Macario di Egitto, fossero rilegati in un'isola paludosa di Egitto, gli abitanti della quale erano tutti idolatri. Ma giunti quei padri al lido, fu gittata a' loro piedi una fanciulla ossessa; per cui cominciò il demonio a gridare: O servi del sommo Dio, perché siete venuti a cacciarci da questo luogo, del quale da tanto tempo siamo in possesso? Allora essi coll'orazione posero in fuga i demonj, e rendettero la fanciulla sana a' loro parenti: e quindi con allegrezza furono ricevuti da quelle genti; le quali dopo aver demolito l'antico tempio de' loro idoli, si applicarono a fabbricarne un altro in onore del vero Dio. Giunta la notizia di tal conversione ad Alessandria, il popolo si pose a declamare contro il loro empio vescovo Lucio, dicendo ch'egli non facea la guerra agli uomini, ma a Dio. Onde Lucio, temendo la commozione del popolo, diede licenza a' solitarj di ritornare ai loro deserti.

 

58. Nell'anno 378. arrivò la divina vendetta contro Valente. Mentre i Goti nemici venivano10 ad insultarlo fin sulle porte di Costantinopoli, egli con molta infingardaggine tratteneasi nella stessa città a divertirsi in occupazioni inutili11. Il popolo offeso di tanta sua indolenza cominciò a lagnarsene pubblicamente: ond'egli allora uscì incontro ai nemici; e mentre andava, narra Teodoreto12, che s'incontrò con un santo monaco chiamato Isacco, il quale abitava colà vicino; e questi gli disse: Dove vai, imperatore, dopo aver fatta guerra a Dio? Lascia tu di fargli guerra, e Dio farà cessare la guerra contro di te. Ma se tu non fai conto di questo che ti dico, darai la battaglia, ed ivi proverai la vendetta di Dio: perderai l'armata, e non più tornerai. - Ritornerò, rispose adirato Valente, e ti


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farò pagare la pena di questa tua audacia colla morte; e frattanto lo fece arrestare in prigione1. Ma troppo si avverò la profezia del solitario. Giunto che fu Valente ove stavano i goti, Fritigerne capo de' nemici gli mandò una imbasciata, cercandogli la pace colla sola condizione di stabilirsi co' suoi nella Tracia. La sua offerta fu rigettata2: e, venute a fronte le due armate nel giorno 9. di agosto dell'anno 378., Fritigerne di nuovo cercò la pace; ma nel mentre stavasi consultando la risposta, improvvisamente si attaccò la mischia da Bacurio principe degl'iberi, e subito la battaglia diventò universale. Il macello de' romani fu sì grande, che dopo quello di Canne non si era veduto un simile. Essendo poi venuta la notte, Valente, per nascondere la sua fuga, si mescolò con alcuni soldati che fuggivano, ma ferito da una freccia, cadde da cavallo, e fu portato da' suoi nella casa di un villano sulla strada. Ivi subito sovraggiunse una truppa di goti per saccheggiarla, senza sapere chi vi era dentro; ma non potendo aprir la porta, vi posero fuoco, e si ritirarono; e così l'infelice Valente morì bruciato vivo nell'anno quindicesimo del suo imperio, e cinquantesimo di sua vita3. Giusto giudizio di Dio, come scrisse Orosio4. I goti aveano domandati a Valente alcuni vescovi che gli avessero istruiti nella religione cristiana. Valente inviò loro gli Ariani che infettarono quella povera gente della loro empia eresia; e così giustamente furono poi destinati gli stessi goti a far con lui la vendetta della divina giustizia. Morto Valente, restò Graziano padrone di tutto l'imperio; e questo buon principe diede la libertà a' Cattolici dell'oriente, e pose in pace la chiesa5.

59. Passiamo ora a parlare della persecuzione fatta a' Cattolici nell'Africa da Genserico Ariano re de' vandali. Questi, come scrive s. Prospero6, cominciò nell'anno 437. a perseguitare i Cattolici africani, col disegno di stabilire in tutta l'Africa la sua ariana eresia. Avendo appresso presa Cartagine, fece una guerra più crudele a' fedeli, spogliò le chiese, e le fece abitazione de' suoi vassalli, dopo averne scacciati i sacerdoti e tolti i sacri vasi; e volendo introdurre l'arianesimo in tutta l'Africa, scacciò i vescovi non solo dalle loro chiese, ma anche dalla città, e fece molti martiri7. Morto che fu s. Deogratias, non permise più a' Cattolici8 di eleggere alcun nuovo vescovo in Cartagine, ed anche proibì tutte le ordinazioni nella provincia Zeugitana e nella Proconsolare, ove erano 164. vescovadi; ed in vigore di questo editto un sì gran numero di vescovi in capo a 30. anni si ridusse a tre soli, de' quali due furono banditi, e il terzo se ne fuggì ad Edessa. Soggiunge il cardinal Orsi9, secondo l'istorico della persecuzione vandalica, che fu grandissimo il numero de' martiri; e specialmente si narra che vi furono quattro schiavi di un officiale di Genserico, ed erano tutti fratelli, i quali vedendo che nella casa del vandalo non poteano servire a Dio, secondo il loro desiderio, se ne fuggirono da quella casa, e si ritirarono in un monastero presso la città di Trabacca. Ma il vandalo fece tante diligenze, che finalmente li fece ricondurre in sua casa, e, postili in prigione carichi di catene, ivi non cessava di tormentarli. Venne ciò a notizia di Genserico, il quale, in vece di moderare la crudeltà del padrone, maggiormente l'irritò ad affliggerli. Pertanto il tiranno li fece battere con bastoni di palme, coi quali furono quei santi martiri lacerati a tal segno che comparivano scoperte e l'ossa e le viscere. E questo tormento durò più giorni; ma ne' giorni seguenti eglino miracolosamente trovavansi tutti sani. Indi li fece rinchiudere in una più angusta prigione co' piedi serrati in cavi di grosse tavole; ma quelle tavole un


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giorno si trovarono spezzate, come fossero state fracide. Genserico informato di ciò rilegò i quattro fratelli agli stati di un principe pagano, che teneva il suo regno in una parte de' deserti dell'Africa. Gli abitanti di quelle terre erano tutti gentili; ma giunti che furono ivi i nominati fratelli, fatti apostoli, ne convertirono una gran moltitudine. Ma perché non vi erano sacerdoti che loro amministrassero i santi sacramenti, alcuni di essi ebbero lo spirito di andare in Roma, ed ottennero dal papa un prete, come desideravano; ed allora moltissimi di loro furono battezzati. Genserico fatto consapevole di ciò, ordinò che ciascuno di quei fratelli fosse stato legato per li piedi dietro un carro, e così fosse strascinato per le selve, finché vi lasciasse la vita. E così fu fatto. Piangevano gli stessi barbari per compassione dello strazio di quegl'innocenti; ma essi, orando e lodando Dio, morirono in quel tormento1. Nel martirologio romano ai 14. di ottobre è notata la loro festa.

 

60. Inoltre Genserico, divenendo di giorno in giorno più nemico della chiesa, inviò2 nella provincia Zeugitana un certo Proculo colla potestà di costringere i vescovi a consegnare i libri santi e tutti i sacri vasi; affinché, tolte loro le armi potesse più facilmente poi tirarli a lasciar la fede cattolica. I vescovi negarono di poterli dare; onde i vandali si presero tutto a forza, sino a farsi le camicie delle tovaglie degli altari. Ma presto Proculo fu colto dalla divina vendetta: perché in breve morì, mangiandosi egli stesso per la rabbia la lingua. Accadde più volte allora che entrati gli Ariani nelle chiese calpestarono co' piedi il corpo e il sangue di Gesù Cristo. Inoltre privati delle chiese i cattolici, ne aprirono segretamente un'altra in un certo luogo rimoto. Lo seppero gli Ariani; ed uno dei loro sacerdoti, avendo raccolte genti armate, andò ad assalire i cattolici in quella chiesa; dove altri entrando colle spade alla mano, ed altri salendo sovra de' tetti, colle frecce ne uccisero molti davanti all'altare. Molti presero la fuga; ma questi di poi per ordine di Genserico anche furono fatti morire, con diverse sorte di pene3.

61. Indi Genserico promulgò un ordine che non fosse ammesso nel palazzo suo e de' suoi figliuoli chi non era Ariano; ed allora, come scrive Vittore Vitense4, si segnalò per la sua costanza nella fede un certo Armogaste, che stava nella corte di Teodorico, uno dei figli di Genserico. Teodorico tentò tutti i mezzi per farlo apostatare; adoperò prima le promesse, poi le minacce e poi i tormenti, i quali furono crudelissimi, facendogli stringere con funi fortemente le gambe e la fronte; lo fece poi sospendere in aria per un piede colla testa in giù, e finalmente stando Armogaste costante, ordinò che fosse decapitato. Ma indi per non farlo predicare martire da' Cattolici, lo condannò a scavare la terra, ed appresso a pascere una mandria di vacche. Un giorno stando Armogaste sotto di un albero in quel vile impiego, pregò un certo Felice Cristiano suo amico che dopo la sua morte lo seppellisse a piè di quell'albero. Armogaste tra pochi giorni morì; onde Felice per ottenergli la promessa si pose a scavar la terra nel luogo designato, ed ivi trovò in fondo una nobile tomba di marmo, dove lo seppellì. Il nome di s. Armogaste è notato nel martirologio romano ai 29. di marzo, insieme con Archimino e Saturo, che ebbero la stessa sorte. Con Archimino furono anche usati tutti gli artificj per farlo prevaricare; ma trovatolo fermo nella fede, ordinò Genserico che gli fosse tagliata la testa, con questa condizione che se nell'atto in cui doveasi vibrare il colpo avesse egli dimostrato timore, fosse decapitato: non poi, se avesse dimostrata intrepidezza; acciocché non l'avessero dopo la morte tenuto per martire i Cattolici. Egli in quell'atto si fece vedere intrepido; e perciò non fu ucciso.


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Saturo poi che era al servigio di Unnerico figliuolo maggiore del re, anch'esso fu minacciato di essere spogliato di tutto, se non abbracciava l'arianesimo. Saturo stette forte a tutte le minacce ed a' pianti della moglie; la quale un giorno andò a trovarlo con tutti i suoi figli, e piangendo gli si gettò a' piedi, ed abbracciandogli le ginocchia gli disse: Sposo, abbi pietà di me e di questi poveri figliuoli. E così volea tentarlo a compiacere il tiranno. Ma Saturo le rispose: Moglie mia, se tu mi amassi, non mi daresti la spinta a precipitarmi all'inferno. Facciano di me quel che vogliono: io terrò sempre avanti gli occhi le voci del Signore: che non può esser suo discepolo chi non è pronto a lasciar tutto per suo amore. E così seguì a star forte a non lasciarsi pervertire, e fu spogliato di tutto1. Morì finalmente Genserico nell'anno 477. dopo 50. anni in circa da che regnava sui vandali, e 49. dopo il suo ingresso nell'Africa. Lasciò Unnerico erede del regno, ma colla legge che in avvenire fosse l'erede della corona tra' suoi discendenti per linea mascolina quegli che si trovasse più avanzato in età2.

62. Unnerico nel principio del suo regno comparì benigno; ma poi fu crudele: e prima di tutti contro i suoi congiunti3. Fece tagliar la testa a Teodorico suo fratello ed al giovane suo figliuolo. E lo stesso avrebbe fatto con Gentone altro suo fratello, se non fosse stato prevenuto dalla morte; e poi cominciò a perseguitare i Cattolici. Ordinò al santo vescovo Eugenio che non più predicasse, e che non facesse entrar più nella chiesa uomini o donne. Rispose il santo che non potea proibire a veruno l'ingresso nella chiesa, ch'era aperta per tutti. Udita questa risposta, Unnerico4 fece mettere alle porte della chiesa alcuni carnefici con certe mazze dentate, le quali afferravano i capelli di coloro ch'entravano nella chiesa, e svellendo i capelli ne tiravano anche la pelle, in modo che per la violenza del dolore altri vi perdettero gli occhi ed altri la vita. Indi inviò molti nobili ai campi a mietere il grano. Uno di essi teneva inaridita una mano, sicché non potea prevalersene; e questi anche fu costretto ad andare: ma il Signore per l'orazione de' suoi buoni compagni gli restituì l'uso della mano. Pubblicò poi un editto che niuno servisse al suo palagio o esercitasse pubbliche cariche, che non fosse Ariano. E pertanto quei che non vollero compiacerlo, non solo furono discacciati, ma anche spogliati de' loro beni e rilegati in Sicilia ed in Sardegna. Ordinò ancora che i beni de' vescovi Cattolici dopo la loro morte fossero devoluti al Fisco, e che non si potesse ordinare alcun successore di loro, se non pagasse 500. soldi d'oro. Di poi fece raccogliere le sacre vergini, e le fece tormentare con lamine di ferro infuocate, facendole sospendere con grandi pesi a' piedi, affinché dicessero di aver avuto turpe commercio co' vescovi e preti Cattolici. Molte ne perirono pei tormenti; e quelle che sopravvissero, avendo la pelle tutta arrostita, restarono curve per tutta la loro vita5.

63. Inoltre l'empio Unnerico mandò in esilio nel deserto vescovi, sacerdoti, diaconi ed altri Cattolici sino al numero di 4976. Tra questi vi erano molti gottosi, molti renduti ciechi per la gravità degli anni. Felice di Abbitiro vescovo era paralitico da 44. anni, per modo che avea perduto ogni sentimento ed anche la parola. Non sapendo i vescovi Cattolici come condurlo seco, fecero pregare il re di lasciarlo a Cartagine, ove presto sarebbe morto. Rispose il re: Se non può andare a cavallo, vada tirato colle funi da' buoi. Onde si dovette menarlo sovra d'un mulo, legato a traverso a guisa di un pezzo di legno. I confessori poi nel viaggio a principio ebbero qualche libertà, ma poi furono trattati con crudeltà; poiché furono serrati in una prigione molto angusta, ove fu proibito a tutti di visitarli, ed essi stavano ammucchiati l'un sovra l'altro, senza aver


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luogo di scostarsi tra loro per sollievo delle naturali occorrenze: il che produsse presto una infezione ed un incomodo peggiore di ogni tormento; mentre quei santi fedeli, come narra Vittore Storico, stavano sino al ginocchio dentro di quel loto puzzolente, ed ivi doveano sedere e dormire, e mangiare quel poco di orzo ch'era dato loro per cibo, come fossero cavalli1. Uscirono poi da quel carcere, che meglio potea dirsi cloaca, e furono condotti al luogo destinato. I vecchi e gli altri che venivano meno per la debolezza, erano spronati a correre co' sassi o colle punte delle lance. Ma quei miseri quanto più erano stimolati a camminare in tal modo, tanto più venivano meno; onde tutti gl'infermi furono fatti legare da' Mauri per li piedi, e strascinati per luoghi aspri e sassosi, come cadaveri di bestie; e moltissimi così ne morirono, lasciando la via bagnata del loro sangue2.

64. Nell'anno poi 483., secondo il Fleury e Natale Alessandro3, volendo Unnerico distruggere tutti i Cattolici nell'Africa, ordinò in Cartagine una conferenza tra' Cattolici ed Ariani. Vi accorsero i vescovi di tutta l'Africa ed anche delle isole soggette ai Vandali; ma per opera di Cirillo patriarca degli Ariani, temendo egli la ruina della sua setta per tal conferenza, ella fu divertita. Per lo che il re maggiormente si adirò contro i Cattolici, e segretamente per tutte le provincie mandò un suo editto, col quale, mentre i vescovi erano in Cartagine, in un sol giorno furono chiuse tutte le chiese dell'Africa; e tutti i beni così delle chiese, come de' vescovi Cattolici furono dati a' vescovi Ariani, secondo, come diceasi nel decreto, le pene emanate contro gli eretici nelle leggi degl'imperatori. Fu eseguito il barbaro editto, ed i vescovi furono spogliati di quanto aveano, e cacciati fuori di Cartagine, con ordine di più che niuno desse loro né ricovero, né cibo, sotto pena di essere bruciato con tutta la sua casa4. Unnerico finalmente verso l'anno 484., dopo aver commesse tante tirannie, e fatti uccidere innumerabili Cattolici, terminò di regnare e di vivere con una fine degna della sua vita. Morì putrefatto e mangiato vivo da un brulicame di vermi, mandando fuori le intestine e le viscere, e lacerandosi co' denti da furioso le proprie carni; onde non fu data sepoltura all'intiero suo corpo, ma a' brani di esso. Egli morì dopo aver regnato otto anni non compiti, senza aver la consolazione di lasciare il regno ad Ilderico suo figliuolo, per cui avea fatta strage della sua famiglia; poiché, secondo il testamento di Genserico, la corona passò a Guntamondo figliuolo di Gentone suo fratello: a cui nell'anno 496. successe poi Trasamondo, il quale circa l'anno 504.5 imprese a rovinare totalmente la religione Cattolica nell'Africa, mandando specialmente in esilio 224. vescovi, e fra questi il glorioso s. Fulgenzio. Ma essendo morto Trasamondo nell'anno 523., gli successe Ilderico, principe, come scrive Procopio6, subditis affabilis et totus ad mansuetudinem natus. Ilderico pertanto, soggiunge il Graveson7, bene affetto alla religione Cattolica, richiamò dall'esilio s. Fulgenzio e gli altri vescovi, e diede libertà a tutti i Cattolici del suo regno di esercitar francamente la loro religione. Ma Ilderico poi nell'anno 530. fu dal regno discacciato da Glimere Ariano: ed allora fu che Giustiniano imperatore, per vendicare l'ingiuria fatta ad Ilderico suo amicissimo, mosse la guerra a Glimere, e per mezzo di Belisario nell'anno 533. ricuperò Cartagine e le città principali; ed avendo soggiogata tutta l'Africa al Romano imperio, ne discacciò gli Ariani, e restituì le chiese a' Cattolici.

 

65. Seguirono dopo la morte di Unnerico altre persecuzioni degli Ariani. Teodorico re d'Italia figlio di Teodemiro


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re degli ostrogoti, fu pure Ariano, e perseguitò i Cattolici fino alla morte, che gli accadde nell'anno 526. Egli bensì meritò lode in tenere presso di sé ministri probi e dotti. Fra gli altri ebbe il gran Boezio uomo di molta scienza, e vero Cristiano, ma poi per opera de' suoi emuli calunniatori lo fece carcerare; ed avendolo tenuto per molto tempo in prigione, alla fine senza sentir le sue difese lo fece straziare con un tormento lungo ed orribile: poiché gli fu posta da' carnefici una corda alla fronte, e stretta con tanta violenza, che gi si creparono gli occhi. Morì Boezio, che fu un gran sostegno della fede in quel secolo, nell'anno 524. e 55. di sua età1. Così ancora Teodorico barbaramente sotto calunniosi pretesti fece morire Simmaco, uomo degno d'ogni rispetto e suocero di Boezio, per un vano timore che Simmaco per la morte di Boezio non macchinasse qualche cosa contro del suo regno2. Così anche fece morire di stenti e fame nel carcere il s. pontefice Giovanni, il quale per tanti secoli è stato onorato dalla chiesa come martire. Alcuni han voluto incolpare s. Giovanni di aver indotto il pio imperator Giustino a far restituire agli Ariani tutte le loro chiese; altri poi ciò negano. Il cardinal Orsi3 dice che gli atti di questa istoria sono molto oscuri. Del resto, da quel che riferisce e giudica l'anonimo del Valesio, egli crede che il papa non richiese già la restituzione agli Ariani di tutte le loro chiese, ma di quelle sole che essi possedeano, o che erano deserte, e non consacrate; e ciò a fine che Teodorico, contento di quelle sole chiese, lasciasse di scacciare dalle chiese proprie i Cattolici con darle agli Ariani, come si temea4. Ma Natale Alessandro con Baronio ed Orsi5, a' quali aderisce anche Gianlorenzo Berti6, meglio scrive che il papa s. Giovanni ricusò d'insinuare all'imperatore che avesse restituite le chiese agli Ariani; e ciò abbastanza si prova dall'epistola II. dello stesso pontefice a' vescovi d'Italia, nella quale attestò di aver consacrate in oriente, e fatte restituire ai Cattolici tutte le chiese che stavano in mano degli Ariani; e perciò s. Giovanni poi in Italia fu posto da Teodorico in carcere, ove morì consumato da' patimenti ai 27. di maggio dell'anno 526.

66. Con tuttociò Teodorico non contento di tante sue tirannie, come scrive il mentovato anonimo7, ai 26. di agosto dell'anno 526. fece stendere gli editti, che gli Ariani occupassero tutte le chiese de' Cattolici. Ma Dio si compiacque, avendo pietà de' fedeli, di toglierlo di vita con una morte improvvisa. Un violento flusso di ventre in termine di tre giorni lo ridusse all'estremo, e nella stessa domenica, in cui avea il tiranno determinato di far eseguire i suoi editti, egli perdette il regno e la vita. Principio di quel mortale scioglimento di ventre dovette essere quel che narra un altro istorico contemporaneo8, cioè che mentre egli cenava, gli fu posto in tavola il capo di un gran pesce. Parve a Teodorico di vedere in quello il capo di Simmaco poco prima fatto morire, e gli parea esser da lui minacciato con occhi furibondi. Spaventato e pieno di timore subito si pose in letto; espose il fatto ad Elpidio suo medico, ed in quel mentre detestò la sua crudeltà usata con Boezio e Simmaco; ed in tali agitazioni di animo e contorsioni di viscere se ne morì. Scrive s. Gregorio9 che un certo santo solitario dell'isola di Lipari, quando morì Teodorico, gli parve di vederlo in mezzo a s. Giovanni papa ed a Simmaco, scalzo e spogliato de' suoi ornamenti, e che da essi era gittato nella vicina voragine di Vulcano.

 

67. Anche Leovigildo re de' visigoti fu Ariano, e regnò nella Spagna. Ebbe dalla sua prima moglie due figliuoli, Ermenegildo e Reccaredo, e si rimaritò


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con Gosvinta vedova di un altro re de' visigoti. Leovigildo maritò Ermenegildo con Ingonda, la quale essendo Cattolica ricusò di farsi ribattezzare dagli Ariani, come volea Gosvinta la matrigna pure Ariana; e non potendola guadagnare, la prese un giorno con furore per li capelli, e gittandola a terra percossela con calci, fino a farle spargere sangue; poi la spogliò a forza, e l'immerse in una conca di acqua per ribattezzarla. Ma Ingonda stette sempre ferma nella fede Cattolica, e convertì anche Ermenegildo suo marito. Saputo ciò da Leovigildo, cominciò a perseguitare tutti i Cattolici: molti furono esiliati e spogliati de' loro beni1, altri battuti, carcerati e messi a morte per fame, o con supplizj. Molti vescovi ancora furon rilegati, e le chiese furon private delle loro rendite. Ermenegildo poi fu mandato dal padre in carcere, dove essendo venuto da parte del padre un vescovo Ariano nella festa di Pasqua a dargli la comunione, egli lo discacciò, chiamandolo eretico; onde il padre mandò poi alcuni officiali a torgli la vita, tra' quali uno gli aprì la testa con un colpo di mannaia. Ciò accadde nell'anno 586.2; e così questo principe meritò la corona di santo e di martire.

 

68. Il barbaro Leovigildo poco sopravvisse alla morte del figlio. Si pentì poi di averlo fatto morire, e, come dice s. Gregorio3, riconobbe la verità della religione Cattolica; ma non meritò di abbracciarla, poiché il timore della sua nazione gl'impedì tanto bene. Fleury nondimeno rapporta più autori4, i quali dicono che Leovigildo prima di morire passò sette giorni piangendo i mali fatti, e che morì Cattolico nell'anno 587. e 18. del suo regno. Lasciò erede Reccaredo l'altro suo figlio, il quale si fece Cattolico5, e ricevette da' Cattolici il sacramento della cresima; e tanto si armò di zelo per la fede Cattolica, che indusse i vescovi Ariani e tutta la sua nazione de' visigoti a professarla, discacciando ogni eretico dalle cariche e dalle sue milizie. E così il principio del suo regno fu la fine dell'Ariana eresia nella Spagna, in cui avea regnato dall'entrata de' barbari, cioè dal principio del quinto secolo, pel corso di 180. anni in circa6. Così anche nell'Africa, quando Giustiniano imperatore se ne rendette padrone per mezzo di Belisario circa l'anno 535., fu ristabilita la religione cattolica, come si disse nel capo 4. num. 64.7. Nelle Gallie i borgognoni dopo la morte di Gontabaudo loro re, che morì nell'anno 516., lasciarono l'eresia di Ario nel tempo di Sigismondo suo figlio e successore, il quale nell'anno antecedente 515. era stato convertito da s. Avito vescovo di Vienna8. I longobardi nell'Italia sotto re Arimberto circa l'anno 660. abbandonarono l'Arianesimo, ed abbracciarono la fede Cattolica, nella quale perseverarono9. Il Danes così conchiude il suo discorso sull'eresia di Ario: Sic funesta illa hydra, tot malorum foecunda parens, tum quidem extincta est; sed post annos fere 900. circa annum 1530. reviviscere coepit in Polonia et Transilvania per novos Arianos et Antitrinitarios, qui de malo in peius ruentes, priscis illis Arianis longe deteriores facti sunt, et cum Deistis atque Socinianis confunduntur.

 




3 An. 319. Van-Ranst. p. 70.



4 Nat. Alex. t. 8. c. 3. a. 3. Fleury l. 10. Hermant t. 1. c. 85. Orsi l. 12. n. 2.



5 Nat. ibid. a. 2. S. Ath. cum Socrat. et Theodoreto. Orsi l. 12. n. 41. Fleury t. 11. n. 15. Bar. ann. 310. n. 4.



6 An. 310. n. 4. et 5.



7 Nat. Al. t. 8. diss. 9.



8 S. Epiph. Haer. 69. n. 2. Theodor. l. 1. c. 1. Pagi ann. 311. n. 19. Fleury l. 10. n. 28. Orsi l. 12. n. 2. et 3. Hermant cap. 85.

1 Nat. Al. a. 3. §. 2. Fleury cit. n. 28. Baron. ann. 315. n. 19. et 20. Hermant c. 84.



2 Nat. Al. a. 4. §. 1. Fleury ib. Herm. c. 86. Orsi l. 12. n. 5. a. 7.



3 L. 1. c. 4.



4 Socrat. l. 1. c. 6. Orsi n. 9. Fleury vedi al l. cit.



5 S. Ath. Apol. 15.



6 Orsi l. 12. n. 16. Fleury l. 10. n. 37.



7 Euseb. in vit. Constant. c. 63.

1 Baron. ann. 318. n. 88. Fleury n. 42. Van-Ranst p. 71.



2 Nat. Al. a. 4. §. 1. Fleury l. 10. n. 43. Orsi l. 12. n. 21. Hermant l. 1. c. 86.



3 Orsi l. 12. n. 24.



4 Fleury l. 11. n. 1. Orsi l. 12. n. 25.



5 Baron. an. 325. n. 64. Nat. Alex. a. 4. §. 2. Fleury t. 2 l. 11. n. 2. cum Ruf. Socr. s. Athan. et Soz.



6 Theod. l. 1. c. 7. Fleury l. 11. n. 2. Orsi t. 4. l. 11. n. 26.



7 Socrat. l. 1. c. 3. Nat. Al. a. 4. §. 2. Orsi n. 27. Fleury n. 5.



8 Apol. de Fuga.

1 N. 22. infra.



2 L. 11. n. 10.



3 Fleury l. 11. n. 6. Orsi l. 12. n. 28. et 38.



4 Fleury t. 2. l. 11. n. 11.



5 Socr. l. 2. c. 8.



6 Fleury l. 11. n. 11. cum Theod. l. 1. n. 6. et s. Ambros. l. 3. de Fide c. 3.



7 1. Cor. 11. 7.



8 Act. 17. 28.



9 2. Cor. 4. 11.



10 Rom. 8. 38. 39.



11 Ioan. 10. 34. - Fleury al l. cit. con s. Atan.



12 Ioan. 10. 30.

1 Nat. Al. a. 4. §. 2. ex Rufin. l. 1. Hist. c. 1. et Theod. l. 1. c. 11.



2 Fleury l. 11. n. 10.



3 Theod. l. 1. c. 7.



4 Euseb. in vita Const. c. 12.



5 Not. Concil. p. 88. ex s. Athan. Socr. Rufin. et Theod.



6 Hist. Arian. n. 42.



7 Ann. 325. n. 173.



8 L. 1. c. 28.



9 Socr. l. 1. c. 8.



10 Fleury l. 11. n. 24. Orsi t. 5. l. 12. n. 54.

1 Orsi l. 12. n. 13.



2 Ep. ad Cresphon.



3 Theol. t. 3. a. 4. §. 1.



4 Fleury t. 2. l. 11. n. 24. Orsi t. 5. l. 12. n. 42.



5 Nat. Al. a. 4. §. 2.



6 S. Athan. de synod. n. 3. Nat. Alex. a. 4. §. 2.



7 Eus. hist. l. 3. c. 18. et Socr. l. 1. c. 9.



8 Orsi t. 5. l. 12. n. 42.

1 Orsi t. 5. l. 12. n. 43. Nat. Al. ibid.



2 L. 1. c. 11.



3 Ibid. n. 44.



4 S. Epiph. Haer. 59. et s. Hier. adv. Vigilan.



5 Orsi ibid. n. 45.



6 Nat. Alex. t. 8. diss. 20. prop. 2.



7 Orsi t. 5. l. 12. n. 53.



8 Orsi ib. n. 54.

1 Fleury l. 11. n. 29.



2 Orsi n. 80.



3 Orsi n. 84. Nat. Alex. a. 4. t. 4. Fleury ibid. n. 11.



4 Theod. l. 1. t. 22.



5 Orsi t. 5. l. 12. n. 87.



6 Orsi n. 90.



7 Orsi l. 12. n. 90.



8 Socr. l. 1. c. 33. et Sozom. l. 2. c. 27. Rufin. l. 1. c. 2. Nat. Al. c. 3. a. 4. §. 4. Fleury l. 11. n. 55.



9 Orsi l. 12. n. 91.



10 Orsi l. 12. n. 91.

1 Socrat. l. 1. n. 28.



2 Orsi.



3 Ibid. 97.



4 Epiph. Haer. 69.



5 Orsi l. 12. n. 97.



6 Ibid. l. 12. n. 93.



7 Ib. n. 94. ex s. Athan. Apol. contra Ar. n. 65.

1 Orsi n. 201.



2 Nat. Al. t. 8. c. 3. a. 4. §. 3. Hermant t. 1. c. 92. et 93. Fleury l. 11. n. 48. et seq. Fleury l. 11. n. 57.



3 Orsi l. 12. n. 116.



4 Orsi n. 117.



5 Fleury l. 11. n. 57.



6 Socr. l. 1. c. 36. et Soz. l. 2. c. 33.



7 Orsi t. 5. l. 12. n. 119.



8 S. Epiph. Haer. 69. n. 10.



9 Socr. l. 1. c. 37.



10 Ibid. c. 38.



11 Baron. an. 336. n. 45. Orsi l. 12. n. 122.

1 Libell. Marcell. et Faust. p. 18. vedi Orsi n. 122.



2 S. Epiph. Haer. 69. n. 10.



3 Socr. l. 1. c. 68.



4 Baron. an. 336. n. 51. et 52. Fleury t. 2. l. 11. n. 58. Hermant t. 1. c. 54. Orsi l. 12. n. 123. Natal. t. 8. c. 3. a. 3. §. 4.



5 Socrat. l. 1. c. 39.



6 In vit. Const. l. 4. c. 61. et 62.



7 An. 324. n. 32.



8 In Antiq. etc. p. 2. diss. 3. c. 6.



9 Socrat. l. 1. c. 39. Sozom. l. 2. c. 34. Theod. l. 1. c. 32. s. Hieron. in Chron. Fleury l. 11. n. 60. Orsi l. 12. n. 133. Natal. Al. t. 8. diss. 23.



10 Euseb. in vit. Const. l. 4. c. 62.

1 Natal. Al. t. 8. diss. 24.



2 Socrat. l. 2. c. 37. Sozom. l. 4. c. 18. Teod. l. 2. c. 19. s. Athan. de syn. Rim.



3 T. 5. l. 12. n. 134.



4 Theod. t. 1. c. 32.



5 L. 3. c. 12.



6 S. Alban. Apol. contra Ar. n. 87.



7 Hist. Ar. ad Mon. n. 8.



8 Euseb. in vit. Const. l. 4. c. 64. et 69.



9 Orsi l. 12. n. 30.



10 Socrat. l. 2. c. 7.



11 Fleury t. 2. l. 12. n. 7.



12 Athan. Apol. 2. p. 720.



13 Fleury n. 8.

1 Nat. Alex. t. 8. c. 3. a. 4. §. 8. Hermant t. 1. c. 97. Fleury ibid. n. 10.



2 Natal. Alex. diss. 27. a. 3. Baron. an. 347. n. 7. Annat. l. 5. sect. 4. a. 5. n. 14.



3 Hist. Ar. n. 15.



4 Orsi l. 13. n. 61.



5 Theod. l. 2. c. 8.



6 Fleury l. 12. n. 35. Orsi l. 13. n. 64.



7 S. Athan. Ap. contra Arian. num. 35. Fleury loc. cit. Orsi l. 13. n. 65.



8 Orsi l. 13. n. 74.



9 Ibid. n. 84.



10 Ib. n. 86. et 88.



11 S. Hilar. Fragm. 5.



12 Orsi t. 6. lib. 14. n. 21.



13 Sever. Sulp. Hist. l. 2. n. 55.

1 Orsi n. 22. et 23.



2 Soz. l. 4. c. 9. Socr. l. 2. c. 36. Fleury t. 2. l. 13. n. 17.



3 Fleury loc. cit.



4 Orsi l. 14. n. 30.



5 Orsi loc. cit. n. 30.



6 Sev. Sulp. l. 2.



7 Fleury l. 13. n. 17.



8 Orsi l. 14. n. 31. ex s. Hilar. l. 2. ad Const.



9 S. Athan. ad Solit. p. 831.



10 S. Athan. p. 836. Fleury l. 13. n. 17. Orsi ibid.



11 Orsi l. 14. n. 34.



12 Ibid.



13 Ibid.



14 Ib. n. 39.



15 Ibid. n. 41.

1 S. Athan. hist. Ar. n. 44. Orsi l. 14. n. 43. Fleury l. 13. n. 22.



2 Fleury l. 13. n. 22. Orsi l. 14. n. 43.



3 S. Hilar. de syn. n. 11. Sozom. p. 4. c. 6. et 12. s. Epiph. haer. 73. n. 14. Orsi l. 14. n. 70. Fleury l. 13. n. 45. Nat t. 8. c. 3. a. 3. §. 8. Hermant t. 1. c. 101.



4 S. Hilar. Fragm. 11. n. 5.



5 Hist. Arian. n. 45.



6 Lib. contra Parm. c. 5.



7 Fleury ed Orsi ne' luoghi cit.



8 Natal. Ibid. §. 16.



9 Socr. l. 2. c. 30.



10 T. 6. l. 14. n. 71.



11 Ibid. n. 72.

1 Sozom. l. 4. c. 5. Socr. l. 2. c. 24.



2 Natal. Alex. §. 16. ex s. Athan. de syn. s. Hilar. de syn.



3 Socr. l. 2. c. 25. Sozom. l. 4. c. 3. s. Athan. et s. Hilar. loc. cit.



4 Ibid. §. 18.



5 Natal. ib. Fleury l. 13. n. 46.



6 Natal. ibid.

1 Orsi t. 6. l. 14. n. 71.



2 Apud Tournely theol. t. 2. part. 5. q. 4. a. 1. sect. 2. p. 119.



3 Blondell. de Primatu p. 48. 484. Petav. in observ. s. Epiph. p. 316.



4 Op. de Haer. c. 4.



5 Baron. an. 357. n. 43. Natal. Alex. t. 9. diss. 32. Graves. hist. t. 4. coll. 5. Fleury l. 13. n. 46. Iuvenin. theol. 40. 3. q. 2. c. 1. a. 4. §. 4. p. 90. Tourn. theol. t. 2. q. 4. a. 2. sect. 2. a. 3. p. 119. Bernin. t. 1. sect. 4. c. 7. Orsi l. 14. n. 71. Hermant t. 1. c. 101. Gotti de vera eccl. t. 2. c. 45. §. 4. n. 6. Selvag. Nota 52. ad Mosh. part. 2. c. 5.



6 L. 4. c. 15.



7 L. 2. c. 24.



8 Iuven. loc. cit.

1 Cit. diss. 32.



2 Loc. cit.



3 Theod. l. 2. c. 22. Baron. an. 359. n. 37.



4 T. 6. l. 14. n. 72.



5 An. 357. n. 57.



6 Ib. n. 59.



7 L. 4. n. 14.



8 De Can. ss. t. 4. p. 2. c. 27. n. 14.



9 T. 9. diss. 32. a. 3.

1 Hermant t. 1. c. 102. Orsi l. 14. n. 80.



2 S. Hier. dial. adv. Lucifer.



3 Fleury t. 2. l. 14. n. 9. Orsi t. 6. l. 14. n. 93.



4 S. Ath. de synod. p. 874. s. Hilar. Frag. p. 453.



5 Sozomen. l. 4. c. 17.



6 S. Alb. de syn. p. 877. Soz. l. 4. c. 17.



7 Ib. p. 879. s. Hilar. Frag.



8 Fleury t. 2. l. 14. n. 11.



9 Soz. l. 2. c. 37. s. Athan. p. 867. Fleury n. 12.



10 Theod. l. 2. c. 19. Sozom. l. 4. c. 19.



11 Socr. l. 2. c. 39.



12 Socr. ibid. Theod. l. 2. c. 20.

1 S. Hilar. Fragm. p. 453.



2 Sulp. Sev. l. 2. c. 59.



3 Sulp. loc. cit.



4 Natal. Al. t. 8. c. 3. a. 4. §. 24. Fleury l. 14. n. 15. et seq. Hermant c. 103. Orsi t. 6. l. 14. ibid. p. 274.



5 Orsi n. 94. p. 486.



6 Ad Lucif. n. 17. apud Orsi t. 6. l. 14. n. 93. p. 271.



7 Nat. t. 9. diss. 33.

1 Fleury l. 14. n. 16. et 17.



2 S. Athan. de synod. p. 906.



3 L. 14. n. 33.



4 An. 359. n. 37.



5 S. Greg. Naz. Orat. 21.



6 Socr. l. 2. c. 47.



7 Orsi t. 6. l. 14. n. 116.



8 Orsi t. 6. l. 15. n. 60.



9 L. 65. n. 10.



10 De Sanctor. canon. etc. t. 1. l. 1. c. 40.



11 Die 20. maii p. 207.



12 Sec. 4. c. 3. a. 13.



13 In vita Lucif. ad diem 20. maii.

1 Fleury t. 2. l. 14. n. 34.



2 L. 15. n. 47.



3 Theod. c. 25. n. 6. Soz. l. 6. c. 2.



4 Theod. l. 3. c. 24. Philost. c. 2. p. 779.



5 Ist. t. 3. l. 7. n. 42.



6 Theod. l. 4. c. 1. Fleury t. 2. l. 15. n. 69.



7 Fleury nel l. cit. da Sulp.



8 Orsi t. 7. l. 16. n. 3.



9 Orsi l. 16. n. 15. Theod. l. 4. n. 5.



10 S. Hier. ep. 60. al. 3. ad Heliod.

1 Sulp. l. 5. n. 9. Fleury t. 3. l. 16. n. 1.



2 Fleury ib. Orsi t. 7. l. 16. n. 16.



3 Fleury loc. cit.



4 Orsi ib. n. 32.



5 Orsi ib. n. 32. et 33.



6 Vita Pont. t. 1. pag. 105.



7 Orsi ib. n. 34.



8 Fleury t. 3. l. 16. n. 10.



9 Fleury ib. n. 11. Orsi t. 7. l. 16. n. 38.



10 Theod. l. 4. c. 24. Soz. l. 6. c. 14. Socr. l. 4. c. 15.



11 Nat. t. 8. c. 1. n. 8. Orsi t. 7. l. 16. n. 56.



12 Orsi ib. n. 100.



13 Nat. t. 8. c. 1. n. 8. Theod. Socr. et Soz.



14 Orsi ibid. 2. 91. Theod. l. 4. c. 24.

1 L. 1. adv. Eunom.



2 Socr. l. 4. c. 17. Orsi l. 16. n. 104.



3 Soz. l. 6. c. 20. Orsi t. 7. l. 17. n. 29.



4 Nat. ubi supra ex lib. 63. C. Theod. de Decur. Oros. l. 7. c. 33.



5 Orsi t. 7. l. 17. n. 35.



6 Ib. n. 36.



7 Sozom. l. 6. c. 20. Orsi l. 17. n. 38. cum Rufin. et Socr. Nat. t. 8. c. 1. ex Theod. l. 4. n. 21.



8 Oros. l. 3. c. 33. s. Hieron. Chron.



9 S. Paulin. ep. 29. al. 10. Orsi l. 17. n. 37.



10 Orsi t. 7. l. 17. n. 68.



11 Socr. l. 4. c. ult.



12 L. 4. c. 34.

1 Sozom. l. 4. c. ult.



2 Orsi n. 70.



3 Orsi l. 17. n. 71.



4 L. 7. c. 33.



5 Orsi t. 7. l. 17. n. 72.



6 In Chron.



7 Fleury t. 4. l. 26. n. 42. Baron. A. 437. n. 1. et 29.



8 Orsi t. 15. l. 34. n. 27.



9 Al loc. cit. n. 28.

1 Baron. A. 456. n. 10. Orsi t. 15. l. 34. n. 28. ad 31.



2 Orsi ivi n. 32.



3 Orsi t. 15. l. 34. n. 33.



4 Orsi ivi n. 34.

1 Orsi t. 15. l. 35. n. 73.



2 Fleury t. 5. l. 30. n. 2.



3 Orsi ivi n. 95. Natal. t. 10. c. 1.



4 Orsi t. 15. l. 35. n. 97.



5 Orsi ivi n. 97.

1 Fleury t. 5. l. 30. n. 2. et seq. Nat. Al. t. 10. c. 1. in fin. Orsi t. 15. l. 35. n. 99.



2 Orsi loc. cit.



3 Fleury et Nat. ibid.



4 Natal loco cit. Fleury l. 30. n. 4. et seq. Orsi loc. cit. n. 99. Graveson hist. eccl. t. 3. colloq. 1.



5 Orsi l. 35. n. 124. Graveson hist. eccl. colloq. 1. p. 87.



6 L. 1. de Bel. Vand.



7 Loc. cit.

1 Orsi l. 39. n. 19.



2 Orsi t. 17. l. 39. n. 24.



3 Al. loc. cit. n. 30.



4 Orsi ibid. p. 296.



5 N. 33. Nat. Al. t. 11. c. 2. a. 3. sect. 6.



6 Sect. 6. c. 1. p. 170.



7 Orsi n. 38.



8 Procul. l. 1. de Bell. Goth.



9 Dialog. l. 4. c. 30. appres. Orsi al loc. cit. n. 33.

1 Fleury t. 5. l. 34. n. 43. ex Isid. hist. Goth. Aera 607.



2 Fleury t. 5. l. 34. n. 54.



3 Dial. l. 4. c. 31.



4 Fleury ivi cit. Greg. Tur. 7. c. ult. et Io. Biel.



5 Greg. Tur. 9. c. 15.



6 Fleury ibid. n. 55.



7 Fleury l. 32. n. 48.



8 Fleury t. 5. l. 31. n. 30.



9 Gen. temp. not. p. 237.






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