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Sant'Alfonso Maria de Liguori
Storia delle Eresie

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ART. IV. ERESIE DI EUTICHE

 

§. 1. Del Sinodo fatto da s. Flaviano e del conciliabolo di Efeso, detto il Latrocinio.

44. Principj di Eutiche; è accusato da Eusebio di Dorileo. 45. S. Flaviano riceve l'accusa. 46. Sinodo di s. Flaviano. 47. Confessione di Eutiche nel sinodo. 48. Sentenza del sinodo contro Eutiche. 49. Lamenti di Eutiche. 50. Eutiche scrive a san Pier Grisologo ed a s. Leone. 51. Qualità di Dioscoro. 52. e 53. Conciliabolo di Efeso. 54. e 55. Ivi è deposto s. Flaviano ed Eusebio di Dorileo (qui si fa menzione degli errori di Teodoro di Mopsuestia). 56. Morte di s. Flaviano. 57. Qualità di Teodoreto. 58. e 59. Scritti di Teodoreto contro s. Cirillo. Difesa di Teodoreto. 60. Dioscuro scomunica s. Leone. 61. Teodosio approva il conciliabolo e muore; ed entrano a regnare s. Pulcheria e Marciano.

 

44. L'eresia di Eutiche nacque1 nell'anno 448, 18 anni dopo il concilio efesino. Eutiche fu monaco e sacerdote ed anche abate di un monastero di 300 monaci presso Costantinopoli. Egli fortemente


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avea combattuto contro Nestorio suo arcivescovo, e l'avea anche accusato al concilio di Efeso, ove andò in persona ad attestare la di lui prevaricazione; onde gli amici di s. Cirillo lo computavano tra i validi difensori della fede1. S. Leone avendo ricevuta una sua lettera, in cui l'avvisava che il nestorianismo di nuovo risorgea, gli rispose2 approvando il suo zelo, e lo incoraggì a difender la chiesa, credendo ch'egli scrivesse contro i veri Nestoriani. Ma in quella lettera Eutiche per Nestoriani intendeva i Cattolici3. Eusebio vescovo di Dorileo nella Frigia era stato pure uno de' zelanti avversarj di Nestorio; poiché essendo egli ancor laico, nell'anno 429 ebbe il coraggio di rimproverarlo in pubblico de' suoi errori4, come si notò nell'articolo antecedente al num. 20. in fine. La conformità poi de' sentimenti avealo renduto amico di Eutiche. Ma conversando seco, finalmente si avvide5 che Eutiche passava innanzi e prorompeva in proposizioni eretiche. Pertanto si affaticò per lungo tempo di ridurlo a ragione; ma ritrovandolo ostinato, rinunziò alla sua amicizia, e si stimò obbligato a divenir suo accusatore. Prima di lui gli orientali6 aveano denunziati gli errori di Eutiche a Teodosio imperatore: ma Eutiche seppe così bene divertire il colpo, che da reo si pose a fare le parti di attore. Gridavano i vescovi dell'oriente che Eutiche era infetto del contagio di Apollinare; ma atteso che la nota di Apollinarista era una vecchia calunnia opposta contro gli avversari di Nestorio, e specialmente contro chi difendea gli anatematismi di s. Cirillo, perciò le denunzie dei vescovi orientali, i quali aveano prima difeso Nestorio, e tuttavia lodavano la dottrina di Teodoro di Mopsuestia, non ebbero alcun credito contro di Eutiche. Onde il perfido non ebbe che temere, finche non dovette pararsi se non da' colpi degli orientali. Ma quando contro di lui uscì in campo il nominato Eusebio di Dorileo, cambiarono per Eutiche aspetto le cose. Eusebio dunque, dopo aver più volte ammonito Eutiche da solo a solo, vedendo che nulla profittava, credettesi tenuto secondo il vangelo a dinunziarlo alla chiesa, e ne fece consapevole s. Flaviano arcivescovo di Costantinopoli7.

45. Ma prevedendo s. Flaviano lo strepito che avrebbe fatto il giuridico processo e la condanna di un uomo così accreditato presso il popolo e la corte, come quegli che consacratosi a Dio sin dall'infanzia, era invecchiato nella vita monastica e nella solitudine (non essendo mai uscito dal suo monastero, se non quando si unì con s. Dalmazio per difendere il concilio di Efeso); s. Flaviano, dico, esortò Eusebio a procedere con molta cautela. Tanto più che Eutiche era protetto dall'eunuco Crisafio (di cui Eutiche era stato patrino nel battesimo), ed era anche unito con Dioscoro vescovo di Alessandria nel far la guerra a' vescovi orientali, che erano stati i primi ad accusarlo di eresia; onde il ritoccar questo punto potea sembrare un'aderenza al partito de' Nestoriani contro quello della corte e di Dioscoro, e così cagionare un grande sconvolgimento nella chiesa. Ma né questo, né altri motivi furono bastanti a ritardare lo zelo di Eusebio; sicché s. Flaviano fu obbligato a ricever l'accusa, e dar luogo alla giustizia.

 

46. In tanto s. Flaviano dovette tenere un sinodo per aggiustare alcune differenze tra Fiorenzo di Sardi metropolitano della Lidia e due vescovi della stessa provincia. Finito il giudizio di quella causa, si alzò il vescovo di Dorileo8, e presentò al concilio un libello, e fece istanza che fosse letto ed inserito negli atti. Si lesse il libello; ed in quello Eusebio accusava Eutiche che proferiva bestemmie contro


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Gesù Cristo, che parlava con disprezzo de' santi padri, e che, quantunque esso Eusebio sempre si fosse studiato di far la guerra agli eretici, Eutiche l'incolpava di eresia. Pertanto faceva istanza che Eutiche fosse citato a comparire dinanzi al sinodo per render ragione de' suoi detti, essendo egli pronto a convincerlo di eresia; poiché così sarebbonsi ravveduti quei che da lui erano stati pervertiti. Compiuta la lezione di quella carta, s. Flaviano pregò Eusebio che di nuovo conferisse in privato con Eutiche, per vedere di ridurlo. Rispose Eusebio che ciò l'avea già fatto più volte, e poteva addurne più testimonj, ma che sempre gli era stato inutile; onde supplicava il concilio di far citare in ogni conto Eutiche, affinché non seguisse a sedurre altri, poiché molti già ne avea sedotti. Con tutto ciò s. Flaviano desiderava che di nuovo Eusebio parlasse con Eutiche. Ma Eusebio replicò che egli non avea più speranza di persuaderlo dopo tanti tentativi. Finalmente il sinodo ricevette il libello di Eusebio, e deputò un prete ed un diacono per notificare ad Eutiche le accuse presentate contro di lui, ed intimargli di venire a giustificarsi nel concilio alla prossima sessione. Si tenne poi la seconda sessione, ed in quella si lessero le due lettere principali di s. Cirillo sull'incarnazione del Verbo, cioè la seconda a Nestorio, approvata dal concilio efesino, e l'altra al concilio di Giovanni d'Antiochia dopo conchiusa la pace. Lette queste lettere, disse s. Flaviano che la sua fede era questa, cioè che Gesù Cristo è perfetto Dio e perfetto uomo, composto di corpo e di anima consostanziale a suo Padre secondo la divinità, e consostanziale a sua madre secondo l'umanità; e che dall'unione di due nature divina ed umana in una sola ipostasi, o sia persona, ne risultò dopo l'incarnazione del Verbo un solo Gesù Cristo. Tutti gli altri vescovi furono dello stesso sentimento, si tennero altre sessioni, e si fecero altre citazioni ad Eutiche, affinché fosse venuto a giustificarsi; ma egli non volle comparire, scusandosi che non era mai uscito dal suo monastero, e che di più allora si trovava infermo1.

47. Alla fine nella settima sessione Eutiche costretto da tante intimazioni venne al concilio; ma come venne? Comparve2 accompagnato da una gran truppa di soldati, di monaci e di officiali del prefetto del pretorio, i quali non vollero lasciarlo entrare nel concilio, se i padri non prometteano di restituirglielo. Entrò già Eutiche nel concilio, e dopo lui entrò il Magno Silenziario (officiale chiamato così allora da' romani per essere il supremo paciero del palagio imperiale), il quale presentò e lesse un ordine dell'imperatore, che intervenisse al concilio Fiorenzo Patrizio per la conservazione della fede. Venne Fiorenzo, e poi si fecero andare in mezzo del concilio Eusebio di Dorileo accusatore ed Eutiche accusato, entrambi in piedi. Indi si lesse la lettera di s. Cirillo agli orientali, ove stava espressa la distinzione delle due nature. Eusebio allora disse: Eutiche in ciò non si accorda, ma insegna l'opposto. Compiuta la lettura degli atti, disse s. Flaviano ad Eutiche: Avete inteso quel che ha detto il vostro accusatore? Dite dunque se confessate l'unione delle due nature in Cristo. Eutiche rispose che la confessava. Eusebio ripigliò: Ma confessate voi due nature dopo l'incarnazione? E se Gesù Cristo è a noi consostanziale secondo la carne o no? Eutiche rivolto a Flaviano rispose: Io non sono venuto per disputare, ma solo per dichiarare ciò ch'io penso; e l'ho scritto in questa carta: fatela leggere. S. Flaviano disse: Leggetela voi stesso. Ma Eutiche rispose che non potea leggerla, e poi disse: Io credo cosi: Adoro il Padre col Figliuolo, ed il Figliuolo col Padre, e lo Spirito santo col Padre e col Figliuolo. Confesso la sua venuta in carne presa dalla carne della santa Vergine; e che


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siasi fatto perfetto uomo per la nostra salute. Flaviano di nuovo l'interrogò: Ma confessate voi al presente che Gesù Cristo abbia due nature? Eutiche rispose: Sinora non l'ho detto; ora lo confesso. Fiorenzo l'interrogò: Dite voi che in Cristo vi sono due nature? E che Gesù Cristo è consostanziale a noi? Eutiche rispose: Io lessi in s. Cirillo ed in s. Atanasio che Cristo fu di due nature, onde confesso essere stato il nostro Signore prima dell'incarnazione di due nature: ma dopo l'unione essi non dicono più due nature, ma una; fate leggere s. Atanasio, e vedete ch'egli non dice due nature. Ma non si avvedea Eutiche che queste due sue proposizioni erano l'una e l'altra due sfacciate eresie, come ben avvertì s. Leone nella sua lettera. La seconda, cioè che Cristo dopo l'unione era di una natura, essendo stata la natura umana, come diceva Eutiche, assorbita dalla divina e confusa con essa, importava che la stessa divinità in Cristo avesse sofferto il patire e la morte, oppure che la passione e la morte di Gesù Cristo fossero una mera favola. La prima proposizione poi che Cristo prima dell'incarnazione era di due nature, non era meno eresia della seconda: perché prima dell'incarnazione non potea sostenersi la proposizione in altro modo, che abbracciando l'eresia d'Origene, il quale diceva che le anime umane erano state create tutte prima del mondo, ed indi da tempo in tempo mandate ad unirsi coi corpi degli uomini.

 

48. Avendo per tanto Eutiche parlato così, Basilio di Seleucia gli disse: Se voi non dite due nature dopo l'unione, voi ammettete una mescolanza e confusione. Fiorenzo replicò: Chi non confessa Cristo di due nature, non crede bene. Allora il concilio esclamò: La fede non deve essere sforzata. Egli non si rende, a che voi l'esortate? E s. Flaviano allora col consenso di tutti gli altri vescovi pronunziò la sentenza in questi termini: «Eutiche sacerdote ed archimandrita è pienamente convinto così per le sue azioni passate, come per le dichiarazioni presenti, di esser egli negli errori di Valentino e di Apollinare; tanto più che non ha avuto riguardo alle nostre ammonizioni. Perciò piangendo e gemendo sulla sua perdita totale, noi dichiariamo per parte di Gesù Cristo da lui bestemmiato, ch'egli resta privo d'ogni grado sacerdotale, della nostra comunione e del governo del suo monastero; facendo sapere che tutti quelli che con lui avranno colloquio o commercio saranno scomunicati1». Ecco le parole del decreto riferito da Natale Alessandro2: Per omnia Eutyches, quondam presbyter et archimandrita, Valentini et Apollinaris perversitatibus compertus est aegrotare, et eorum blasphemias incommutabiliter sequi; qui nec nostram reveritus persuasionem, atque doctrinam, rectis noluit consentire dogmatibus. Unde illacrimati et gementes perfectam eius perditionem decrevimus per D.N. Iesum Christum, quem blasphematus est, extraneum eum esse ab omni officio sacerdotali et a nostra communione et primatu monasterii; scientibus hoc omnibus qui cum eo exinde colloquentur, aut eum convenerint quoniam rei erunt et ipsi poenae excommunicationis. Questa sentenza fu sottoscritta da 32 vescovi e da 23 abati, dei quali 18 erano sacerdoti, uno diacono e quattro laici. Terminato il concilio, Eutiche a voce bassa disse a Fiorenzo Patrizio ch'egli ne appellava al concilio del santissimo vescovo di Roma e de' vescovi di Alessandria, di Gerusalemme e di Tessalonica; e Fiorenzo comunicò tutto ciò a s. Flaviano, mentre saliva al suo appartamento. Questa parola detta così alla sfuggita3 valse ad Eutiche per vantarsi di avere appellato al papa, al quale poi scrisse, come vedremo.

 

49. Questo preteso appello non impedì a s. Flaviano di pubblicar la sentenza contro Eutiche; ma diede all'incontro ad Eutiche ansa di spargere molte falsità contro il sinodo, accusandolo


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di aver conculcate nel suo giudizio tutte le regole del dovere. Fu la sentenza del concilio per ordine di s. Flaviano divulgata ne' monasterj, e sottoscritta da' loro archimandriti. Ma i monaci di Eutiche invece di separarsi dalla di lui comunione, vollero più presto restar privi de' sacramenti: ed alcuni di essi giunsero a morire senza il viatico, prima che lasciare il loro empio maestro. Eutiche molto si dolse dell'avere s. Flaviano fatta sottoscrivere la sua sentenza da' capi degli altri monasterj, come di una novità non mai usata nella chiesa, né pure contro gli eretici; ma era altresì cosa nuova l'essersi fatto un abate capo di una setta eretica, e l'aver seminati ne' monasterj i suoi pestiferi errori. Si dolse ancora Eutiche che s. Flaviano avesse fatte togliere le sue proteste affisse in Costantinopoli contro il concilio, piene d'ingiurie e calunnie, come se avesse avuta egli ragione di muovere il popolo contro il concilio fatto, e di difendere con calunniosi libelli la sua falsa innocenza1.

50. Indi scrisse Eutiche a s. Pier Crisologo vescovo di Ravenna, lamentandosi del giudizio fatto contro di lui da s. Flaviano, affine di cattivarsi il favore di questo santo vescovo, che molto poteva presso l'imperator Valentiniano e la sua madre Placidia, che ordinariamente risedeano a Ravenna. San Pietro gli rispose che non avendo esso ricevuta alcuna lettera di Flaviano, né udite le sue ragioni, non potea dar giudizio in quella controversia; onde l'esortava a leggere ed attenersi a quel che diceva il pontefice s. Leone, colle seguenti parole: In omnibus autem hortamur te, frater honorabilis, ut his quae a bb. papa scripta sunt, obedienter attendas; quoniam b. Petrus, qui in propria sede vivit et praesidet, praestat quaerentibus fidei veritatem. Questa lettera si legge intiera presso Bernino e Pietro Annato2. Scrissero poi così Eutiche, come s. Flaviano a s. Leone: Eutiche per lamentarsi degli aggravj che diceva essergli stati fatti dal sinodo di Costantinopoli; e s. Flaviano per renderlo informato de' giusti motivi che l'aveano indotto a scomunicare e deporre Eutiche. S. Leone avendo ricevuta la lettera di Eutiche prima di quella di Flaviano, scrisse a Flaviano3 meravigliandosi di non avergli scritto sino ad allora quel che passava, non potendo comprendere dalla lettera di Eutiche la ragione per cui esso Eutiche fosse stato diviso dalla comunione della chiesa; onde gl'impose che presto l'avesse informato di tutto e specialmente dell'errore insorto contro la fede, affine di sedar la discordia, secondo l'intenzione dell'imperatore; giacché Eutiche si dimostrava pronto a correggersi, se mai si ritrovasse di avere errato. S. Flaviano rispose al papa, dandogli conto di tutto, e fra le altre cose gli scrisse che Eutiche in luogo di ravvedersi si affaticava a turbare la chiesa di Costantinopoli con libelli ingiuriosi e suppliche all'imperatore per la revisione degli atti del sinodo, ov'egli era stato condannato; aggiungendo che gli atti erano stati falsificati. Ed infatti agli 8 di aprile dell'anno 449. si tenne per ordine dell'imperatore un'altra assemblea in Costantinopoli, ove fu obbligato s. Flaviano a presentare la sua confessione di fede4, nella quale il santo dichiarò di riconoscere in Gesù Cristo due nature dopo l'incarnazione, in una persona; e che non ricusava ben anche di dire una natura del Verbo divino, purché vi si aggiungesse incarnato ed umanato; e scomunicava Nestorio ed ognuno che divideva Gesù Cristo in due persone5. Del resto in quella assemblea niente si concluse di momento.

 

51. Frattanto Dioscoro patriarca di Alessandria, pregato da Eutiche, ed animato da Crisafio suo protettore, scrisse all'imperatore, ch'era necessario di


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convocare un concilio generale; e già l'ottenne col favore di Crisafio. Ma prima di passare avanti, giova qui dare un'idea de' perversi costumi del nominato Dioscoro, di cui dovremo appresso narrar molte iniquità. Occultava egli1 la sua malvagità sotto l'apparenza di certe virtù esterne; a fine di giungere al vescovado di Alessandria, come già vi giunse per sua maggior rovina. Era avaro, impudico e violento sino al furore. Quando si vide sul trono di Alessandria, ruppe ogni freno, trattò crudelmente gli ecclesiastici che eran stati onorati da s. Cirillo; giunse a spogliare altri de' loro beni, col dar fuoco alle loro case, e farli tormentare in carcere: altri mandò in esilio. Manteneva nel suo palazzo donne disoneste, che pubblicamente bagnavansi con esso lui, con uno scandalo insoffribile del popolo. Perseguitò i nipoti di s. Cirillo talmente, che gli spogliò di tutte le robe con ridurli ad andar raminghi pel mondo, facendo egli intanto pompa de' beni usurpati, col darne parte ai fornari ed agli osti della città, affinché vendessero pane e vino più squisito2. Fu accusato di molti omicidj, e di aver cagionata la fame in Egitto colla sua insaziabile avarizia. Si narra di più che avendo una dama lasciata la sua eredità agli spedali e ad alcuni monasterj, egli fece distribuire la roba a comici ed a meretrici di Alessandria. Aggiunge di più Hermant3, che egli seguiva gli errori degli Origenisti e degli Ariani. Ecco chi era il protettore di Eutiche. Torniamo al punto.

 

52. Convocò Teodosio in Efeso per il 1 di agosto nell'anno 449. il concilio (che si adunò poi agli 8 dello stesso mese), e mandò un diploma per Dioscoro, in cui lo stabilì presidente del concilio, coll'autorità di condurvi quei vescovi che gli piacessero per giudicare la causa di Eutiche. Forse non si son vedute mai al mondo ingiustizie simili a quelle che commise Dioscoro in quel sinodo giustamente chiamato dagli scrittori, il Latrocinio o sia l'Assassinio di Efeso. Poiché l'empio Dioscoro, abbandonandosi al suo feroce naturale, usò orrende violenze contro i vescovi cattolici, ed ancora contro i due legati mandati nel concilio da s. Leone, cioè Ilario diacono della chiesa romana, e Giulio vescovo di Pozzuolo, i quali4, vedendo la s. sede esclusa dal presedere nelle loro persone al concilio, avendosi già Dioscoro usurpato il primo luogo, amarono meglio di prender l'ultimo luogo senza rappresentarvi le persone di legati, che veder posposta l'autorità del papa. E ciò poi rinfacciò a Dioscoro Lucrezio legato del pontefice nel concilio di Calcedonia, citandolo a dar conto di aver avuta l'audacia di celebrare il sinodo in Efeso senza l'autorità della sede apostolica: il che soggiunse non essere stato mai lecito, né mai fatto; ciò che non avrebbe potuto dire, se Ilario e Giulio fossero stati ricevuti nel concilio come legati del papa5. Nulladimanco essi non lasciarono di fare istanza più volte che si fosse letta la lettera di s. Leone6. Ma Dioscoro non volle mai farla leggere, ordinando sempre che si leggessero altri fogli che a lui piaceano; né volle mai far esaminare ciò che apparteneva alla fede, fulminando solo anatemi contro chi volesse esaminare o disputare sovra quel che stava già stabilito, come dicea, da' due concilj di Nicea e di Efeso; replicando che oltre le determinazioni da essi concilj fatte non dovea introdursi altra novità nella fede7.

53. Volle bensì Dioscoro che Eutiche leggesse la sua professione di fede. Ivi l'empio eretico anatematizzava Apollinare e Nestorio, ed ognuno che diceva essere la carne di Gesù Cristo scesa dal cielo. A tali parole Basilio di Seleucia interruppe la lezione, e chiese ad Eutiche che volesse spiegare in qual modo egli credea che il Verbo avesse presa umana carne? Ma Eutiche non rispose: né i capi del sinodo l'obbligarono,


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come doveano, a rispondere, mentre questo era il punto principale della questione; poiché se la natura divina nell'incarnazione avesse distrutto l'umana, o si fosse confusa con quella, secondo diceano gli Eutichiani, come potea dirsi avere il Verbo di Dio presa l'umana carne? Tuttavia senz'aspettarsi la risposta al quesito fu ordinato al notaio di proseguire a leggere la carta di Eutiche, nella quale egli seguiva a lamentarsi della sentenza contro lui fatta, domandando in fine che i suoi persecutori fossero puniti1. Letto il libello di Eutiche, disse s. Flaviano convenire che fosse udito anche l'accusatore Eusebio di Dorileo. Ma non gli fu data udienza, anzi fu risposto a s. Flaviano che a lui non era lecito di parlare, avendo proibito l'imperatore di aprir la bocca senza licenza del sinodo a coloro ch'erano stati giudici contro Eutiche2.

 

54. Indi leggendosi gli atti del sinodo celebrato da s. Flaviano, si lessero ancora le due lettere di s. Cirillo, una a Nestorio e l'altra a Giovanni di Antiochia, ove s. Cirillo aveva approvata l'espressione di due nature. Allora Eustazio di Berito partigiano di Eutiche avvertì al concilio che s. Cirillo in altre lettere scritte ad Acacio di Melitena ed a Valeriano d'Iconio non diceva due nature, ma una natura del Verbo divino incarnato; e con ciò il vescovo Eutichiano volea far comparire s. Cirillo aver la stessa fede di Eutiche. Ma ciò era una mera calunnia contro s. Cirillo; mentre il santo in mille luoghi avea espresse le due nature del Verbo umanato. Oltreché il dire una natura del Verbo incarnato questo appunto importava, cioè l'unione in Cristo di due nature distinte divina ed umana. E ciò ben anche fu dichiarato appresso nel concilio di Calcedonia, ove si disse che in questo senso furono intese quelle parole, prima da s. Cirillo e poi da s. Flaviano; e perciò allora si fulminò l'anatema contro chi dicesse una natura, con animo di negare la carne di Cristo consostanziale con noi. Di poi furono letti i voti dati nel concilio d s. Flaviano; e leggendosi il voto di Basilio di Seleucia, che in Cristo doveansi riconoscere due nature, tutti gli egizi ed i monaci seguaci di Barsuma gridarono: Fate in due pezzi chi parla di due nature; questi è eretico Nestoriano. Appresso, leggendosi che Eusebio di Dorileo avea pressato Eutiche a confessare in Cristo due nature, si gridò ad alta voce: Eusebio al fuoco; sia bruciato vivo: siccome ha diviso in due pezzi Gesù Cristo, così egli sia diviso in due pezzi. E poi da tutti, almeno da tutti i vescovi dell'Egitto, fu detto anatema a chi parlava di due nature3. Pertanto Dioscoro stando sicuro de' suffragj de' vescovi che gli aderivano parte per genio e parte per timore, volle che ciascuno proferisse la sua sentenza; e così fu approvata la fede di Eutiche, fu ristabilito il medesimo nella sua dignità, e furon di nuovo ricevuti nella comunione i monaci suoi seguaci, ch'erano stati scomunicati da s. Flaviano4.

55. Ma la mira principale di Dioscoro era di far deporre s. Flaviano ed Eusebio di Dorileo. Onde fece leggere il decreto del sinodo antecedente di Efeso, ove si proibì sotto pena di anatema e deposizione l'usare altro simbolo fuori di quello di Nicea. L'intento del concilio in ciò fu per riprovare il simbolo malvagio di Teodosio di Mopsuestia, nel quale, siccome riferì Rabbula vescovo di Edessa5, si dicea, secondo bestemmiava Nestorio, 1. che la s. Vergine non era vera madre di Dio: 2. che l'uomo non è stato unito al Verbo secondo la sostanza, ma per la buona volontà: 3. che bisogna adorar Gesù Cristo, ma solo come immagine di Dio: 4. che la carne di Gesù Cristo non giova a niente. Di più Teodoro negò il peccato originale; e perciò quando Giuliano ed i suoi compagni Pelagiani furon cacciati dall'Italia da s. Celestino papa, andarono a trovar Teodoro, come scrive Mario Mercatore, e Teodoro amichevolmente gli accolse. Scrive ancora


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Cassiano1 che i Pelagiani insegnavano la stessa eresia di Nestorio e di Teodoro, cioè che Cristo era puro uomo, e con ciò voleano provare che ha potuto esservi un uomo esente dal peccato originale; e così ne inferivano poi che gli altri uomini, si velint, sine peccato esse possint. Torniamo al punto: l'intenzione dunque del concilio fu di riprovare il simbolo dell'empio Teodoro; come già fu dichiarato poi nel concilio ecumenico V, ove furono condannati i tre capitoli, come vedremo nel capo VI, ed ivi insieme co' suoi scritti fu condannata anche la persona di Teodoro; ma non già proibì il concilio di Efeso l'usare altre parole fuori del simbolo di Nicea, quando quelle parole servono per esprimere più chiaramente il senso di qualche cattolico dogma contro le male interpretazioni di qualche nuova eresia non considerata dal concilio di Nicea. Dioscoro per tanto, affin di macchinare la condanna di s. Flaviano e di s. Eusebio, fece leggere il mentovato decreto del concilio Efesino; e poi subito fece venire i notari, e, senza altra forma di processo, e dar luogo a s. Flaviano di addurre le sue difese, fece leggere da un notaro la sentenza di deposizione contro i nominati due vescovi, sul fondamento falso di aver essi in materia di fede introdotte novità oltre i termini del simbolo di Nicea2. Allora s. Flaviano diede ai legati del papa un atto di appello di quella sentenza3. Molti vescovi, avendo orrore di tal ingiusto giudizio, cercarono di mitigar Dioscoro, anzi altri andarono a gettarsi a' suoi piedi, ed abbracciate le sue ginocchia, lo pregarono a desistere da quella condanna; ma Dioscoro niente con ciò si placò, e disse che piuttosto si avrebbe fatta tagliar la lingua, che rivocar la sentenza; e perché tuttavia quelli proseguivano a scongiurarlo, egli levatosi in piedi sullo sgabello, dal trono gridò: E che? pretendete voi dunque di far sedizione? Dove sono i conti? Entrarono perciò i conti nella chiesa con molti soldati, a cui si unirono i partigiani di Diodoro ed i monaci di Barsuma; onde tutta la chiesa era piena di confusione e tumulto. Chi de' vescovi si disperse per una parte e chi per un'altra, mentre le porte della chiesa erano chiuse e guardate. Dioscoro affin di consumare l'iniquità, fece portare a' vescovi carta bianca, acciocché sottoscrivessero la sentenza. Quei che in ciò dimostravano ripugnanza, eran minacciati della deposizione e dell'esilio ed anche della morte, come fautori dell'eresia di Nestorio. Da per tutto risonavano queste voci: Fate in pezzi quei che dicono due nature. I soldati forzavano a sottoscrivere coi bastoni e colla spada alla mano; e dalle minacce si passò ancora alle percosse ed alle ferite con ispargimento di sangue. Così finalmente i vescovi condiscesero alla condanna, dicendo dopo che si sciolse l'iniquo sinodo che non già essi, ma i soldati avevano deposto s. Flaviano; ma questa scusa non valeva a giustificarli, non dovendo mai un cristiano, e specialmente un vescovo condannare per timore gl'innocenti e tradire la verità4.

56. L'appello poi di s. Flaviano talmente irritò Dioscoro, che il perfido, non contento di averlo deposto ed esiliato, giunse anche a stender le mani sulla persona del santo vescovo, divenendo suo carnefice, o almeno autore della di lui morte. Poiché accecato dalla rabbia si avanzò a dargli pugni nella faccia e calci nello stomaco, e gettatolo a terra gli pose i piedi sul ventre. Cooperarono ben anche alla morte di s. Flaviano Timoteo Eluro e Pietro Mongo, i quali poi indegnamente occuparono la cattedra di Alessandria, e l'empio Barsuma, che gridava nel sinodo contro s. Flaviano: Uccidetelo, uccidetelo. E perciò nel concilio di Calcedonia, ove comparve ancora Barsuma, si gridò: Cacciate fuori l'omicida Barsuma: l'omicida alle bestie. Non morì per altro s. Flaviano nel luogo del conciliabolo,


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ma essendo stato poi così maltrattato, condotto in prigione ed indi consegnato alle guardie nel giorno seguente a condurlo in esilio, dopo tre giorni di aspro cammino, giunto ad Epipa, città della Lidia, rendette il santo l'anima a Dio. Il cardinal Orsi così riferisce; ed a lui si uniformano Fleury ed Hermant1: e per ciò nel concilio di Calcedonia non ebbero ripugnanza quei padri di dargli il titolo di martire2. Ad Eusebio di Dorileo giovò il non essere stato ammesso in quell'empio sinodo. Del resto anch'egli fu deposto, e condannato all'esilio; ma ebbe modo di ricoverarsi in Roma, ove s. Leone lo ricevette nella sua comunione, e lo ritenne seco, finché dovette andare al concilio di Calcedonia. Intanto Dioscoro seguì a fulminare anatemi e condanne contro i vescovi, che in qualunque modo sospettava essere contrarj alla dottrina di Eutiche; e tra questi principalmente fu Teodoreto vescovo di Ciro, il quale benché assente, fu condannato come eretico da Dioscoro, colla proscrizione delle sue opere per cagione de' suoi scritti contro gli anatematismi di s. Cirillo3. Ma a far vedere quanto fosse ingiusta ancora questa sentenza e nota di eretico data a Teodoreto, giova qui dar contezza di un così dotto e rinomato soggetto.

 

57. Giustamente dice il cardinal Orsi4 che se Teodoreto non avesse avuta la mala sorte di opporsi per qualche tempo a s. Cirillo, che fu il gran difensor della fede contro Nestorio, oggidì il suo nome non sarebbe men venerabile, che quello de' Basilj, de' Grisostomi e de' Gregorj, a' quali non è stato forse inferiore per la dottrina e per la virtù. Nacque Teodoreto5 nella città di Antiochia verso la fine del quarto secolo da genitori nobili e ricchi; passati i quali all'altra vita, egli vendette tutti i suoi beni, e il prezzo lo distribuì ai poveri, senza riserbarne alcuna parte per sé. Abbracciò la vita solitaria in un monastero, ove dando la massima parte del giorno all'orazione, impiegava il resto allo studio delle scienze ecclesiastiche ed anche delle lettere umane. Ebbe la disgrazia di aver per maestro Teodoro di Mopsuestia, della cui mala dottrina già femmo di sovra menzione al num. 48; ma, come qui vedremo, Teodoreto fu lontano dal seguire il veleno delle sue empie massime. Fu Teodoreto tratto dalla solitudine, e fatto vescovo della città di Ciro, la quale, benché piccola di territorio, era non però numerosa di genti, che componevano 800 chiese o siano parrocchie. Esso a principio ricusò il vescovado per non lasciare la sua cara solitudine; ma poi l'accettò per lo zelo di aiutare molte povere anime di quella diocesi, ch'erano infette di eresia. Si applicò per tanto a far l'officio di un ottimo pastore in promuover la pietà, e purgare la diocesi dalle eresie, e gli riuscì di liberare otto borghi dall'eresia di Marcione.

 

58. Avendo Teodoreto letti gli anatematismi di s. Cirillo6, scrisse con sentimenti poco misurati, e quasi favorevoli più presto a Nestorio, che a s. Cirillo, il quale si affaticò a convincerlo. Teodoreto, benché sembrasse di riconoscere un solo Cristo, e chiamasse la s. Vergine madre di Dio, nulladimanco secondo la maniera di ragionare si rendea sospetto di dividerlo in due persone, e di dare a Maria ss. il titolo di madre di Dio nel senso di Nestorio, cioè come madre di colui ch'era tempio di Dio. Ciò non ostante s. Cirillo non ripugnò di far giustizia a Teodoreto, dicendo che quantunque le di lui espressioni fossero dure, era egli non però d'accordo con esso nella credenza; onde scrisse7 che non voleva esser molesto a Teodoreto, mentre Teodoreto confessava che Dio non era separato dalla natura umana, e che l'uomo non era privo della divinità, chiamando Cristo Dio ed uomo. All'incontro Teodoreto8,


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ritrovandosi in Antiochia quando vi giunsero le lettere di s. Celestino papa e di s. Cirillo, si unì con Giovanni patriarca di Antiochia nel rescrivere a Nestorio che non turbasse la chiesa col negare a Maria il titolo di madre di Dio, perché, dicea, non potea ciò negarsi senza corrompere la verità dell'incarnazione del Verbo. Non v'ha dubbio che Teodoreto eccedette nei libri che scrisse contro gli anatematismi e contro il conciliabolo di Efeso, in difesa di Teodoro e Nestorio, che perciò furon condannati nel concilio II. di Costantinopoli: ma bisogna intendere che Teodoreto non tanto errò nel tenere la dottrina di Nestorio, quanto nel credere che s. Cirillo seguisse gli errori di Apollinare; in modo che quando Teodoreto1 lesse la lettera di s. Cirillo scritta ad Acacio di Berea, ove il santo si scaricava della calunnia impostagli di esser egli fautore della dottrina di Apollinare, dichiarando che esso facea professione di credere che il corpo di Cristo era animato da un'anima ragionevole; e detestava la confusione delle due nature, e tenea per impassibile la natura del Verbo, il quale patì, ma patì, come dicea, secondo la carne; allora Teodoreto, pensando2 che s. Cirillo avesse lasciato di aderire ad Apollinare, nel tenere la confusione di due nature in Cristo, se ne rallegrò, e disse che s. Cirillo seguiva la buona dottrina de' padri; e gli scrisse una lettera amorevole, perché riconoscea nell'incarnazione del Verbo un solo Figliuolo ed un solo Cristo colla distinzione in esso delle due nature; e s. Cirillo cortesemente gli rispose, ed appresso seguì tra loro un pacifico commercio di lettere3.

59. Scrisse poi Teodoreto la sua opera dell'Eraniste contro gli Eutichiani4; e quindi per le calunnie di Eutiche prima fu dall'imperatore confinato nella sua stessa diocesi di Ciro, e poi nel conciliabolo di Efeso fu deposto da Dioscoro. Ma egli di tal sentenza ne appellò a s. Leone, e poi si ritirò nel suo antico monastero presso Apamea5. Di poi nondimeno da Marciano fu richiamato dall'esilio6, e da s. Leone fu dichiarato innocente, e riposto nella sede di Ciro7. Indi nel concilio finalmente di Calcedonia, avendo pubblicamente detto anatema a Nestorio ed a chiunque non appellava la Vergine Maria madre di Dio, e dividea Gesù Cristo in due figliuoli, fu ricevuto da tutti i padri, e dichiarato degno di ritornare alla sua sede8. Si crede che Teodoreto vivesse sino all'anno 458, e che negli ultimi anni di sua vita avesse composto il trattato delle favole eretiche9.

60. Ritorniamo all'iniquo sinodo di Efeso. Avendo già la massima parte de' vescovi sottoscritta la condanna di s. Flaviano, quei pochi che rimasero e ricusarono di sottoscriverla, furono mandati in esilio da Dioscoro. Essi soli pertanto ed Ilario legato del papa ebbero l'animo di protestarsi che quel conciliabolo in niun modo avrebbe potuto essere approvato dal sommo pontefice, e pregiudicare al simbolo degli apostoli, e ch'essi per niun timore si sarebbero mai separati da quella fede che sempre aveano professata10. Dioscoro intanto dopo il suo conciliabolo se ne andò tutto festoso e trionfante in Alessandria; e divenne ivi così insolente, che giunse a scomunicar solennemente il pontefice s. Leone, e parte con inganni, parte con violenze fece ancora sottoscrivere questa scomunica da dieci vescovi in circa, ch'eran venuti con esso da Egitto; bench'essi lo fecero piangendo e gemendo per l'orrore di tal'empietà11. Ma Orsi12 dice che, secondo la relazione fattane al sinodo di Calcedonia da Teodoro diacono Alessandrino, Dioscoro diede in quell'eccesso nella città di Nicea fuori dell'Egitto13.

61. Essendo giunte queste infauste novelle all'orecchie di s. Leone, egli


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scrisse a Teodosio per fargli intendere lo stato infelice al quale Dioscoro avea ridotta la religione. Ma niente profittò; perché l'imperatore ingannato da' suoi cortigiani in favore di Eutiche, non facendo conto né delle preghiere del papa, né de' consigli della saggia principessa Pulcheria, in vece di condannare gli attentati degli Eutichiani, ristabilì Eutiche ne' suoi onori, condannò la memoria di san Flaviano, ed approvò tutto quello ch'era stato fatto in Efeso1. Scrisse poi a san Leone che nel concilio di Efeso, essendosi il tutto esaminato secondo le regole della giustizia e della fede, siccome erano stati rimossi dal sacerdozio gl'indegni, così erano stati ristabiliti i degni ne' loro gradi2. Questa fu la risposta di Teodosio. Ma Dio che sempre veglia alla custodia della sua greggia, ancorché sembri per qualche tempo addormentato, non molto appresso tolse dal mondo questo principe nell'anno 450 e nell'età sua di anni 59. È vero però che Teodosio, come scrive il cardinal Orsi3, prima di morire mosso dalle insinuazioni della sua santa sorella diede diverse prove del suo pentimento di aver favorito il partito di Eutiche. Teodosio non avendo figliuoli, lasciò erede dell'imperio la sua sorella s. Pulcheria, la quale colla sua saviezza e pietà presto risarcì i disordini cagionati dalla troppa facilità di suo fratello nel credere a' suoi cortigiani. E quantunque ella fosse stimata degnissima di regnar sola, vollero nondimeno i sudditi che ella prendesse marito, e desse loro un nuovo imperatore; e per tanto deliberò s. Pulcheria di compiacerli. Ma ritrovandosi la pia principessa in età avanzata, ed avendo già prima da molto tempo consacrata a Dio la sua verginità, che volea conservare sino alla morte, elesse fra tutti a quest'effetto Marciano Senatore, della cui probità e stima che avea per essa, era ben sicura, ed all'incontro lo giudicava il più atto a ben governare l'imperio, come già la sperienza lo dimostrò. Era Marciano prima non altro che un semplice soldato; ma per la saviezza e prudenza dimostrata fu sollevato alla dignità senatoria4.

§. 2. Del concilio di Calcedonia.

62. Si raduna il concilio in Calcedonia sotto Marciano imperatore e s. Leone papa. 63. Nella prima sessione si esamina la causa di Dioscoro. 64. Condanna del medesimo. 65. Definizioni della fede contro l'eresia di Eutiche, secondo la lettera di s. Leone. 66. Privilegio concesso dal concilio al patriarca di Costantinopoli. 67. È negato da s. Leone. 68. Morte ostinata di Eutiche e di Dioscoro. 69. Di Teodosio capo degli Eutichiani in Gerusalemme. 70. Sue crudeltà. 71. Morte di s. Pulcheria e di Marciano. 72. Di Timoteo Eluro intruso vescovo di Alessandria. 73. Martirio di s. Proterio vero vescovo. 74. Leone succede nell'imperio a Marciano. 75. Eluro è scacciato dalla sede di Alessandria, ed è eletto Timoteo Salofacialo. 76. È fatto imperatore Zenone, che fa morire Basilisco. Eluro si uccide da se stesso. 77. Di s. Simeone Stilita. 78. Sua beata morte. 79. Di Pietro Mongo intruso nella sede di Alessandria.

 

62. Marciano fu acclamato imperatore ai 24 di agosto dell'anno 450; ed appena che fu promosso all'imperio, riconoscendo egli di averlo ricevuto unicamente da Dio, si occupò tutto in procurar la divina gloria, ed indi cercar tutti i mezzi per bandire l'eresia da' suoi stati. Scrisse per tanto due lettere al papa s. Leone, in cui lo pregò di convocare un concilio, e di andarvi a presedere in persona, o almeno di mandarvi i suoi legati, affin di quietare tutte le turbolenze della chiesa. Scrisse ancora a s. Leone l'imperatrice Pulcheria, e gli fece sapere la traslazione del corpo di s. Flaviano a Costantinopoli, ed insieme che Anatolio patriarca di quella città avea già sottoscritta la lettera mandata da esso papa a s. Flaviano contro l'eresia di Eutiche, e che gli esiliati erano stati già richiamati; pregandolo in fine di contribuire per sua parte alla celebrazione di un concilio5. Il papa molto si rallegrò di questa cosa da lui procurata con tanto impegno a tempo di Teodosio; ma li pregò che volessero differire il concilio per qualche tempo, a cagione che gli Unni con Attila loro re nelle Gallie eransi impadroniti della


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campagna, in modo che non vi era sicurezza per li vescovi che doveano far questo viaggio. Ma poi subito che i francesi disfecero l'esercito nemico, s. Leone si applicò ad ultimare il concilio; onde presto spedì a questo effetto i suoi legati in Costantinopoli, i quali furono Pascasino vescovo di Lilibeo in Sicilia, Giuliano di Cos, Lucenzio di Ascoli, e Basilio e Bonifazio preti della chiesa romana1. L'imperatore da principio avea desiderato che il concilio si fosse fatto in Nicea; ma poi si contentò per giusti fini che fosse trasferito a Calcedonia. Questo concilio si celebrò nell'anno 451, e si fece nella gran basilica della santa vergine e martire Eufemia. V'intervennero quasi da 600 vescovi, come attesta s. Leone2; Liberato e Marcellino3 scrivono essere stati 630, e Niceforo vuole essere stati 6364.

63. La prima cosa che si trattò nel concilio, nella prima sessione tenuta agli 8 di ottobre dell'anno 451, fu l'esame della condotta dell'empio Dioscoro. Andò egli al sinodo colla speranza che il suo partito sussistesse nel suo primiero vigore, per ragione dei vescovi che avean sottoscritti gli atti del conciliabolo di Efeso; ma Pascasino alzatosi in piedi disse che il papa aveva ordinato che Dioscoro non avesse seduto nel concilio, ma solamente vi fosse intromesso come reo per esser giudicato; onde vedendolo seduto fra i vescovi, parlò a' giudici ed al senato che l'avessero fatto uscir fuori, altrimenti se ne sarebbe uscito esso co' suoi colleghi. I ministri imperiali voleano sapere il perché. Rispose Lucenzio, altro legato del papa, che Dioscoro doveva render ragione della prosunzione avuta di fare un sinodo senza l'autorità della sede apostolica: Quia synodum ausus est facere sine auctoritate sedis apostolicae; quod nunquam licuit, nunquam factum est5. Onde Dioscoro passò a sedere nel mezzo, dove venne a sedere anche Eusebio di Dorileo, come accusatore di Dioscoro per la sentenza proferita contro di esso Eusebio e contro s. Flaviano; e fece istanza che fossero letti gli atti del concilio di Efeso. Pertanto si diede principio con leggersi la lettera di Teodosio per la convocazione di quel concilio; e perché Teodoreto per cagion de' suoi scritti contro s. Cirillo era stato prima escluso d'intervenirvi, ma all'incontro san Leone e Marciano l'aveano ristabilito nel suo vescovado, fu il medesimo introdotto nel sinodo per esserne a parte. Avendo nondimeno allora i suoi nemici tumultuato contro di lui, per sedare il rumore gli officiali dell'imperatore fecero sedere anche lui in mezzo come accusatore, senza pregiudizio delle sue ragioni, e fu poi dallo stesso concilio ristabilito nella sua sede, dopo aver detto anatema a Nestorio, ed aver sottoscritto alla definizione della fede ed alla lettera del papa s. Leone6. Indi leggendosi gli atti del latrocinio di Efeso, e letta la professione di fede fatta da s. Flaviano, i giudici imperiali interrogarono il concilio se quella era cattolica. Risposero i legati che sì, mentre si uniformava colla lettera di s. Leone. Allora molti vescovi che sedevano dalla parte di Dioscoro, passarono alla parte opposta. Ma Dioscoro, benché si vedesse rimasto solo con pochi vescovi egizj, tuttavia seguiva a sostenere l'errore di Eutiche, dicendo che dopo l'unione non debbon dirsi due nature, ma una natura del Verbo incarnato. Essendosi poi compita la lezione di quegli atti, dissero gl'imperatori che restava ben chiarita l'innocenza di s. Flaviano e di s. Eusebio di Dorileo; onde bisognava sottoporre coloro che gli avean deposti alla stessa sentenza di deposizione. E così terminò la prima sessione7.

64. Nella seconda poi, tenuta ai 10 di ottobre circa la fede che dovea stabilirsi, si lessero i due simboli di Nicea e di Costantinopoli, la lettera di s. Leone


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e le due lettere di s. Cirillo; ed indi i vescovi dissero: Così crediamo tutti. Pietro ha parlato per la bocca di Leone. Anatema a chi non crede così. Essendosi di poi letta la supplica presentata da Eusebio contro le ingiustizie usate da Dioscoro, non si trovò Dioscoro nella chiesa; onde si mandò a citarlo da tre vescovi, acciocché comparisse al concilio. Ma egli né alla prima, né alla seconda, né alla terza citazione volle venire sotto varj falsi pretesti. Allora i legati in nome del sommo Pontefice lo dichiararono scomunicato e deposto dal vescovado; e tutti i vescovi colla voce e colle sottoscrizioni confermarono tal sentenza, la quale fu approvata ancora da Marciano e s. Pulcheria1. Fra questo tempo si presentarono al concilio alcuni monaci del partito di Eutiche, tra i quali i principali erano Caroso, Doroteo e Massimo. Entrati ch'essi furono nella chiesa colla loro comitiva, nella quale vi era ancora il monaco Barsuma (che appena comparso ivi, gridarono i vescovi: Cacciate fuori l'omicida di s. Flaviano), chiesero audacemente che Dioscoro cogli altri vescovi venuti con lui dall'Egitto intervenisse al concilio, e dissero che in caso di negativa si sarebbero divisi dalla comunione del sinodo. Fu risposto loro che in tal caso sarebbero stati deposti, e, perseverando a turbare la chiesa, sarebbero puniti come sediziosi dalla podestà secolare. Ma seguitando essi a star pertinaci, il concilio si contentò di conceder loro trenta giorni a ravvedersi, altrimenti spirato il termine, sarebbero stati puniti come meritavano2.

65. Dopo ciò sottoscrissero i vescovi la lettera dogmatica di s. Leone; ed indi venendosi a concludere la definizione della fede contro l'eresia di Eutiche, si lesse nel concilio una formola composta da Anatolio patriarca di Costantinopoli e da altri vescovi. Ma ella non fu ammessa dai legati del papa3; mentre in quella diceasi Cristo essere di due nature, ma non si esprimeva essere in due nature. Onde i giudici convinsero i vescovi pertinaci, che pretendeano nulla doversi aggiungere agli antichi simboli, con questo discorso: Dioscoro ammetteva che Cristo si dicesse di due nature; ma non ammettea che si dicesse in due nature; all'incontro s. Leone dice essere in Cristo unite inconfusamente ed indivisibilmente due nature. Chi dunque volete seguire? Leone o Dioscoro? Allora gridarono tutti: Come Leone, così crediamo noi: Leone ha rettamente esposta la fede: chi contraddice è Eutichiano. Pertanto soggiunsero i giudici: Dunque aggiungete alla definizione, secondo il giudizio del nostro santissimo padre, esser in Cristo inconfusamente ed indivisibilmente due nature unite. E così finalmente, cessati i clamori, fu stesa la formola, ove si disse4 aver prese i padri per regole della loro definizione i simboli de' due concilj di Nicea e di Costantinopoli, che servirono anche di norma a quello di Efeso, in cui avean preseduto Celestino papa e Cirillo. Indi seguì a dirsi che, quantunque sarebbero bastati i mentovati simboli per la piena cognizione della fede, nulladimanco perché gl'inventori delle nuove eresie aveano adottate nuove espressioni, e, corrompendo il mistero dell'Incarnazione, gli uni han negato alla Vergine il titolo di madre di Dio, e gli altri si sono ideati una esser la natura della divinità e della carne, ed essere stata in Cristo passibile la sua santa divina nature; perciò il santo concilio confermava così la fede de' 318 padri di Nicea, come quella de' 150 di Costantinopoli. E siccome il concilio di Costantinopoli aveva aggiunte alcune espressioni al simbolo di Nicea, non già perché fosse stato quello mancante in alcuna cosa, ma per meglio dichiarar la sua mente circa lo Spirito santo contro coloro che ricusavano di riconoscere la sua divinità: così con una simile intenzione il concilio di Calcedonia,


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contro coloro che voglion corrompere il mistero dell'incarnazione, e dicono esser nato da Maria Vergine un puro uomo, oppure negano esser Cristo in due nature, il concilio di Calcedonia, oltre i due mentovati simboli, ammettea le lettere sinodiche del b. Cirillo, e per ultimo la lettera di s. Flaviano contro l'errore di Eutiche, essendo quella uniforme alla lettera di s. Leone, nella quale sono condannati, e quei che dividono l'Unigenito in due figliuoli; e quei che alla sua divina natura attribuiscono la passione; e quei che della divinità e della carne fanno una sola natura; e quei che dicono esser la carne di Cristo di celeste o di altra sostanza; e quei che bestemmiano essere state in Cristo due nature prima dell'unione ed una sola dopo l'unione. Per tanto s'insegnava dal concilio doversi confessare l'unico Signor nostro Gesù Cristo in due nature senza divisione, senza cangiamento e senza confusione; non mai tolta la differenza per cagione dell'unione, anzi salva la proprietà di ambedue, concorrendo l'una e l'altra in una sola persona e sussistenza; sicché Gesù Cristo non viene ad essere diviso in due persone, ma è sempre lo stesso unico Figliuolo ed unigenito Dio Verbo. In fine proibì il concilio d'insegnare e tenere altra fede, o di comporre altro simbolo per uso dei catecumeni; rinnovando in questo modo l'ordine del concilio efesino, non ostante l'abuso che Dioscoro ne avea fatto. Compiuta la lezione di tal definizione, fu ella accettata uniformemente da tutti i padri; e prima da' legati, e poi da tutti i metropolitani fu sottoscritta1.

66. Dopo la riferita definizione furono stabilite dal concilio altre cose. E specialmente nella sessione 16, che fu l'ultima, fu confermato nel canone 28 ad Anatolio, come patriarca di Costantinopoli, il privilegio di ordinare i metropolitani di Ponto, dell'Asia e della Tracia, i quali eran prima sottoposti al patriarca di Antiochia. Questo privilegio era già stato conferito antecedentemente al vescovo di Costantinopoli dal concilio di 150 vescovi nella stessa città celebrato a tempo del gran Teodosio, sul riflesso che, essendo stata fatta Costantinopoli sede degli imperatori e divenuta la seconda Roma in oriente, ben doveva essere decorata del primato di onore dopo quello di Roma; tanto più che la sede di Costantinopoli stava già in possesso di tale onore da 60 o 70 anni. Ma a questo canone si oppose il legato Pascasino vescovo di Lilibeo, dicendo ch'era contrario ai canoni antichi della chiesa, e specialmente al canone 6 del concilio niceno, ove si leggeano preferite le chiese di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme a quella di Costantinopoli, oltre la chiesa di Roma, di cui diceasi aver avuto ella sempre il primato. Ma ciò non ostante, i padri restarono fermi nella determinazione fatta2.

67. Indi scrissero i vescovi a s. Leone, dandogli ragguaglio di quanto si era operato nel concilio, e cercandogli la conferma dei loro decreti. Nella lettera sinodale riconoscono il sommo Pontefice per fedele interprete di san Pietro, e dicono aver esso preseduto nel sinodo come capo tra le membra. Lodano prima la sua lettera, di poi riferiscono la sentenza fulminata contro Dioscoro per la sua ostinazione, e la riunione de' vescovi ravveduti; e tali cose dicono essere state mandate ad effetto coll'assistenza de' pontificj vicarj. Aggiungono poi di avere ordinate alcune altre cose, persuasi di ottenerne da sua santità la conferma, e specialmente di aver confermato il primato di onore all'arcivescovo di Costantinopoli per le ragioni di sopra riferite3. Oltre di questa lettera del sinodo, scrissero a s. Leone l'imperatore Marciano, s. Pulcheria, ed Anatolio premurosamente, affinché non ostante l'opposizione de' legati si fosse degnato di confermare il predetto canone 28 a favore della chiesa di Costantinopoli4. Ma s. Leone, con tutto che avesse tutto il


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desiderio di secondare la richiesta di Marciano e di s. Pulcheria, nulladimanco non volle permettere che si violassero i canoni del concilio di Nicea, e rispose che si conservasse quel privilegio alla chiesa di Antiochia1.

68. Prima di passare avanti conviene dar notizia del fine che fecero Eutiche e Dioscoro. Eutiche nell'anno 450 fu bandito per ordine dell'imperatore: ma essendo stato confinato in un luogo vicino alla città di Costantinopoli, s. Leone2 scrisse a s. Pulcheria3 ed indi a Marciano4 di essere stato informato da Giuliano di Cos, che in quel luogo del suo esilio non lasciava d'infettare la gente, seguitando a spargere i suoi errori; onde la pregò a farlo rilegare in altro luogo deserto. E così si fece: fu in effetto Eutiche confinato in un luogo rimoto, ed ivi fece una pessima morte corrispondente alla sua ostinazione5. Dioscoro poi fu rilegato a Gangres nella Paflagonia, dove presto parimente morì ostinato a' 4 di settembre dell'anno 454, lasciando alcuni empi scritti da lui composti in difesa dell'eresia Eutichiana; i quali dallo stesso imperator Marciano furon poi condannati alle fiamme6.

69. I seguaci non però di Eutiche e di Dioscoro non lasciarono per più secoli d'inquietare la chiesa. Specialmente vi furono alcuni caporioni di Lucifero, che commovendo gli altri cagionarono un gran danno. Appena terminato il sinodo di Calcedonia, certi monaci palestini, che non aveano voluto sottoporsi al decreto fatto della fede, sollevarono gli altri monaci in quelle parti, pubblicando che il concilio avea aderito a Nestorio con obbligare i fedeli ad adorare in Cristo due persone, posto che avea stabilito in esso due nature. Capo di questi monaci fu un certo Teodosio7; discacciato dal suo vescovo per le sue ribalderie da un monastero, ma che ne riteneva ancora l'abito. A costui riuscì di trarre al suo partito contro il concilio molti monaci delle tre Palestine, col favore di Eudossia vedova dell'imperator Teodosio, la quale erasi ritirata in quelle contrade8. Ho detto molti monaci, non tutti: perché, come narra Evagrio9, tra quei solitari non pochi menavano vita santa; onde non può credersi che tutti seguissero il perfido Teodosio. Ritornato Giovenale dal concilio nel suo vescovado di Gerusalemme, in vano cercò di correggere quei miseri acciecati; i quali agli avvertimenti del prelato, non solo non si ravvidero, ma ebbero l'audacia di volerlo costringere ad anatematizzare il concilio e s. Leone: negando quegli di farlo, giunsero col soccorso di molta gente di vita perduta a impadronirsi di Gerusalemme; bruciarono più case, uccisero più persone, aprirono le carceri, e chiuse le porte della città, affinché Giovenale non potesse uscirne, procedettero ad eleggere lo stesso empio Teodosio per vescovo di Gerusalemme10.

70. Posto Teodosio con tale iniquità sul trono di quella chiesa, tentò di togliere dal mondo Giovenale; e diede l'incombenza ad un uomo scellerato di ucciderlo. Ma Giovenale scappò in Costantinopoli; onde quel sicario, non avendo potuto toglier la vita a Giovenale, unito con altri complici, uccise s. Saveriano vescovo di Scitopoli (di cui si fa memoria nel martirologio romano ai 21 di febbraio) ed altri suoi aderenti. Seguì poi Teodosio a stabilirsi nella sua sede usurpata con perseguitare tutti coloro che si opponeano alla sua tirannia, alcuni fece tormentar crudelmente, ad altri fece bruciar le case; fece specialmente morire un certo diacono Atanasio, e, non contento della di lui morte, fece strascinare il suo cadavere, e poi lo gittò a' cani. Di questo Atanasio si fa anche menzione nel martirologio ai 5 di luglio11. Volle indi far la visita per tutte quelle diocesi, accompagnato da monaci del


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suo partito, e da altre genti perdute, le quali ove giungevano, empivano i paesi di strage e desolazione. Discacciò egli più vescovi dalle loro città, uccidendone ancora alcuni, e sostituendone altri del suo partito: tra' quali vi fu un certo Teodoto, che fece vescovo di Ioppe, ed un certo Pietro d'Ibeira, che ordinò vescovo di Maiuma; e questi fu poi uno di que' due che ordinarono l'empio Eluro usurpatore della chiesa di Alessandria1. Informato Marciano delle tirannie ed insolenze di Teodosio e de' suoi monaci, procurò di sedare quella sedizione, offerendo il perdono ai ravveduti; e con ciò Teodosio, vedendosi abbandonato, nascostamente se ne fuggì. E dopo esser andato vagando per varj luoghi, giunse al monte Sina per trovar ricovero tra quei solitarj; ma non essendo stato da essi accolto, andò ad intanarsi nelle solitudini dell'Arabia. La sua usurpazione non durò più che un anno e otto mesi, cominciando dalla fine dell'anno 451, sino ad agosto del 453, in cui Giovenale ritornò a Gerusalemme, e rientrò in possesso della sua chiesa2.

71. Fra questo tempo, cioè nell'anno 453 morì s. Pulcheria. Gli eruditi moderni convengono circa l'anno, ma non circa il giorno della sua morte; del resto i greci ne' loro menei ed i latini ne' martirologi celebrano la sua festa ai 10 di settembre. S. Leone in un sua lettera3 epilogò le su lodi, dicendo che non le mancava né la potenza regia, né la dottrina e lo spirito sacerdotale, con cui offeriva a Dio un perpetuo sacrificio di lode. Allo zelo di questa santa imperatrice ascrisse lo stesso s. Leone lo stabilimento della fede contro ambe le eresie di Nestorio e di Eutiche. Fu ella vergine nel matrimonio, e col suo esempio indusse anche le sue sorelle a consacrare a Dio la loro verginità. Fabbricò molti spedali, fondò molti monasterj, e fece edificare più templi, specialmente in onore della divina madre; e perciò la chiesa non tardò ad approvarle il culto di santa4. Nell'anno poi 457 quattro anni appresso morì l'imperator Marciano, degno imitatore della sua santa sposa. S. Leone non dubitò di appellarlo principe di santa memoria; ed i greci ne celebrano anche la festa ai 17 di febbraio. Già di sopra si è veduto quanto era grande la sua pietà e il suo fervore in opporsi a tutti i nemici della fede5.

72. Ma seguiamo a parlare degli altri principali settatori di Eutiche. L'altro eroe di iniquità fu Timoteo Eluro sacerdote, che prima del sacerdozio portò l'abito di monaco, ma per mera apparenza di pietà. Era egli pieno di ambizione: onde appena che intese essere stato deposto Dioscoro dalla chiesa di Alessandria, si pose nella pretensione di avere quel vescovado. Ma essendo stato sostituito s. Proterio a Dioscoro, egli pieno di rabbia si pose a declamare contro il concilio di Calcedonia. Gli riuscì di trarre al suo partito quattro o cinque vescovi ed alcuni monaci infetti, com'esso, degli errori di Apollinare; e con ciò ardì di separarsi dalla comunione di s. Proterio. Fatto Marciano consapevole di quello scisma, procurò di estinguerlo, ma non gli riuscì; onde s. Proterio, adunato un sinodo di tutto l'Egitto, condannò Eluro e Pietro Mongo di lui compagno ed anche quei pochi vescovi e monaci del loro partito. Con tuttociò s. Proterio ebbe sempre a guardarsi da Eluro, quantunque Eluro fosse stato dall'imperatore mandato in esilio, ed a gran pena salvasse la vita, finché regnò Marciano6. Ma appena morto Marciano, Eluro riprese la sua pretensione, niente curando il decreto del suo esilio; ritornò in Egitto, ed imprese a discacciar s. Proterio dalla chiesa di Alessandria. Si tratteneva egli occulto in un monastero di Alessandria, ed ivi per tirare quei monaci al suo partito andava la notte per le loro celle, dicendo, ma contraffacendo la sua voce, di esser egli un angiolo del cielo mandato ad avvisarli che si separassero da Proterio,


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ed eleggessero per loro vescovo Timoteo Eluro. Avendo poi con questo inganno tratti molti monaci al suo seguito, li mandò in Alessandria ad eccitare il popolo contro s. Proterio e contro il concilio di Calcedonia. Indi venne egli stesso, e vedendo il popolo già sollevato colla comitiva de' suoi vescovi scismatici, di Pietro Mongo e de' suoi monaci e di altri complici del suo scisma, si fece nella chiesa proclamar vescovo, e poi ordinare dai due vescovi del suo partito; e subito si pose ad ordinare diaconi, preti e vescovi delle chiese egizie, con ordine di cacciarne gli ordinati da s. Proterio, quando non volessero seguire il suo partito1.

73. Accorse non però ad Alessandria il conte Dionigi, che comandava le truppe della provincia, ed avendo ritrovato che Timoteo n'era uscito, impedì che vi fosse rientrato. Dal che posti in furore quei del suo partito, andarono in cerca di s. Proterio, affin di torselo davanti. Era quel giorno venerdì santo, li 29 di marzo dell'anno 457. S. Proterio, vedendo la sedizione, si ritirò nel battisterio della chiesa; ma gli scismatici, non avendo riguardo alla santità di quel giorno, né alla vecchiezza del loro santo pastore, entrarono nel battisterio, e trovando s. Proterio che stava in orazione, l'uccisero con un colpo di spada e con molte altre ferite. Ma non contenti della sua morte, attaccarono il suo corpo ad una fune e l'esposero in una strada a vista di tutto il popolo, pubblicando che quegli era Proterio. Strascinarono poi il suo cadavere per tutta la città, e lo fecero in pezzi; giunsero a cacciarne le viscere e mangiarsele, e il resto del corpo lo bruciarono, e ne gittarono le polveri al vento. Eluro che verisimilmente fu l'autore di questa tragedia, elevandosi in maggior superbia, fece fare pubbliche feste per la morte di s. Proterio; proibì che per lui si fosse offerto il sacrificio dell'altare, e di più, per dimostrare l'odio conceputo contro del santo vescovo, fece spezzare e bruciare tutte le sedi episcopali, ove s. Proterio avea seduto, e fece lavare con acqua marina tutti gli altari sui quali avea celebrato. Indi perseguitò tutta la sua famiglia, impadronendosi anche de' suoi beni patrimoniali. Tolse dai dittici della chiesa il suo nome, sostituendovi il suo e quello di Dioscoro. Ma con ciò non poté impedire che s. Proterio non fosse poi venerato da tutte le chiese come santo e martire2. La chiesa greca lo scrisse già tra' martiri ai 28 di febbraio. Quindi Eluro seguì ad esercitare tutte le funzioni di vescovo. Distribuiva a suo capriccio i beni di quella chiesa in favore de' suoi partigiani. Ebbe la temerità di anatematizzare il sacro concilio di Calcedonia con tutti coloro che lo riceveano, e specialmente il sommo pontefice s. Leone, Anatolio ed altri vescovi cattolici, pubblicando che quel concilio aveva approvato Nestorio. Perseguitò ancora tutti i monasterj di monaci e di vergini che aderivano al concilio. Egli da principio non ebbe che pochi vescovi del suo partito; ma presto ne ordinò degli altri, e gl'inviò da per tutto a discacciare i vescovi cattolici dalle loro chiese3.

74. A Marciano nell'anno 457 succedette nell'impero Leone, il quale seguendo le vestigie di Marciano si oppose anch'egli con tutto il vigore agli eretici e specialmente agli Eutichiani. Onde pubblicò un editto per tutto l'oriente, ove confermò tutte le leggi pubblicate da' suoi antecessori e specialmente quella di Marciano in difesa del concilio di Calcedonia. Vedendo pertanto che in quel tempo i seguaci di Eutiche eran quelli che più infestavano la chiesa, allora stimò opportuno il rimedio insinuatogli da alcuni di adunare un nuovo sinodo, a fin di togliere tutte le controversie; onde scrisse a s. Leone che gli parea bene di dare questa soddisfazione ai contraddittori di richiamar di nuovo all'esame i decreti


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del sinodo Calcedonese1. Ma il pontefice l'avvertì, pregandolo in nome di tutta la chiesa, a non permettere che fosse rivocata in dubbio l'autorità del concilio, col sottoporre ad esame quel che con tanta oculatezza era stato già stabilito, ponendogli avanti che non sarebbero mancati quei che avrebbero cavillate le decisioni di ogni altro sinodo; poiché questa è l'arte degli eretici, di far mettere sempre in nuovo esame i dogmi della fede di già stabiliti, affin di oscurar la verità. L'imperatore mosso da queste forti ragioni cessò per allora dal pensiero del nuovo concilio. Ma nell'anno seguente 458 scrisse di nuovo al pontefice che molti Eutichiani cercavano di essere istruiti circa la verità della fede, e ch'eran disposti a ritrattarsi da' loro errori, quando ne fosse lor dimostrata la falsità; e perciò lo pregava a permettere almeno di fare una conferenza tra essi e i cattolici, alla quale fossero anche intervenuti i suoi pontificj legati. S. Leone nella sua risposta promise di mandare i suoi legati per bene della religione; ma lo pregò a rigettare affatto questa conferenza, replicandogli di nuovo che il fine degli eretici non era altro che di rendere incerte le cose già determinate2.

75. In fatti mandò i legati, affinché stimolassero l'imperatore a discacciar presto l'empio Eluro dalla città di Alessandria, ove proseguiva a perseguitare la chiesa; ed ebbe l'intento. Poiché l'imperatore finalmente pubblicò un editto contro Eluro, ed ordinò a Stila comandante delle truppe in Egitto di scacciarlo dalla città, e rilegarlo a Gangres nella Paflagonia, ove era stato rilegato già prima Dioscoro, e vi aveva terminata la vita. Dimorò ivi Eluro per qualche tempo; ma perché vi eccitava tumulti con tenervi le sue scismatiche adunanze, l'imperatore lo confinò nel Chersoneso, in cui fu ritenuto sino all'anno 476, quando Basilisco usurpò l'imperio. Eluro non però prima di andare al suo esilio, per opera di alcuni suoi amici ebbe la permissione di venire a Costantinopoli, e fingendosi cattolico procurò di esser restituito nella sede di Alessandria. Seppe ciò s. Leone, e scrisse all'imperatore3 che quando anche la profession di fede fatta da Eluro fosse sincera, bastava l'orrore de' suoi eccessi commessi a renderlo per sempre indegno di esser vescovo4. Onde l'imperatore allora ordinò che Eluro fosse cacciato in tutti i modi da Alessandria, ed in suo luogo fosse eletto altro vescovo. Ed in effetto di comun consenso del clero e del popolo fu eletto un altro Timoteo, soprannomato Salofacialo, ma tutto diverso da Eluro, di buona fede e di buoni costumi.

 

76. Nell'anno 474 morì l'imperatore Leone, e gli succedette il nipote, detto Leone il giovane, il quale fu coronato; ma essendo morto fra poco tempo, succedette all'imperio Zenone suo padre. Ma mentre regnava Zenone, Basilisco cognato di Leone Augusto e generale de' romani occupò l'imperio nell'anno 476. Questi professava l'eresia Ariana; onde fece richiamar Eluro dall'esilio, nel quale stava già da 18 anni, e lo rimandò ad Alessandria a riprendere il possesso di quella chiesa5. Essendo non però risalito sul trono Zenone per opera degli stessi generali delle milizie che l'aveano tradito, rilegò Basilisco (il quale non avea regnato che per un anno e mesi) nella Cappadocia, ove chiuso in una torre insieme colla sua moglie Zenonida e col loro figliuolo, li fece morire di fame; ed allora insieme ordinò che Eluro di nuovo fosse mandato in esilio. Ma avendo poi inteso che il medesimo era molto vecchio, si contentò che restasse a morire nel suo paese di Alessandria. Volle nondimeno che gli fosse tolto il governo di quella chiesa, e che tornasse a governarla Salofacialo6. Ma prima che fosse venuto in Egitto l'ordine di Zenone, Eluro era già morto, avendosi egli stesso abbreviati


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i giorni. Poiché entrato egli già in timore di esser discacciato da Alessandria, si uccise da se stesso col veleno. Diceano poi i suoi seguaci che egli si avea predetta la morte1; cosa per altro facile a succedere, avendosela esso medesimo volontariamente procurata2.

77. Fra questo tempo, cioè nell'anno 459, cadde la morte di quel gran santo che fu la meraviglia del mondo, san Simeone Stilita. I novatori deridono la vita di questo santo, specialmente l'eretico Mosheim ed Archibaldo Maclaine suo commentatore3. Dicono che s. Simeone per farsi più vicino al cielo anche col corpo, si fabbricò quelle sue colonne; onde chiamano poi l'istoria del santo un bel romanzo, ed una finzione di certi scrittori ecclesiastici. Ma nelle erudite note che vi fa il dotto sacerdote d. Giulio Selvaggi, altra volta da me lodato, nella nota 75, fa vedere che la vita di s. Simeone non fu già una pazzia, ma un prodigio di santità; mentre questa istoria, come scrive il cardinal Orsi4, si legge autenticata da tanti scrittori antichi e moderni, come da Evagrio5, Teodoreto6, dagli scrittori antichi delle vite di s. Teodosio, di s. Aussenzio e di s. Eutimio, da Fleury7, dall'eruditissimo canonico Mazzocchi8 e da altri, onde sembra una specie di temerità il dubitarne. Pertanto è bene qui fare un breve raccorcio della vita di questo santo, per essere stato s. Simeone un gran difensore della fede cattolica contro gli Eutichiani. Nacque egli nel villaggio di Sisan sulla frontiera della Siria, o pure dell'Arabia, come scrive Teodoreto. In età di tredici anni egli guardava le pecore di suo padre: ma sin da quell'età avea risoluto di vivere solo a Dio; onde girò per più monasterj. Ma non contento di tutte quelle austerità con cui viveano que' monaci, si ridusse a vivere da se solo sovra una colonna di fabbrica, mosso da un particolare istinto divino. Mutò più colonne: ma l'ultima e la più alta fu di 40 cubiti; e su quella dimorò per 30 anni sino alla morte esposto al sole, a' venti, ed alle nevi. Questa colonna era così stretta nel suo termine, che appena potea contenere la sua persona. Mangiava una volta la settimana, e passava tra l'anno più quaresime senza cibo. L'unico suo impiego era l'orazione. Su quella colonna tra gli altri esercizj facea più di mille inclinazioni ogni giorno, giungendo colla testa a toccare i piedi; onde gli si formò una gran piaga nel ventre, e gli si separarono tre nodi della spina del dosso. Di più gli si formò un doloroso ulcere nella gamba, donde scaturiva molto sangue. I santi monaci dell'Egitto, temendo di tal vitapenitente e sì stravagante, per provare la sua ubbidienza, e vedere se quella vita fosse gradita a Dio, un giorno gli mandarono a dire che per ubbidienza scendesse dalla colonna, ed il santo allora, al sentire il nome di ubbidienza, subito stese il piede per calare; ma allora gli disse il messo, come era stato istruito: No, fermati, Simeone; perché ora si conosce essere volontà di Dio che tu viva su questa colonna9. Tralascio più altre cose delle sue virtù e penitenze tutte di meraviglia; ma la maggior meraviglia fu il vedere le migliaia di conversioni di peccatori, di eretici ed anche d'infedeli che quest'uomo senza lettere operò da quella colonna. Accorrevano a lui quasi tutte le nazioni della terra, essendosi già da per tutto sparsa la sua fama; altri egli trasse dalle tenebre dell'infedeltà, altri dal lezzo de' peccati ad una vita santa, altri salvò dalla peste dell'eresia, e specialmente dell'Eutichiana, che allora molto infestava la chiesa. Scrisse fra le altre cose una fortissima lettera all'imperatore Teodosio10, ove cercò di persuaderlo ad affaticarsi con tutte le sue


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forze per la difesa del concilio di Calcedonia.

 

78. Siccome poi fu ammirabile la vita di s. Simeone, così anche fu stupenda la sua felice morte1, che accadde nell'anno 449, e che gli era stata già rivelata 40 anni prima. Prima della sua morte avvenne un orribil tremuoto nella città di Antiochia: onde quel popolo in gran numero accorse al santo per impetrar da Dio soccorso in quella gran calamità; e par che Dio avesse appunto adunata tanta gente dintorno a quella colonna, acciocché ammirasse la sua preziosa morte, e rendesse più gloriosa la pompa de' suoi funerali. Durò la sua ultima infermità cinque giorni: nell'ultimo giorno poi, che fu il secondo di settembre, il santo prima di spirare raccomandò a Dio tutti i suoi discepoli che stavano presenti: indi fece tre genuflessioni, ed alzò tre volte la testa come estatico verso il cielo. Allora l'immenso popolo che gli stava dintorno, accorso per trovarsi presente al di lui passaggio, ad alta voce lo pregò a benedirlo; ed il santo, avendo dato un guardo verso le quattro parti del mondo, alzò la mano, lo raccomandò a Dio, e lo benedisse. In fine alzati di nuovo gli occhi al cielo, ed essendosi colla mano percosso tre volte il petto, depose la testa su l'omero di un suo discepolo, e così placidamente spirò. Il suo santo corpo fu trasportato ad Antiochia. Il viaggio fu di quattro miglia: il cataletto fu portato dai vescovi e sacerdoti, e dintorno ardeano innumerabili fiaccole ed incensieri che fumavano. Fu accompagnato poi da Martirio vescovo di Antiochia con molti altri vescovi, ed anche dal generale Ardaburio, che andava alla testa di seimila soldati colla comitiva di 21 conti e molti tribuni e magistrati della città. Giunto il sacro cadavere alla città, fu depositato nella gran chiesa cominciata da Costantino imperatore, e compiuta da Costanzo; e quello fu il primo ad esservi seppellito. Fu poi edificata presso alla sua colonna una magnifica chiesa descritta da Evagrio2. Ebbe s. Simeone un suo perfetto imitatore, il quale fu s. Daniele, che anche menò la sua vita su d'una colonna, e fu gran difensore della chiesa contro i partigiani di Eutiche3. Questi son miracoli che la sola fede cattolica ha potuto produrre, e che in niuna setta eretica si sono mai veduti. Queste piante non possono nascere in terre maledette da Dio; solo han potuto allignare in quella chiesa, ove si professa la vera fede.

 

79. Torniamo agli empj eroi dell'eutichiana eresia. Morto che fu Timoteo Eluro, i vescovi eretici della provincia elessero in suo luogo, di autorità propria, Pietro Mongo, o sia Moggos, cioè Balbo4. Questo Pietro era stato arcidiacono. Egli fu ordinato in tempo di notte da un solo vescovo scismatico. Ciò saputosi da Zenone imperatore, per castigare questo attentato egli scrisse ad Antemio governatore di Egitto, che avesse castigato il vescovo che avea ordinato il Mongo, e il Mongo l'avesse subito discacciato dalla sede di Alessandria, facendovi rientrare Timoteo Salofacialo; il che fu posto già in effetto, e ciò avvenne nell'anno 4775. Nell'anno poi 482 essendo morto Salofacialo, gli fu sostituito Giovanni Talaia; ma Acacio vescovo di Costantinopoli, perché il Talaia non gli era bene affetto, si adoperò coll'imperatore a farnelo discacciare, per far rientrare di nuovo il Mongo nella sede di Alessandria. E tutto gli riuscì, poiché rappresentò a Zenone che Pietro Mongo era caro al popolo di Alessandria, e che tenendolo in quella sede, avrebbe potuto riunirsi tutta la chiesa di quel patriarcato. L'imperatore si invogliò di questo pensiero, e scrisse a Simplicio papa per il ristabilimento del Mongo nel vescovado di Alessandria. Il papa ricusò affatto di porvi la sua mano ed il suo consenso; e l'imperatore sdegnatosi per questa negativa scrisse a


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Pergamo duca di Egitto ed al governatore Apollonio che avessero discacciato dalla cattedra di Alessandria Giovanni, che in quel tempo la tenea, e vi avessero riposto Pietro Mongo1.

§. 3. Dell'Enotico dell'imperator Zenone.

80. L'imperator Zenone promulga il suo enotico. 81. Il Mongo anatematizza il papa s. Leone ed il sinodo di Calcedonia. 82. Di Pietro Fullone intruso nel vescovado di Antiochia. 83. Vicende del Fullone e sua morte. 84. Di Acacio patriarca di Costantinopoli morto scomunicato.

 

80. Acacio coll'aiuto de' protettori del Mongo indusse l'imperatore a cacciar fuori il celebre enotico, cioè editto di unione, chiamato in greco henoticon, che Pietro, secondo il patto, dovea sottoscrivere nel rientrare nella sede di Alessandria. Questo editto fu poi mandato a tutti i vescovi ed a' popoli non solo di Alessandria, ma di tutto l'Egitto ed anche della Libia e di Pentapoli2. L'editto in sostanza diceva così: «Gli abati ed altre venerabili persone ci han domandata la riunione delle chiese, per fare cessare gli effetti funesti della divisione, per la quale molti son rimasti privi del battesimo o della santa comunione, e di più vi sono occorsi infiniti sconcerti. Perciò vi facciamo sapere che noi non riceviamo altro simbolo, fuori di quello de' 318 padri di Nicea, confermato da 150 padri di Costantinopoli, e seguito da' padri di Efeso, che condannarono Nestorio ed Eutiche. Riceviamo parimente i 12 articoli di Cirillo; e confessiamo che N.S. Gesù Cristo Dio, Figliuolo unico di Dio, il quale si è incarnato in verità, consostanziale al Padre secondo la sua divinità, e consostanziale a noi secondo la sua umanità, quello stesso ch'è disceso e si è incarnato dallo Spirito santo, di Vergine Maria (così anche trascrive Natale Alessandro; ex Spiritu sancto, de Maria Virgine; ma meglio si sarebbe detto, come già si disse nel concilio costantinopolitano I. de Spiritu Sancto ex Maria Virgine, come notammo nel capo IV. al num. 74.) Madre di Dio, ed un solo Figliuolo e non due. Noi diciamo che è il medesimo Figliuolo di Dio che fece miracoli e che volontariamente patì nella sua carne. E non riceviamo coloro che dividono o confondono le nature, o che ammettono una semplice apparenza d'incarnazione: ma scomunichiamo chiunque crede o ha creduto in altro tempo diversamente in Calcedonia, o in qualunque altro si sia concilio, e principalmente Nestorio, Eutiche ed i loro settatori. Riunitevi voi alla chiesa nostra madre spirituale, essendo ella dei medesimi nostri sentimenti». Così porta il Fleury3; e per questo esemplare si uniforma a quello che ne adduce Natale Alessandro4. Il cardinal Baronio5 riprova quest'enotico di Zenone, come eretico; ma giustamente Natale dice che per sé non merita la nota di eresia; mentre un tale editto non già fonda l'eresia Eutichiana, anzi l'impugna e la condanna: ma poi saggiamente soggiunge: Non diffiteor tamen henoticon Zenonis causae fidei nocuisse et fovisse haeresim Eutychianam, silendo cum de s. Leonis epistola, tum de synodi Chalcedonensis definitione, tum denique de vocabulis. Ex duabus et in duabus naturis, quae catholicae fidei contra Eutichianam perfidiam nota singularis erant6.

81. Torniamo a Pietro Mongo. Egli dunque posto sul trono di Alessandria ricevette l'enotico di Zenone, e lo fece ricevere non solo da tutti del suo partito, ma anche da coloro ch'erano del partito di s. Proterio, co' quali non ricusò di comunicare per non dar sospetto della sua mala fede; e coll'occasione di una festa che celebravasi in Alessandria, parlò al popolo nella chiesa, e fece leggere pubblicamente l'enotico. Ma nello stesso tempo si avanzò allora a scomunicare il concilio di Calcedonia e la lettera di s. Leone; togliendo da' dittici i nomi di s. Proterio e di Timoteo Salofacialo, e sustituendovi quelli di Dioscoro e di Eluro7.


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Finalmente Pietro Mongo, buon compagno ed imitatore di Eluro, dopo avere in diversi modi perseguitati i cattolici, finì di vivere nell'anno 4901.

82. Resta a parlare di un altro sacerdote, perfido Eutichiano, che nel medesimo secolo V. verso l'anno 469 cagionò un gran danno nella chiesa di Antiochia. Questi fu Pietro Fullone, il quale da principio professò vita monastica in un monastero di Acemeti nella Bitinia in faccia a Costantinopoli, ove faceva il mestiere di lavatore di panni, donde poi ebbe il soprannome di Fullone; ma scopertosi ch'egli rigettava il concilio di Calcedonia, e sostenea l'eresia di Eutiche, fu discacciato dal monastero, e sospeso dagli officj del sacerdozio. Dopo ciò egli ritirossi in Costantinopoli, dove col colore di pietà si pose a conciliarsi il favore de' grandi, e particolarmente di Zenone, genero dell'imperator Leone, che cominciò a mirarlo di buon occhio. Ed essendosi portato con Zenone in Antiochia, prese di mira a quel vescovado, e indusse Zenone a proteggerlo. Quindi cominciò a calunniare Martirio vescovo di Antiochia, accusandolo qual Nestoriano. Avendo pertanto coll'aiuto di molti suoi amici Apollinaristi eccitata una sedizione in quella città, persuase a Zenone che per sedare quel tumulto bisognava discacciarne Martirio; e così occupò quella sede; dove salito, la prima cosa che fece, al Trisagio della messa Sanctus, Sanctus, Sanctus, aggiunse queste parole: Qui crucifixus es pro nobis; affin di dare a credere che nella persona di Cristo era stata crocifissa la stessa divinità2. Martirio ricorse all'imperatore in Costantinopoli, ove accorse anche il Fullone, portando un libello di calunnie contro il santo vescovo. Ma Leone condannando l'usurpazione del Fullone, inviò Martirio con grande onore alla sua sede in Antiochia. Vedendo non però Martirio il gran contrario che ivi gli si opponeva, e non avendo potuto quietarlo, risolse di ritirarsi, e disse pubblicamente nella chiesa: Io mi riserbo la dignità di sacerdote, e rinunzio ad un popolo disubbidiente e ad un clero poco sottomesso. Allora il Fullone, vedendo la sede vacante, di nuovo l'occupò, e venne riconosciuto per patriarca di Antiochia. Ma s. Gennadio, avendo ciò saputo3, ne informò l'imperatore, il quale ordinò che il Fullone fosse esiliato in Oasi. Egli non però, essendone avvisato, prevenne l'esecuzione dell'ordine e se ne fuggì4.

83. Morto poi l'imperator Leone nell'anno 474, fu dichiarato imperatore Zenone; ma essendo stato appresso nell'anno 476 occupato il regno da Basilisco, come si disse di sovra, suo cognato, per esser fratello dell'imperatrice Verina, fu restituito il Fullone da Basilisco alla chiesa di Antiochia. Avendo poi Zenone nell'anno seguente 477 ricuperato l'imperio, lo fece deporre da un concilio di oriente, ed in suo luogo fu posto Giovanni vescovo di Apamea5. Ma Giovanni dopo tre mesi fu anche discacciato da Antiochia, e fu eletto per vescovo Stefano uomo pio, contro cui dopo un anno si mossero gli eretici con tal furore, che l'uccisero nella stessa sua chiesa a colpi di canne aguzze, e poi ne strascinarono il corpo per la città, e lo gittarono nell'Oronte6. Fu ordinato vescovo un altro Stefano, e Pietro Fullone fu mandato in esilio in Pitionto sulle costiere dell'imperio nel Ponto; ma Pietro ingannò le guardie; e si ritirò in un altro luogo7. Nell'anno 484 fu di nuovo ristabilito la terza volta in Antiochia coll'assenso di Acacio, non ostante che Acacio tante volte l'avesse condannato8. Finalmente Pietro Fullone dopo aver esercitate molte crudeltà ed ingiustizie contro più chiese, morì in Antiochia nell'anno 488, non avendo tenuta dopo la sua ultima usurpazione quella sede, se non per poco più di


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tre anni. Sicché nella fine di questo secolo V. la divina giustizia esercitò la sua giusta vendetta contro i capi ed i principali fautori dell'empietà Eutichiana; poiché il Fullone morì nell'anno 488, Acacio nel 489, il Mongo nel 490 e Zenone nel 491.

84. Ma parlando di Acacio giova qui, per cautela di coloro che pretendono l'onore del vescovado, riflettere sopra l'infelice morte di questo misero prelato. Egli nell'anno 472 succedette nel trono di Costantinopoli ad un santo, qual fu s. Gennadio; ma apportò un gran danno alla chiesa. Poiché sebbene non fosse stato infetto dell'eresia di Eutiche, almeno fu un gran protettore degli Eutichiani, mantenendo colla sua mala condotta un grande scisma, che non si estinse se non trenta e più anni dopo la sua morte1. Fu il medesimo accusato presso il pontefice s. Felice di molte mancanze, e specialmente di mantener la comunione coll'empio Mongo, il quale aveva anatematizzato il concilio di Calcedonia e la lettera di s. Leone, e fu dal papa ammonito a ravvedersi; ma non facendone egli conto, fu obbligato s. Felice a scomunicarlo e deporlo; ed egli seguì a vivere scomunicato per tutta la sua vita, e così morì2. In somma quando Acacio morì, è cosa di orrore leggere come si trovò rovinata la religione in oriente. Poiché tutte le chiese o erano possedute dagli eretici, o da coloro che comunicavano cogli eretici, o almeno con coloro che per la comunione cogli eretici eran separati dalla comunione di Roma, e questo danno quasi tutto era provenuto dalla protezione che Acacio avea mantenuta de' nemici della chiesa. Mentre ciò scrivo, io tremo, ritrovandomi anch'io vescovo, e considerando che molti per essere stati a tal dignità esaltati, han prevaricato, ed han perduta l'anima e Dio: molti, dico, che restando nel loro stato privato, molto più facilmente si sarebbero salvati. Io prescindo qui dalla questione se chi pretende di esser vescovo, stia in istato di peccato mortale; ma non intendo come possa alcuno che desidera di assicurar la sua salute, pretendere di esser vescovo, e porsi volontariamente in tanti pericoli di perdersi, a' quali i vescovi son soggetti.

 




1 Nat. Al. t. 10. c. 3. a. 13. §. 1. Baron. ann. 448. ex n. 19. Hermant t. 1. c. 155. Fleury t. 4. l. 27. n. 23.

1 Liberat. brev. c. 11.



2 S. Leo ep. 19. al. 6.



3 Fleury t. 4. l. 27. n.23.



4 Sulp. l. 25. n. 2. ap. Fleury cit. n. 23.



5 Orsi ibid. n. 16. Fleury cit. n. 23. Nat. Alex. t. 10. art. 13. §. 2.



6 Orsi t. 14. l. 32. n. 9.



7 Orsi ibid. n. 16. Fleury loc. cit.



8 Orsi loc. cit. n. 17. Fleury l. 27. n. 24.

1 Orsi n. 18.



2 Fleury l. 27. n. 28. Orsi t 14. 1. 32. n. 23. Baron. an. 448. n. 48. Hermant t. 1. c. 155.



1 Fleury t. 4. l. 27. n. 28. Orsi t. 14. l. 32. n. 23.



2 Nat. A. t. 10. c. 3. a. 13. §. 4.



3 S. Leo epist. 20. al. 8.

1 Orsi cit. n. 23.



2 Bernin t. 1. sec. 5. c. 6. p. 510. Petr. Annat. Appar. ad theol. l. 4. de script. eccl. a. 30.



3 S. Leo. ep. 20. ap. Orsi ib. n. 24. et 25. Fleury n. 31. et 32.



4 Liberat. Breviar. c. 11.



5 Fleury t. 4. l. 27. n. 31. a. 33. Natal. Alex. c. 3. a. 13. §. 6. et 7.

1 Hermant t. 1. c. 156.



2 Baron an. 444. n. 33. ex Liberat.



3 Loc. cit.



4 Liberat. Breviar. c. 12.



5 Natal. Alex. loc. cit. §. 10. Orsi t. 32. n. 50.



6 Orsi n. 41.



7 Orsi n. 52.

1 Orsi n. 53.



2 Orsi n. 54.



3 Orsi n. 55.



4 Orsi n. 56. Baron. an. 448. n. 81. ad 93.



5 Fleury t. 4. l. 26. n. 36.

1 L. 1. de Incarn. contra Nest. c. 2. et 3.



2 Fleury l. 27. n. 41.



3 Orsi l. 33. n. 58. Baron. A. 449. n. 92.



4 Orsi n. 59. e 60.

1 Orsi l. 32. n. 62. Fleury l. 27. n. 41. Hermant t. 1. c. 157.



2 Orsi lib. 33. n. 62. vide Fleury l. 27. n. 41. Bernin. t. 1. c. 6. p. 522.



3 Orsi n. 68.



4 L. 28. n. 49.



5 Nat. Al. t. 10. c. 4. a. 28. Orsi loc. cit. n. 50.



6 Orsi l. 28. n. 62.



7 S. Ciryl. Apol. c. 1.



8 Orsi l. 30. n. 66.

1 Orsi t. 13. l. 30. n. 12.



2 Orsi n. 13.



3 Orsi l. 30. n. 67.



4 Orsi l. 32. n. 10. et 11.



5 Orsi l. 32. n. 68. et seq. ad 85.



6 Orsi l. 33. n. 9.



7 Orsi ibid. n. 20.



8 Orsi ib. n. 70.



9 Orsi ib. n. 20.



10 Orsi l. 23. n. 64.



11 Hermant t. 1. c. 157. Fleury t. 4. l. 27. n. 41.



12 L. 32. n. 97.



13 Libell. Theod. act. conc. chalc. vide Fleury loc. cit.

1 Hermant t. 1. c. 157.



2 Orsi l. 32. n. 90.



3 Loc. cit. n. 101.



4 Hermant t. 1. c. 158.



5 Fleury t. 4. l. 27. n. 48.

1 Orsi t. 14. l. 33. n. 28. et 29.



2 Ep. 52.



3 Liberat. Breviar. c. 13. et Marcell. in Chron.



4 Vide Nat. Alex. t. 10. n. 4. a. 13. §. 17.



5 Act. 1. conc. chalc.



6 Orsi l. 33. n. 43. a. 47. e 70.



7 Orsi ibid. n. 49.

1 Nat. Alex. t. 10. c. 3. a. 13. §. 17. Orsi ib. n. 50. ad 55.



2 Orsi l. 23. n. 59. e 60.



3 Orsi l. 33. n. 62.



4 Fleury l. 28. n. 21. et Orsi loc. cit. n. 64.

1 Orsi t. 14. l. 33. n. 66.



2 Ib. n. 78. et 79.



3 Orsi loc. cit. n. 84.



4 Ib. n. 82. et 83.

1 Fleury l. 28. n. 33. Orsi n. 86.



2 Ep. 65. et Rom.



3 Orsi l. 53. n. 7. Fleury ib. l. 28. n. 53.



4 Ep. 107.



5 Bernin. t. 1. c. 6. p. 534.



6 Orsi l. 33. n. 55. in fin. e 133.



7 Evagr. l. 2. c. 5.



8 Ap. Orsi l. 33. n. 91.



9 L. 1. c. 31.



10 Orsi loc. cit. n. 92.



11 Orsi l. 33. n. 94.

1 Orsi n. 94.



2 Orsi n. 111.



3 Ep. 90.



4 Orsi cit. loc. 33. n. 131.



5 Orsi l. 34. n. 12. et 13.



6 Orsi t. 14. l. 33. n. 105.

1 Orsi l. 34. n. 15. Fleury t. 4. l. 29. n. 2.



2 Orsi n. 16. et Baron. an. 457. n. 28.



3 Orsi lib. 34. num. 17. et Fleury lib. 29. num. 2.

1 Orsi t. 15. l. 34. n. 18. a. 19.



2 Orsi loc. cit. n. 48.



3 S. Leo. ep. 137. al. 99.



4 Fleury l. 29. n. 13. Orsi n. 61. et 62.



5 Fleury l. 29. n. 45.



6 Orsi l. 35. n. 66. ad 68.

1 Liberat. Breviar. c. 16.



2 Fleury l. 29. n. 49. cum Gennad. de script. eccl. n. 80.



3 Mosheim Ist. eccl. cent. 1. part. 2. c. 5. n. 12. et Maclain. ivi.



4 L. 27. n. 14.



5 L. 1. c. 53.



6 Philoth. c. 26.



7 L. 29. n. 7.



8 T. 3. coment. in calend. neap. p. 885.



9 Orsi l. 17. n. 14. infra ex Theod. exc. l. 2.



10 Evagr. l. 2. c. 20.

1 Orsi t. 15. l. 34. 57.



2 Orsi cit. n. 57.



3 Orsi l. 35. n. 62.



4 Ib. a. 66. ad 68.



5 Fleury lib. 29. n. 49. ex Gennad. de scriptor eccl. num. 80.

1 Fleury al cit. n. 49.



2 Evagr. l. 3. c. 14.



3 L. 29. n. 53.



4 C. 3. a. 15. §. 4.



5 An. 482.



6 Natal. loc. cit.



7 Fleury l. 29. n. 54.

1 Nat. Al. c. 3. a. 14. §. 5. Fleury l. 30. n. 21.



2 Fleury l. 29. n. 30. Orsi l. 35. n. 18. Natal. Alex. c. 3. a. 17.



3 Liberat. Brev. Hist. Eutych.



4 Orsi loc. cit.



5 Orsi ib. n. 64. et 69.



6 Orsi vide ib. et Fleury loc. cit. n. 49. in fin. ex Evag. l. 3. c. 10.



7 Fleury ib. n. 50.



8 Fleury l. 30. n. 17. Nat. Alex. loc. cit.

1 Orsi l. 35. n. 27.



2 Orsi l. 36. n. 27. et 28.






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