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S. Alfonso Maria de Liguori Apparecchio alla Morte IntraText CT - Lettura del testo |
PUNTO III
Perduta che sarà la luce, e indurito che sarà il cuore, moralmente ne nascerà che 'l peccatore faccia mal fine, e muoia ostinato nel suo peccato. «Cor durum habebit male in novissimo» (Eccli. 3. 27). I giusti sieguono1 a camminare per la via dritta.2 «Rectus callis iusti ad ambulandum» (Is. 26. 7). All'incontro i mal abituati3 van sempre in giro. «In circuitu impii ambulant» (Ps. 11. 9). Lasciano il peccato per un poco, e poi vi tornano. A costoro S. Bernardo4 annunzia la dannazione: «Vae homini qui sequitur hunc circuitum» (Serm. 12. Sup. Psal. 90). Ma dirà quel tale: Io voglio emendarmi prima della morte. Ma qui sta la diffìcoltà, che un mal abituato si emendi, ancorché giunga alla vecchiaia; dice lo Spirito Santo: «Adolescens iuxta viam suam, etiam cum senuerit, non recedet ab ea» (Prov. 22. 6). La ragione si è, come ci dice S. Tommaso da Villanova (Conc. 4. Dom. Quadr. 4),5 perché la nostra forza è molto debole. «Et erit fortitudo nostra6 ut favilla stupae» (Is. 1. 31). Dal che ne nasce, secondo dice il santo che l'anima priva della grazia non può stare senza nuovi peccati: «Quo fit, ut anima a gratia destituta diu evadere ulteriora peccata non possit». Ma oltre ciò, che pazzia sarebbe di taluno, se volesse giuocare e perdere volontariamente tutto il suo, sperando di rifarsi all'ultima partita? Questa è la pazzia di chi siegue a vivere tra' peccati, e spera poi nell'ultimo giorno7 della vita di rimediare al tutto. Può l'Etiope, o il pardo mutare il color della sua pelle? e come potrà far buona vita, chi ha fatto un lungo abito al male? «Si mutare potest Aethiops pellem suam, aut pardus varietates suas, et vos poteritis benefacere, cum didiceritis
malum» (Ier. 13. 23). Quindi avviene che il male abituato8 in fine si abbandona alla disperazione, e così finisce la vita. «Qui vero mentis est durae, corruet in malum» (Prov. 28. 14).
S. Gregorio9 su quel passo di Giobbe: «Concidit me vulnere super vulnus, irruit in me quasi gigas» (Iob. 16. 15): dice il santo così: Se taluno è assalito dal nemico, alla prima ferita che riceve resta forse anche abile a difendersi; ma quante più ferite riceve, tanto più perde le forze, sino che finalmente resta ucciso. Così fa il peccato; alla prima, alla seconda volta resta qualche forza al peccatore (s'intende sempre per mezzo della grazia che gli assiste), ma se poi egli seguita a peccare, il peccato si fa gigante, «irruit quasi gigas». All'incontro il peccatore, trovandosi più debole e con tante ferite, come potrà evitare la morte? Il peccato, al dire di Geremia, è come una gran pietra, che opprime l'anima: «Et posuerunt lapidem super me» (Thren. 3. 53). Or dice S. Bernardo10 esser sì difficile il risorgere ad un mal abituato, quando è difficile ad uno che sia caduto sotto un gran sasso, e che non ha forza di rimuoverlo per liberarsene: «Difficile surgit, quem moles malae consuetudinis premit».
Dunque, dirà quel mal abituato, io son disperato? No, non sei disperato, se vuoi rimediare. Ma ben dice un autore che ne' mali gravissimi vi bisognano gravissimi rimedi: «Praestat in magnis morbis a magnis auxiliis initium medendi sumere» (Cardin. Meth. cap. 16).11 Se
ad un infermo che sta in pericolo di morte e non vuol prender rimedi, perché non sa la gravezza del suo male, gli dicesse il medico: Amico, sei morto, se non prendi la tal medicina. Che risponderebbe l'infermo? Eccomi, direbbe, pronto a prender tutto; si tratta di vita. Cristiano mio, lo stesso dico a te, se sei abituato in qualche peccato: stai male, e sei di quell'infermi, che «raro sanantur» (come dice S. Tommaso da Villanova);12 stai vicino a dannarti. Se non però vuoi guarirti, vi è il rimedio; ma non hai d'aspettare un miracolo della grazia; hai da farti forza dal canto tuo a toglier le occasioni, a fuggire i mali compagni, a resistere con raccomandarti a Dio, quando sei tentato; hai da prendere i mezzi, con confessarti spesso, leggere ogni giorno un libretto spirituale, prendere la divozione a Maria SS., pregandola continuamente che t'impetri forza di non ricadere. Hai da farti forza, altrimenti ti coglierà la minaccia del Signore contro gli ostinati: «In peccato vestro moriemini» (Io. 8. 21). E se non rimedi, or che Dio ti dà questa luce, difficilmente potrai rimediare appresso. Senti Dio che ti chiama: «Lazare, exi foras».13 Povero peccatore già morto, esci da questa oscura fossa della tua mala vita. Presto rispondi; e datti a Dio; e trema che questa non sia l'ultima chiamata per te.
Ah Dio mio, e che voglio aspettare che proprio mi abbandoniate e mi mandiate all'inferno? Ah Signore, aspettatemi, ch'io voglio mutar vita e darmi a Voi. Ditemi che ho da fare, che voglio farlo. O sangue di Gesù, aiutatemi. O avvocata de' peccatori Maria, soccorretemi. E Voi, Eterno Padre, per li meriti di Gesù e di Maria, abbiate
pietà di me. Mi pento, o Dio di bontà infinita, di avervi offeso, e v'amo sopra ogni cosa. Perdonatemi per amore di Gesu-Cristo e datemi il vostro amore. Datemi ancora un gran timore della mia ruina, se di nuovo vi offendessi. Luce, mio Dio, luce e forza. Tutto spero dalla vostra misericordia. Voi mi avete fatte tante grazie, quand'io andava lontano da Voi, molto più spero, or che a Voi ritorno risoluto di non amare altro che Voi. V'amo, mio Dio, mia vita, mio tutto.
Amo ancora Voi, Madre mia Maria; a Voi consegno l'anima mia; Voi preservatela colla vostra intercessione dal non tornare a cadere in disgrazia di Dio.
che nei mali gravissimi co' rimedi gravissimi curar si devono: Praestat in magnis morbis a magnis auxiliis, in maximis a maximis initium medendi (Cardin. Method. medendi, c. 16)». A s. Alfonso non era sconosciuto il Campadelli, come abbiamo indicato nella Cons. IV, p. 40. Cfr. Hippocratis lib. Aphorismorum (Interprete Iano Cornario), sectio In. VI; Basilea 1546, 517: «Ad extremos morbos exacte extremae curationes optimae sunt».