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S. Alfonso Maria de Liguori
Breve dissertazione...moderni increduli

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CAP. V. Dell'eternità del premio e della pena nella vita futura.

 

A ragione questa terra si chiama valle di lagrime, mentre ciascun uomo vi sta posto a patire: Homo natus (disse Giobbe 14. 1.) brevi vivens tempore, repletur multis miseriis. È vero che i malvagi sono i più infelici su questa terra, poiché oltre le pene esterne della vita umana, hanno il tormento interno della coscienza; ed essendo privi della divina grazia, son privi ancora d'ogni interno sollievo: dove all'incontro i buoni, quantunque nell'esterno sieno afflitti, nulladimeno nell'interno son consolati dalla grazia divina che godono. Ma non pertanto ben son tribulati da tante passioni e timori, che le pene molto avanzano la pace che godono. E dall'altra parte i viziosi non sono in questa vita puniti come meritano, anzi spesso vedonsi essi ne' beni esterni più prosperati che i giusti. Da ciò si scorge che questa terra è luogo solamente di merito, e v'è un'altra vita, dove Dio premia i suoi fedeli, e castiga i trasgressori delle sue leggi.

 

Ciò vienci confermato dalle divine scritture, che son piene di promesse e di minacce per la vita eterna; sicché nel fine de' secoli a' giusti sarà detto dall'eterno giudice: Venite benedicti, possidete regnum etc. Ed a' reprobi: Discedite a me maledicti in ignem aeternum1.

 

vale il dire (come dicon coloro che voglion liberare i reprobi dalla pena eterna) che il fuoco sarà eterno, ma non già la loro pena; poiché si risponde per prima che se questo fuoco è stato già creato da Dio, non per altro che per castigo de' malfattori, come dicono le scritture: Ignis succensus est in furore meo2: Si quis in me non manserit... colligent eum et in ignem mittent3: che serviva a crearlo eterno, se non avesse avuto ad essere un eterno strumento da castigare i peccatori? Si risponde per secondo, che se dal citato testo non abbiamo espresso che la pena sia eterna, l'abbiamo nonperò da molti altri testi. Eccoli: Et ibunt in supplicium aeternum, iusti autem in vitam aeternam4. (Sicché, conforme a' giusti è data in premio la vita eterna, così ai reprobi in pena il supplizio eterno). Qui poenas dabunt in interitu aeternas a facie Domini5. Vermis eorum non morietur6. Dabit enim ignem, et vermes in carnes eorum, ut urantur, et sentiant usque in sempiternum7. In stagno ignis et sulphuris cruciabuntur die ac nocte in saecula saeculorum8. Quaerent mortem et non invenient; desiderabunt mori et fugiet mors ab eis9. Ciò fu anche dichiarato dal sinodo V. sotto Vigilio papa, come riferiscono Evagrio, Niceforo, Teofane, Fozio ed altri appresso Tournely10, dove fu condannato Origene che disse: Omnium impiorum hominum, et etiam daemonum


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tormenta finem habitura. Lo stesso dichiarano il sinodo VI. act. 18. e VII. act. 1. E 'l lateranense IV. disse: Reprobos in poenam aeternam ituros. E lo stesso il tridentino1.

 

Ma quale giustizia è questa, dice un moderno incredulo, dar una pena eterna ad un peccato momentaneo? Rispondiamo che la divina giustizia ben esige questo castigo eterno per l'offesa fatta a Dio, per più ragioni evidenti. La prima, perché essendo ella un delitto di malizia in certo modo infinito (come dice san Tommaso2) a riguardo del disprezzo che si fa ad un Dio d'infinita maestà, se gli dovrebbe una pena infinita: ma perché la creatura non è capace d'una pena infinita nell'intenzione, giustamente se le una pena infinita nell'estensione. E dove mai, dice s. Agostino3 rispondendo direttamente all'opposizione de' contrarj, dove sta questa legge, che il tempo della pena abbia ad essere eguale al tempo del peccato? Anche le leggi umane danno castighi perpetui per tutta la vita a' delitti enormi.

 

La seconda ragione: Conforme l'anima è la vita del corpo, così la grazia è la vita dell'anima; e perciò il peccato grave si chiama mortale, perché priva l'anima della vita della grazia. Or siccome quando alcuno uccide l'uomo, la morte del corpo è irreparabile senza un miracolo della divina mano; così quando un peccatore uccide l'anima sua col peccato, è certamente irreparabile la morte dell'anima. È vero che in questa vita suole Iddio per sua misericordia col perdono restituir la vita della sua grazia a molte anime che l'han perduta; ma ciò lo fa solamente in questa vita, non già nell'altra, mentr'è legge stabilita dalla sua provvidenza usar misericordia nella vita presente temporale, e non già nell'eterna.

 

La terza ragione: Dio in questa vita perdona il peccatore, ma il peccatore che si pente della sua colpa; altrimenti neppure Dio potrebbe perdonarlo. Ma il peccatore morendo in peccato è abbandonato dalla grazia; anzi la sua volontà resta talmente ostinata nel peccato e nell'odio di Dio, che quantunque Dio volesse perdonarlo, egli rifiuterebbe il perdono e la sua grazia. Il dannato rifiuta ogni rimedio al suo male, e perciò è disperata la sua cura: Quare factus est dolor meus perpetuus, et plaga mea desperabilis renuit curari4? Sicché, essendo eterna l'anima (come si è provato di sopra), ed essendo eterno il suo delitto, eterna dev'essere anche la sua pena, come dice san Marco5: Non habebit remissionem aeternam, sed reus erit aeterni delicti.

 

Di più il peccatore da sé non può placare Dio, né il suo pentimento può dare degna soddisfazione alla divina giustizia offesa: intanto egli è perdonato da Dio in questa vita, in quanto se gli applicano i meriti di Gesù Cristo, di cui in questa vita è capace, e per cui la divina giustizia vien soddisfatta. Ma nell'inferno, dove nulla est redemptio, non può il dannato placare più Dio, perché non è più capace dell'applicazione de' meriti del Redentore; onde resta incapace di perdono.

 

Oppongono i Sociniani per primo che la parola aeternum non sempre significa eternità nelle divine scritture, ma spesso significa una lunga durazione, e lo provano da diversi testi. Si risponde che la parola aeternum di sua natura significa certamente senza fine; ed è regola certa dei teologi, che le divine scritture debbono interpretarsi nel suo senso proprio e naturale, sempreché le circostanze del sermone non obbligano ad altra interpretazione; il che non è nel nostro caso, ma dee concludersi tutto l'opposto da ciò che di sopra si è detto.

 

Oppongono per secondo il passo di san Paolo: Conclusit Deus omnia in incredulitate, ut omnium misereatur6. Onde vogliono ricavarne, che la pena dei dannati non sarà eterna. Ma spiega s. Agostino, intendersi il suddetto testo,


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non già dalla misericordia da usarsi a' dannati; ma che Iddio siccome ha usata misericordia a' gentili, così l'userà agli ebrei in chiamarli alla fede.

 

Oppongono per terzo che conviene bensì a Dio salvare gli uomini in eterno, mentre a questo fine gli ha creati: ma per la stessa ragione non conviene alla divina bontà il dannarli in eterno. Si risponde con san Tommaso1 che sebbene Dio ha creati gli uomini per l'eterna felicità, nondimeno ha voluto ch'eglino l'acquistassero, non solamente colla forza della sua grazia, ma ancora colla loro cooperazione. Quindi è che se gli uomini non vogliono cooperare alla loro salute, e si dannano, la colpa è tutta loro. Iddio poi giustamente permette i peccati, così per conservare il buon ordine dell'universo, come ancora affinché maggiormente risplenda la fedeltà de' giusti, conforme dice l'apostolo2: Oportet et haereses esse, ut et qui probati sunt, manifesti fiant in vobis.

 

Oppongono per quarto che questa pena eterna de' dannati consisterà non già nel patire eternamente, ma nell'essere annichilati da Dio, dopo qualche proporzionata pena temporale; e fondano questa falsità sulle scritture, dove si dice che i reprobi saran perduti e moriranno: Nullum est operimentum perditioni3. Vasa irae apta in interitum4. Queste voci (dicono) perditio, interitus significano consumazione e fine. Ma si risponde che lo stesso apostolo dichiara che intanto i reprobi si chiamano morti, in quanto son privati per sempre della vista di Dio, e condannati alle pene eterne: Poenas dabunt in interitu aeternas a facie Domini5.

 

Ma dice l'empio Bayle: Le pene si costituiscono per l'emenda de' rei, o pure per esempio degli altri; onde a che serve il tormentare in eterno i dannati, dopo che non vi sarà più speranza né della lor emenda, né dell'esempio per gli altri? Si risponde per primo che alcune pene son medicinali, altre vendicative in castigo della colpa. Per secondo che la suddetta regola corre ne' giudizj che fanno gli uomini, non già in quelli di Dio: il giudice umano nelle pene riguarda solo il bene della repubblica, e perciò nel castigare non altro intende che l'emenda de' rei o l'esempio degli altri; ma Dio in punire i dannati non solo riguarda l'emenda e l'esempio, ma principalmente intende la manifestazione de' suoi attributi; onde le pene eterne de' reprobi, quantunque nella fine de' secoli non saranno utili né per essi, né per gli altri, saranno bensì utili per far risplendere l'ordine della divina giustizia.

 

Oppongono per ultimo collo stesso Bayle: Ma come s'accorda colla bontà di Dio il permettere i peccati e la dannazione di tanti miserabili? O Dio non può impedire tanti mali, e non è onnipotente; o non vuole impedirli, ed è un crudele. Si risponde: Dio creò il primo uomo Adamo retto, col senso soggetto alla ragione, e colla ragione soggetta a Dio; ma lo creò libero, sì che potesse a suo arbitrio appigliarsi al bene o al male. Adamo si servì male di questa libertà col peccare e disubbidire a Dio: e con tal peccato tirò sopra di sé e de' suoi discendenti un'immensa rovina, poiché sin d'allora restò tutta disordinata la natura umana, l'intelletto ottenebrato, il senso contrario alla ragione e la ragione inclinata al male. Dio per la sua infinita bontà non lasciò di rimediare a questa disgrazia, e mandò il suo Figlio a soddisfare per i peccati degli uomini, e ad ottener loro per i meriti d'un tal Redentore le grazie per ben vivere e per salvarsi. E con ciò fece Dio conoscere così l'amore che portava all'uomo, come anche la sua infinita giustizia, condannando il suo figliuolo alla morte per le colpe degli uomini; ed insieme la sua infinita sapienza, trovando un modo sì ammirabile per rendere pienamente soddisfatta la sua giustizia, e pienamente rimediata la rovina dell'uomo,


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cagionatagli dal suo peccato.

 

Or dopo ciò come possono dire gl'increduli, che non si accorda colla bontà di Dio la permissione di tanti peccati, e della dannazione di tanti uomini? Ma come mai (rispondo) potea far Dio meglio conoscere agli uomini la bontà che ha per essi? Qual maggiore dimostrazione di misericordia e d'amore potea darci il Verbo eterno, che di venire in terra a farsi uomo come noi, e dopo una vitaumile e penosa morire per mano di carnefici, affin di salvarci? Che potea far più egli se avesse avuto a riscattar dalla morte il suo medesimo divin Padre? Anzi, se Gesù Cristo fosse stato un servo, e l'uomo fosse stato il suo signore, che più avrebbe potuto fare per dimostrargli il suo affetto, che dargli il sangue e la vita? O ingratitudine degli uomini, che dopo aver un Dio data la vita per loro amore, abbiano a trovarsi tra loro alcuni che neppure lo vogliano credere, e giungano a negare ancora che vi sia!

 

Ma come poi (dicono) con tutto ciò tanti infedeli, tanti eretici, e tanti anche de' cattolici si dannano? Rispondo: Bisogna intendere che i danni del peccato sono stati troppo grandi; poiché per lo peccato la mente dell'uomo è restata ottenebrata a conoscere le verità eterne, la volontà è rimasta disordinata ed infestata dal fomite dei sensi ribelli, che continuamente l'inclinano al male; onde ciascun deve usare gran diligenza per conoscere e distinguere le massime vere dalle false, così circa la fede, come circa i costumi: dev'egli poi sommamente attendere a servirsi de' mezzi che ci ha meritati e lasciati Gesù Cristo (quali sono principalmente i sacramenti e l'orazione) per viver bene; altrimenti l'uomo non può colle proprie forze resistere alle suggestioni della carne e del demonio. Ma gli uomini per non privarsi de' loro brutali e vietati piaceri, chiudono gli occhi alla luce, trascurano di avvalersi de' mezzi per salvarsi, e così peccano e si dannano: Lux venit in mundum, et dilexerunt homines magis tenebras, quam lucem1. Gl'infedeli chiudono gli occhi alla grazia ed al lume naturale della ragione, e perciò tanti restano privati per loro colpa del lume della fede. Gli eretici chiudono gli occhi al lume dell'evangelio e della vera chiesa, lasciataci da Gesù Cristo per colonna della verità. I peccatori per fine, benché cattolici, chiudono gli occhi alle regole della fede ed agli stimoli della grazia ed ecco come avviene che tanti se ne dannano. Ma con tutto che gli uomini sono così perversi, chi mai può comprendere le misericordie che continuamente usa il Signore? A quanti suoi servi ispira e il coraggio di andare con tanti incomodi e pericoli a predicare ed illuminare gl'infedeli e gli eretici? Quante misericordie usa co' peccatori? quanto tempo gli aspetta? quante volte li chiama a penitenza? e quante volte ricaduti li torna a perdonare? Non si è trovato, né si troverà certamente mai uomo più misericordioso cogli uomini, come Dio è con noi. Eh, se la misericordia di Dio non fosse infinita, chi mai si salverebbe? Chi mai può spiegare poi l'amore che porta Dio, e le grazie innumerabili che fa ad un'anima che l'ama! Cessino dunque gl'increduli almeno di negare (se non la vogliono amare) l'immensa bontà del nostro Dio.

 

Ma essi non lasciano di replicare che Dio potrebbe impedir se volesse i peccati e la dannazione di tanti; e perché non l'impedisce? Perché (si risponde) Dio non vuol togliere agli uomini la libertà che loro ha data. Se impedisse i peccati, potrebbonsi gl'increduli lamentare di Dio, che dopo averli fatti liberi a peccare, e soddisfarsi a loro arbitrio, poi voglia privarli della libertà loro già conceduta. Diranno: Ma senza toglier la libertà, non potrebbe Dio dar luce e grazia più abbondante a ciascuno, come l'ha data a tanti? Perché negare a Giuda la grazia data a s. Pietro? Perché negare al mal ladrone la grazia data al buono? Perché insomma le grazie


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efficaci che dona ad alcuni, non le dona a tutti? Ma è obbligato Dio (rispondiamo) di dare a tutti le grazie soprabbondanti che ad alcuni? Se son grazie, elle non son dovute, né Dio è tenuto a dispensarle. Basta a giustificare la divina bontà, che Dio doni a ciascuno gli aiuti sufficienti a potersi salvare se vuole. Ma perché più ad uno che ad un altro? Se un padre (dice l'empio Bayle) potesse liberar dalla morte tutti i suoi figli, non sarebbe egli un crudele se volesse salvarne alcuni ed altri no? Ma qual confusione d'idee porta seco questa somiglianza del Bayle! Vi è differenza tra la bontà creata e finita, e tra la increata ed infinita. La bontà creata è necessariamente dipendente; e perciò nel comunicarsi deve avere il suo motivo, che principalmente deve appoggiarsi nell'amor del Creatore, e nella gloria di lui, ch'è l'autore di tutti i beni. Or s'è così, un padre che vuole usar bontà a' suoi figli, potendo tutti liberar dalla morte, dee farlo; perché una tal bontà, essendo sommessa alla giustizia, questa gli detta che voglia per tutti egualmente la fuga di quel male, che vuol per ciascheduno di essi: e Dio vuole che sia in tal modo giusto un padre nell'amare. Ma per l'opposto la bontà infinita è indipendente necessariamente ed in sé medesima trova le ragioni tutte da comunicarsi. La giustizia non le prescrive niente nella dispensa de' suoi benefizj: dappoiché niente è dovuto al niente. Or prima che la bontà infinita si fosse comunicata agli uomini, non si concepiva niente fuori di lei, essendo ella la causa universale. Le intelligenze, e tutti i gradi delle perfezioni suppongono questa causa, ma questa causa non ha che supporre, essendo da sé. Chi dunque vuol paragonare la bontà di Dio con quella dell'uomo, non sa che dirsi; mentre se vi ha qualche rapporto tra l'una e l'altra, egli è che siccome la bontà di Dio fa bene, così l'uomo per imitarla dee far bene; ma qui sta la differenza, che l'uomo dee far bene per la gloria di Dio, e seguendo l'ordine che gli ha prescritto: ma la bontà di Dio non è obbligata di comunicarsi fuori di sé; e se lo fa, lo fa perché vuole ed in quella misura che vuole: ed in giudicarla altrimenti, è renderla imperfetta. Il padre dunque è obbligato per legge divina a salvare la vita di tutti i suoi figli, quando può; ma Dio non è soggetto ad alcuna legge, né per altro è tenuto di usar la stessa misericordia con tutti: l'usa quando più conviene alla sua gloria, secondo gl'inscrutabili giudizj della sua infinita sapienza: chi sarà così temerario, che voglia cercar ragione a Dio de' suoi giudizj?

 

Ma se mai lice di entrare in questi imperscrutabili giudizj di Dio, mi risponda l'empio: qual è mai l'idea di un essere infinitamente potente? Ella è per appunto quella di concepire un essere che può donar l'esistenza a chi non l'ha. Or se una tale idea ben conceputa di una potenza che può tutto ciò fare, senza esser limitata, non esige ch'ella faccia tutto ciò che può fare, bastando che si dimostri tutta intiera nel menomo de' suoi effetti; così l'idea di una bontà infinita non esige ch'ella faccia tutto il ben che può fare; essendoché ella si dimostra infinita anche nei menomi de' suoi doni. Spieghiamo più chiaramente una tal somiglianza. Può mai la creazione di nuove creature aggiunger niente all'idea che noi abbiamo della potenza infinita di Dio? Certamente che no. Or dunque il dono che farebbe Iddio ad un uomo di un amor costante verso la virtù non aggiungerebbe niente all'idea che noi abbiamo della sua bontà infinita. Noi la concepiamo infinita indipendentemente da questo dono, come concepiamo infinita la sua potenza indipendentemente dalla produzione di altre nuove creature. Finalmente l'idea della bontà di Dio non ricerca che abbia a conservar nell'uomo un amor dominante del retto ordine della virtù; come l'idea della sua potenza non esige, che abbia a conservar l'esistenza delle sue creature. L'idea di una bontà infinita non esige altro che si comunichi ella, perché


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vuole, e tanto quanto vuole: come l'idea d'una potenza infinita esige solo che operi ella solamente, perché vuole, ed in quella misura che vuole: egli è dunque chiaro che Dio non è obbligato per la sua bontà di prevenir l'abuso che l'uomo farebbe del suo libero arbitrio.

 

Oltreché in quanto alla permission del peccato, come di sopra si è già accennato, ancora noi ben possiamo conoscere quanto ella sia giusta; poiché Dio col permettere i peccati, manifesta i suoi attributi, cioè la sua misericordia con perdonare, e la sua giustizia con castigare l'incorrispondenza alla sua grazia. Senza permettere la guerra della concupiscenza ribelle, non risulterebbe la vittoria di tanti fedeli. Senza permettere i malvagi, non risplenderebbero le virtù de' buoni, la loro pazienza, la mansuetudine, la carità: Deus (dice s. Agostino) cum summe bonus sit, nullo modo sineret mali aliquid esse in operibus suis, nisi usque adeo esset omnipotents et bonus, ut bene faceret et de malo1. Dio dunque permette il male de' peccati, per ricavarne il bene della sua gloria, e per così conservare il buon ordine dell'universo.

 

Che poi il Signore, essendovi molti rei, usi con alcuni quella misericordia che nega ad altri, questo è mistero della divina sapienza che noi non possiamo conoscere, né dobbiamo pretendere di conoscerlo. I misteri divini dobbiamo adorarli, non già intenderli. Sappiamo che Dio è perfettamente retto, ciò dee bastarci per venerare tutti i suoi divini giudizj. In tutte le scienze umane vi sono i principj certi e le difficoltà intricate; e non perché alle volte noi non sapremo sciogliere alcune difficoltà, perciò potremo negare la scienza o i suoi principj. E poi nelle disposizioni della divina provvidenza, fatte da una mente infinita, perché non sappiamo noi conoscer la ragione di alcuni avvenimenti, perciò potremo negare i principj con evidenza già conosciuti, cioè l'esistenza di Dio, la religion rivelata, l'immortalità dell'anima e l'eternità del premio e del castigo nell'altra vita?

 

Se Dio non può comprendersi, perché è infinito, neppure può comprendersi la sua infinita sapienza e rettitudine; e per conseguenza non possono comprendersi i suoi consigli intorno al governo dell'universo. Se un ignorante (dice s. Agostino) entrasse in una bottega in cui si lavorano i ferri, questi certamente non avrebbe ardire di riprendere il fabbro che inutilmente tenga quei martelli, quelle incudini e quei mantici. Ed un uomo ardirà di cercar ragione a Dio delle sue eterne disposizioni? Sicché, concludiamo questo punto in una parola: Dio da una parte odia e vieta il peccato; dall'altra vuole che tutti gli uomini si salvino, e perciò a ciascuno i mezzi e gli aiuti della sua grazia, con cui possa fuggire i peccati e salvarsi; ma all'incontro lascia gli uomini nella libertà di peccare e dannarsi, se vogliono. Posto ciò, ognun vede che coloro i quali si dannano, si dannano perché voglion dannarsi; e se voglion dannarsi, è giusto che sian puniti; ma tutto avviene per colpa loro, non di Dio.

 

Ma oh Dio che cecità! Ancorché gl'increduli avesser ragioni probabili per le loro opinioni, che non vi sia Dio, che l'anima muore col corpo, che ciascun può salvarsi in qualunque religione, e che l'inferno non sia eterno: queste loro opinioni non sarebbero più che dubbie, mentreché se essi negano la verità della nostra fede, perché (come dicono) non sono queste per essi evidenti, non potranno però certamente mai credere che la nostra fede sia evidentemente falsa. All'incontro non può negarsi che la nostra religion cristiana, sì per l'autorità di tanti dotti che spogliati dalle passioni del senso l'hanno abbracciata, come per le ragioni che le assistono, almeno (diciam così) almeno sia probabile e verisimile. Gli stessi miscredenti, per quanto cerchino di persuadersi il contrario, non possono liberarsi dai timori da cui son


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tormentati, vivendo nella loro incredulità: specialmente in quel tempo nel quale le loro menti si trovano meno ottenebrate dalle passioni e dal fomite brutale dei sensi.

 

Or supposte anche per dubbie le verità della nostra fede, ogni ragione e prudenza vorrebbe che ci attenessimo alla loro credenza. Non sarebbe certamente matto quel mercante, che per guadagnare uno scudo volesse porsi a pericolo di perdere tutto il suo patrimonio? Non matto quel re, che per acquistare un villaggio, volesse arrischiare tutto il suo regno? E non si stimerà poi una pazzia, il volere abbracciare una credenza, com'è quella degl'increduli, la quale, se è vera, poco o niente frutterà? ed all'incontro, se è falsa, apporterà una rovina eterna? Vorrei pur dimandare a taluno di costoro, i quali per vivere a loro capriccio mettono in dubbio ogni cosa, con dire che le verità della nostra religione non son certe: ditemi (vorrei dirgli) arrischiereste voi la vita, facendo scommesse sulla verità delle vostre opinioni? no. E volete poi arrischiarvi la vita eterna? Non vedete che l'abbracciare alla cieca ciò che piace, senza far conto di legge e di ragione, non è viver da uomo ragionevole, ma da bruto? La religione non dee modellarsi secondo le passioni, ma secondo la ragione. I misterj della nostra fede, se non sono a noi evidenti, son nondimeno evidentemente credibili. Le verità speculative circa la religione, che debbono credersi dall'intelletto, non possono provarsi colle dimostrazioni fisiche e geometriche, ma colle ragioni che persuadono la mente.

 

Ma dirà costui: è regola che non si lasci il certo per l'incerto. Per prima, io rispondo, questa non può essere regola generale per ogni specie di cose; altrimenti niuno dovrebbe far più mercanzie affin di far guadagno, niuno spender più fatiche e danari per istudiare affin di avanzarsi e far fortuna, perché il guadagno e la fortuna è incerta; tanto più se alcuno fosse nel caso, che se non guadagna, abbia a perdere il tutto, com'è nel caso nostro, dove non solo si tratta di acquistare un regno eterno di contenti vivendo bene, ma di cadere in un'eterna miseria vivendo male. Per secondo, i piaceri son anche incerti. Chi n'accerta che avremo il modo di conseguirli? Chi ne darà certamente la sanità necessaria per goderli, specialmente se con disordine saran presi tali diletti, poiché questi necessariamente guastano la sanità? Chi almeno ne assicura che avremo vita e tempo di goderli, quando la vita è così incerta? Or se il tutto è incerto, non sarebbe pazzo colui che per la speranza di ottenere uno scudo incerto, volesse rinunziare alla speranza di un milione? E non sarà pazzo quegli che per la speranza di prendersi pochi e brevi piaceri avvelenati (poiché ogni piacere peccaminoso più affligge che contenta, per lo veleno del rimorso e del timore che seco apporta il peccato) vorrà privarsi della speranza di un bene eterno, col pericolo anche di incorrere un eterno male? Se vi fossero due anime, potrebbe arrischiarne una (e pure sarebbe imprudenza); ma essendo una sola, se questa perisce, la sua ruina sarà eterna ed irreparabile. E perciò, quantunque la nostra fede fosse incerta, pure vorrebbe ogni ragione che ciascuno lasciasse i pochi e brevi beni che può godere in questa terra, per guadagnarsi una felicità immensa ed eterna, e per liberarsi dal pericolo d'incorrere un'eterna miseria.

 

Oltreché, anche a riguardo della vita presente, parlando in verità, i veri piaceri son quelli che son permessi: mentre eglino son puri ed innocenti, e liberi dal pentimento, dal rimorso e dal timore, da' quali non possono disbrigarsi i dissoluti. E facciano quanto vogliono per persuadersi che sieno false le verità eterne, poiché i suddetti funesti effetti del peccato non derivano già dal pregiudizio dell'educazione, come sognano i miscredenti, ma vengono impressi dalla stessa natura. Altrimenti, perché l'incredulo ha da temere,


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se crede di non esser reo? Perché la virtù si pratica arditamente ed alla svelata, e 'l vizio con paura e con rossore? All'incontro chi ben crede e vive bene, vive in pace e non teme, perché è libero dai peccati. Si aggiunga che le virtù, come la castità, la giustizia, la temperanza, son qualità che mantengono l'animo tranquillo, e traggono rispetto anche dai viziosi. I filosofi antichi anteponevano a tutti i piaceri di senso le virtù, bench'elle non fossero in essi che apparenze di virtù, essendo tutte effetti d'una ambizione della propria gloria. Eh, che i diletti dell'animo superano di gran lunga quelli del senso! Queste son tutte prove, che il bene ed il male non consistono nella sola apprensione degli uomini, ma veramente vi sono: perché vi sta un Dio d'infinita bontà, che ha impresso nella natura l'amore della virtù e l'orrore al vizio. Ma perché (dicono gl'increduli) quelle verità che a voi son chiare, a noi son nascoste? Perché (rispondo) i vizj oscurano la mente. L'occhio vede, ma se è coperto da una benda non vede più, per quanto grande sia la luce che risplenda. Chi lascia i vizj non ha difficoltà a ben credere; ma non può mai credere bene, chi vuole mal vivere. Chi mal vive, si fa suo interesse il non credere, per peccare senza rimorso, e così fa regolarsi dall'interesse, non dalla ragione. Non v'è stato mai chi abbia negato Dio e le sue verità, prima di offenderlo. Il pensiero de' castighi dei peccati impedisce il godere liberamente i piaceri vietati della vita presente; ond'è che chi vive nei vizj, facilmente brama che non vi sia castigo per chi mal vive; e dal bramare che non vi sia, facilmente passa a credere che non vi sia, o almeno a porlo in dubbio, per peccare con meno rimorso. Colui che s'induce a dubitare dell'ultimo articolo del simbolo, credo vitam aeternam, sta vicino a dubitare anche del primo, credo in Deum. Se non fossero altro che probabili o dubbie le verità della nostra fede, l'esistenza di un Dio rimuneratore, la morte del corpo, l'immortalità dell'anima, l'eternità delle pene: pure dovremmo attenerci senza meno alla religione più sicura, perché si tratta di salute eterna, in cui se si erra, e s'è vero ciocché la religione cristiana insegna, non vi sarà in eterno più rimedio all'errore. Ma no, che queste verità non sono dubbie, ma certe ed evidenti; poiché sebbene i misteri della nostra religione non sono a noi evidenti, ma oscuri, mentre in ciò consiste il merito della fede, in credere quel che noi non comprendiamo; nondimeno è evidente che questa è la vera fede, e che son certe le cose che ella ci propone a credere. Questi miserabili miscredenti, che nel tempo della loro vita dissoluta pongono tutto in dubbio ed in questione, per isbrigarsi dai rimorsi della coscienza e dai timori del castigo, e certamente in punto di morte vorranno aver creduto ed esser vivuti da veri cristiani: ma avverrà loro quel che avvenne ad un certo incredulo (come narra il Nieuwentyt) che giunto a morte pronunziò queste orribili parole: Io credo finalmente tutto ciò che prima ho negato, ma è troppo tardi il potere sperare la grazia di ravvedermi. E così morì.




1 Matth. c. 25.

2 Ier. 15. 14.

3 Io. c. 15.

4 Matth. c. 25.

5 2. Thess. c. 1.

6 Isai. 66. 24.

7 Iudit. 16. 21.

8 Apocal. c. 20.

9 Eod. Apoc. c. 9. v. 6.

10 Praelect. theol. t. 2. p. mihi 125.

1 Sess. 6. c. 25. sess. 14. c. 5.

2 Opusc. 3. c. 83.

3 L. 21. de civit. c. 11.

4 Ier. 15. 18.

5 C. 3.

6 Rom. 11. 32.

1 L. 3. contra gentes c. 55.

2 1. Cor. 11.

3 Iob. 26. 6.

4 Rom. 9. 22.

5 2. Tess. c. 1.

1 Io. 9.

1 In Enchir. ad Laurent. n. 3. alias c. 11.




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