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Sant'Alfonso Maria de Liguori
Confessore diretto…campagna

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CAPO XI Dell'ottavo precetto.

 

PUNTO UNICO. Del giudizio temerario, della contumelia, e della detrazione.

 

1. Il giudizio temerario allora è peccato mortale, quando senza bastante fondamento si giudica che 'l prossimo abbia commesso qualche colpa grave. Ond'è che tali giudizi difficilmente giungono ad esser mortali, mentre per lo più o il fondamento si giudica sufficiente, oppure questi giudizi non sono giudizi, ma sospetti, i quali (benché temerari) ordinariamente sono scusati da colpa grave, se non fossero di scelleraggini enormi, come di eresie, parricidii, e simili10.


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2. La contumelia è, quando si offende l'onore del prossimo con atti o con parole in sua presenza. Se la contumelia è stata pubblica, pubblicamente l'offensore dee restituire l'onore con cercargli perdono, o almeno onorandolo con segni speciali; se poi è stata segreta, anche in segreto dee dargli soddisfazione, eccetto che se presumesse che l'offeso non richiede tal soddisfazione, oppure se v'è pericolo di rinnovargli l'odio col cercargli perdono1.

 

3. Aprire e leggere le lettere d'altri anche è contumelia, grave o leggiera, secondo la materia che può esservi scritta; e ciò quantunque la lettera fosse lacerata. Se n'eccettua solamente il caso, in cui si presumesse il consenso o di colui che manda la lettera, o di colui al quale è mandata. A' principi non però ed a' ministri pubblici, come anche a' superiori ecclesiastici è lecito aprir le lettere per giuste cause; ed anche talvolta a' privati, quando eglino fossero calunniati, e con aprir le lettere potessero riparare al loro danno2.

 

4. La detrazione poi allora è vera detrazione illecita, quando si pubblica un delitto falso del prossimo, oppure un suo peccato vero, ma occulto, che non è tra breve per farsi pubblico. All'incontro non è detrazione illecita, né può dirsi detrazione, quando si manifesta qualche peccato del prossimo, non già per infamarlo, ma per correggerlo, o per evitare il danno proprio o alieno, come insegna s. Tommaso: Si verba, per quae fama alterius diminuitur, proferet quis propter aliquod bonum necessarium, non est peccatum, neque potest dici detractio3. Non è però mai lecito l'opporre un delitto falso per liberarsi da qualche calunnia, secondo la prop. 44. dannata da Inn. XI.4. Qui poi si fa la questione, se taluno per evitare un grave danno possa manifestare un delitto occulto d'un altro, ma saputo ingiustamente per frode o per violenza: vedi Istruz. c. 11. n. 8. E vedi n. 9., dove si tratta del segreto che siam tenuti ad osservare, sempre che non v'è pericolo di grave danno proprio o del prossimo.

 

5. È lecito palesare il peccato altrui, quando ciò è necessario per prender consiglio, o ricever sollievo in qualche grande ingiuria ricevuta. E molti dd. scusano, almeno da peccato grave, il palesarlo ad una o due persone prudenti; così Gaetano, Navar., Bonac., Lessio, ed altri; perché questa non sembra vera infamazione, come si ricava da quel che dice s. Tommaso: Si ex incautela alicui dixerit hoc (cioè il peccato altrui) ita tamen quod non proveniat inde infamia delinquenti, tunc non peccat mortaliter5.

 

6. È probabile con Navarro, Gaetano, Lugo, La-Croix, Salmat. ecc., che non sia colpa grave il palesare in un luogo il delitto, che già è pubblico in altro. All'incontro è grave il pubblicare un peccato altrui, ch'è stato pubblico un tempo, ma ora è occulto; eccetto che se 'l delitto fosse stato già pubblicato in giudizio per sentenza del giudice, o per confessione del reo6.

 

7. Chi narra solamente un peccato altrui ch'è segreto, ma lo narra come detto da gente di poca fede, pecca solo venialmente7. Pecca poi gravemente chi infamasse un religioso di qualche monasterio, o di qualche ordine, benché non nominasse la persona: se n'eccettua solo col p. Concina, se si nominasse qualche ordine molto numeroso8. Chi ascolta poi la mormorazione, e non l'impedisce, dice s. Tommaso9, che non pecca gravemente, se non quando sapesse certo, che l'impedirebbe con correggere il detrattore. I superiori però sono certamente obbligati a correggere i sudditi che mormorano. Ma parlando degli altri, basta che, udendo mormorare, o si partano dalla conversazione, o cerchino di mutar discorso, o almeno ne dimostrino dispiacenza con voltar la faccia, bassare gli occhi, o con altri simili atti10.

 

8. L'ingiusto detrattore non solo è tenuto a restituire la fama, ma anche il danno apportato, e non solo quando il delitto apposto è falso, ma anche quando è vero, ma occulto. Quando è falso, dee disdirsi espressamente avanti tutti coloro a cui l'ha detto; quando poi è vero, non può dire che non è vero, perché direbbe la bugia: allora potrà dire in uno di questi modi: Ho fatto errore: ho preso abbaglio: me l'ho cacciato da capo. Se poi la mormorazione


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si stimasse dimenticata, allora sarà meglio lodare il diffamato, come meglio si può, senza rinnovar la memoria della detrazione fatta. Può esser anche scusato il detrattore dalla restituzione della fama: 1. se il delitto per altra via è fatto pubblico: 2. se si presume che 'l diffamato rimetta la restituzione: 3. se nel far la restituzione vi fosse pericolo della vita: 4. se si giudica che la detrazione non è stata creduta: 5. se 'l diffamato egli ancora ha tolta a te la fama, perché allora puoi sospendere di restituirgli la fama sua, finch'egli non ti restituisca la tua1. Circa poi la questione, se il detrattore, quando non può restituir la fama, debba compensarla con danaro, la sentenza più comune lo nega. All'incontro è certo che l'infamato non può compensarsi con danaro la fama toltagli, perché la compensazione non può farsi, se non quando certamente quel danaro gli è dovuto2. Quali pene vi sieno poi contro coloro che fanno libelli famosi, vedi Istr.3.

 




10 C. 11. n. 1. 2.



1 Istruz. c. 11. n. 3. 4.

 



2 N. 6. 7.

 



3 2. 2. q. 73. a. 2.

 



4 Istr. c. 11. n. 7. 10.

 



5 Quodl. 11. a. 13. ad 3. - Istr. c. 11. n. 11.

 



6 N. 12. e 13.

 



7 N. 15.

 



8 N. 16.

 



9 1. 2. q. 3. a. 4.

 



10 Istr. c. 11. n. 17.



1 Iscr. c. 11. n. 18. 19.

 



2 N. 21. 22.

 



3 N. 22.

 






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