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Sant'Alfonso Maria de Liguori
De Christi Praedestinatione Dissertatio

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Introduzione

Predestinazione di nostro Signore Gesù Cristo

 

In questa trattazione si cerca di sapere se Cristo fu predestinato indipendentemente dal peccato di Adamo e inoltre, supposta tale dipendenza, quale posto occupa il divin Redentore nei decreti di Dio; in altre parole si discute su quale fosse nella mente divina il nesso e l'ordine dell'Incarnazione e della Redenzione nelle altre opere di Dio.

Poiché però tale questione in entrambi le parti ben poco viene trattata dai teologi del nostro tempo, vale la pena a premettere alcune parole sullo stato della questione.

Nessun teologo nega che Dio abbia potuto predestinare Cristo per un motivo diverso da quello di riparare il peccato di Adamo, ovvero che abbia voluto l'Incarnazione del Verbo sia per la perfezione dell'universo, sia per manifestare la sua somma bontà, o per altri simili motivi. "Se non ci fosse stato il peccato - dice S. Tommaso - , non ci sarebbe stata l'Incarnazione. La potenza di Dio però non è limitata: anche se non ci fosse stato il peccato Dio poteva benissimo incarnarsi" (1).

Essi però disputano se de factu, ossia secondo la attuale provvidenza, Cristo fu predestinato o no indipendentemente dal peccato di Adamo; di modo che, anche nel caso che Adamo non avesse peccato, l'Incarnazione sarebbe stata ugualmente decretata.

San Tommaso, come è ben noto e come consta dalle parole sopra citate, insieme ai discepoli difende la sentenza negativa, mentre S. Bonaventura con piena convinzione preferisce l'altra sentenza (2). Duns Scoto invece (in 3, dist. 7, qu. 3, et dist. 19, qu. unica) dopo Alessandro Alense (pars 3, qu. 2, membr. 13) difende la sentenza contraria, alla quale, tranne la sua scuola, aderiscono anche vari insigni autori.

S. Alfonso nella sua dissertazione abbraccia e difende la sentenza di S. Tommaso e di S. Bonaventura.

Ma, come ho fatto già notare, la questione della predestinazione di Cristo non è stata ancora risolta. Infatti tra i discepoli di S. Tommaso, che ammettono la dipendenza dell'Incarnazione dal peccato di Adamo, ci si chiede ulteriormente quale il posto occupi nei divini decreti il Redentore del genere umano; se fu predestinato prima o dopo il peccato; in altre parole cercano di investigare in quale ordine Dio, fin dalle eternità, dispose tra di loro e collegò le sue opere ad extra, e dove in questa divina disposizione, bisogna collocare la redenzione del mondo.

Essi risolvono la questione in due modi. Alcuni dicono che Cristo in quanto Redentore fu il primo intento voluto da Dio, come fine di tutte le opere divine ad extra. Quindi, secondo il pensiero di questi autori, Dio volendo manifestare le sue perfezioni con la creazione, nel primo segno della ragione (= decreto) concepisce e vuole il divino Redentore quale scopo di tutte le sue opere (3). Nel secondo segno, in vista del Redentore decretò la creazione del mondo, degli angeli e degli uomini. Nel terzo segno, di conseguenza (altrimenti il Redentore non avrebbe motivo di esistere) la sottrazione della grazia e la permissione del peccato. Nel quarto, infine, il rimedio al peccato ad opera del Redentore.

In questa opinione, come dicono i Salmaticesi, bisogna ritenere che Dio decretò Cristo non solo secondo la sostanza, ma anche secondo la circostanza della carne passibile ed in ragione di Redentore del peccato di Adamo; e contemporaneamente con lo stesso atto volle la permissione del predetto peccato e la redenzione del genere umano per mezzo di Cristo. Così, tra i vari obiettivi, tra loro non commessi, decretò questa mutua dipendenza nel diverso genere di causa e determinò che Cristo fosse il fine "cujus gratia" (per mezzo del quale) della permissione passiva del peccato e della Redenzione del genere umano, e di tutte le opere divine appartenenti sia all'ordine della natura che della grazia: e perché il peccato fosse la materia "circa quam" (verso la quale) della redenzione e il genere umano fosse il fine "cui" (per il quale). Pertanto nel genere della causa finale "cujus gratia", volle e vide Cristo prima di ogni altra cosa, mentre nel genere della causa materiale e della causa finale "cui", prima volle e vide la permissione del peccato, il suo rimedio e tutte le altre cose pertinenti a tale scopo, e poi Cristo: quel "prima" però non indica l'ordine degli atti divini, i quali per ciò che ci riguarda adesso, non se ne suppongono molti, ma cade sugli obiettivi voluti con la mutua dipendenza nel diverso genere della causa (4).

Così la pensano Cabrera in 3, qu. 1, art. 3, disp. 1, § 20 et § 24; Philipp. a S. Trin. in 3, disp. 1, dub. 6; Gabriel a S. Vincentio in 3, disp. 1, dub. 19; Nazarius in 3, qu. 1, art. 3, concl. 2; Godoy, de Incarn., 1. qu. 1, tract. 1, disp. 8, § 6; Salmantic., de Incarn., disp. 2, dub. 1, § 5, n. 26; Gonet, Clyp. de Incarn., disp. 5, art. 1, § 6; Sylvius in 3, qu. 1, art. 2, ed altri.

La maggior parte dei dotti, però, rigetta tale sentenza e insegna che il decreto dell'Incarnazione precedette sicuramente la permissione e la previsione del peccato dei progenitori, e quindi nell'ordine della intenzione di Dio il Cristo Redentore non può essere l'oggetto primario e il fine di tutte le altre cose, compresa la permissione del peccato; ma Questi (Cristo), chiaramente previsto dopo il peccato, fu predestinato a rimedio di esso. Cosicché i decreti della ragione nella preordinazione della mente divina vengono disposti in questo modo: Dio decide di manifestare le sue perfezioni divine mediante la creazione; stabilisce di elevare le creature ragionevoli allo ordine soprannaturale; prevede di peccato dell'uomo; decreta l'Incarnazione del Verbo per la riparazione del peccato; avvenuta l'Incarnazione del Verbo, Dio, per questa sua suprema dignità, gli sottomettere ogni cosa e lo costituisce capo degli angeli, degli uomini e di ogni altra creatura dell'universo.

Così la pensano Cajetanus in 3, qu. 1, art. 3; Joan. a S. Thoma in 3, qu. 1, art. 3, concl. 2; Alvarez in 3, qu. 1, art. 3, disp. 9, n. 10; Ferrariensis in 4 contr. Gentes, cap. 55 circa fin.; Medina in 3, qu. 1, art. 3, concl. 4 (5); Maeratius, de Incarn., disp. 9, sect. 5, n. 5-7; de Arriaga, de Incarn. tract. 2, disp. 15, sect. 5; Gotti, de Incarn., qu. 4, dub. 4 § 2, n. 29; Estius in 3 lib. Sent., dist. 1, § 2; Toletus in 3, qu. 1 art. 3; De Salazar, Pro immac. Deip. Virg. concept. Defens, cap. 17, § 3 et cap. 24, §2; Contenson, lib. 9, diss. 2, cap. 2, specul. 1; Gazzaniga, de Incarn., sect. 2, diss. 1, cap. 3,n. 77; Billuart, de Incarn., diss. 3, art. 3; Caspensis, de Incarn., disp. 1, sect. 9, n. 158; Thomassinus, Dogm. Theol. de Incarn. Verbi, lib. 2, cap. 5 et seq.; Becanus, de Incarn., cap. 1, qu. 8; Vasquez in 3, qu. 1, art. 3, disp. 11, cap. 6; Lessius in 3, qu.1, art. 3, dubium; Tournely, de Incarn., qu. 6, aart. 1, in obj.; Panzuti, lib. 5, de Incarn., tract. 4, cap. 4.

I Salmaticesi, benché preferiscono l'altra sentenza, tuttavia ritengono probabile questa, anzi la lodano dicendo: "Questo mondo di dire è molto probabile, sia per i motivi cui si appoggia, sia per l'autorità dei maestri che la difendono. Due soprattutto sono le cose lodevoli: la prima, perché si oppone direttamente alla sentenza di Scoto sia nelle affermazioni che nei principi; la seconda, perché espone con grande proprietà e sincerità le citazioni della Scrittura e dei Padri" (6).

Questa sentenza che è la più comune e vera di S. Tommaso (7), la segue e la difende anche S. Alfonso nella sua disputa. Il santo Dottore insegna che Cristo, anche come Redentore del genere umano, fu predestinato dopo e a causa della previsione del peccato e impugna l'opinione sia della predestinazione del Verbo Incarnato prima della previsione del peccato e indipendentemente da esso, sia della predestinazione del Redentore prima della previsione della caduta, ma in ordine e dipendenza da essa.

Ora mi piace descrivere con poche parole questa dottrina e confrontarla seriamente, in entrambe le posizioni, con le altre opere di S. Alfonso.

Per quanto riguarda l'opinione che afferma la predestinazione di Cristo come Redentore prima di ogni altra opera di Dio, essa contrasta in ogni sua parte con la dottrina del santo Dottore. Da qui segue chiaramente che Dio può sottrarre all'uomo, anche senza sua colpa, la grazia con cui evitare il peccato. Difatti se, avendo Dio concepito le opere ad extra, Cristo come Redentore fu inteso e voluto prima di ogni cosa, necessariamente se ne deve concludere (come del resto ammettono di stessi difensori di tale opinione) che Dio, in vista di lui, decide di negare all'uomo l'aiuto per evitare il peccato. Sicché Dio, per motivi del tutto indipendenti dall'uomo (in vista di Cristo Redentore), gli sottrarre l'aiuto della grazia, affinché cada nella grande miseria del peccato. In verità S. Alfonso, come ben si sa, non cessa di dimostrare, e in ogni occasione lo difende instancabilmente, che Dio elargisce indubbiamente ad ogni uomo le grazie con cui possa realmente conseguire la salvezza, e a nessuno, se non per propria colpa, fa mancare la grazia per poter evitare il peccato e osservare la legge divina.

L'altro punto della dottrina, che si oppone alla sentenza di Scoto, non meno frequentemente ricorrere sia nelle opere dogmatiche che in quelle ascetiche.

A volte, infatti, asserisce che Dio manifesta il suo immenso amore e la sua somma benevolenza verso gli uomini non con la sola redenzione ma con la stessa incarnazione, mediante la sua unione ipostatica con la natura umana (cf. Discorso I per la nov. di Natale; Dissert, Theol. Mor. Diss. VIII § 6, n. 34; Sermone nella festa di Maria Annunz., 1 et 2 punt.; Serm. compend., Serm. 29, punt. 2; Apparecchio alla morte, Consider. 33, dell’amore di Dio, punt. 2; cet.); a volte, esponendo l'ordine della divina provvidenza nel governo del mondo, colloca l'incarnazione dopo il peccato di Adamo (Condotta ammir. della div. Prov., Ristretto dell’opera, n. 3 et parte 2, cap. 5, n. 2); a volte diffusamente afferma che il Figlio di Dio non si rivestì della natura umana se non per redimere il mondo (De divinae Revelationis veritate considerationes, c. 2, n. 42); a volte infine, che il motivo esclusivo dell'incarnazione fu il peccato dell'uomo (La vera Sposa, c. 22, § 1, n. 6). Ma fra tutte le citazioni il passo più chiaro forse si trova nella suo aureo libro, Le glorie di Maria (8).

Quivi, nella prima parte (cap. 6 § 2) il santo Dottore con Guglielmo di Parigi così si rivolge alla Beata Vergine Maria: "Tutto ciò che possiedi di grazia e di gloria, anzi la stessa dignità di Madre di Dio (se così si può dire), la devi ai peccatori, giacché per causa loro il Verbo divino ti fece sua madre".

E la stessa cosa ripete nel § 3. qui, con le medesime parole di S. Anselmo, ripete:

"So che Maria che è stata fatta Madre di Dio più per i peccatori che per i giusti. Dice infatti lo stesso suo Figlio che egli era venuto a chiamare non i giusti, ma i peccatori. E per questo canta la santa Chiesa: Non aborrisci i peccatori, - senza i quali non saresti stata fatta degna di tal Figlio.

Qui Guglielmo di Parigi, rivolgendosi a Lei con affetto, dice: "O Maria, tu sei obbligata a venire in aiuto dei peccatori, giacché tutti i doni, grazie e grandezze che hai ricevuto (per la tua sublime dignità di Madre di Dio), tutti, se così si può dire, li devi ai peccatori; perché per loro fosti fatta degna di avere un Dio come figlio. Tutto ciò che possiedi, lo devi ai peccatori, giacché ogni cosa ti è stata donata per essi".

Per tale motivo giustamente Ilario di Parigi nel suo qualificato opuscolo "Cur Deus homo", dove con l'aiuto dei Padri, dei dotti e dei teologi, indaga sul motivo dell'incarnazione, non dubita del pensiero percepito da S. Alfonso su tale questione e dice: "Finalmente S. Alfonso de Liguori, il più recente maestro tra i santi, certamente per la sua conoscenza della antichità, e scrittore esimio per la sapiente scelta delle opinioni, aderisce alla sentenza degli antichi in quel libro noto a tutti i fedeli devoti, chiamato Le Glorie di Maria, dove riporta quelle parole della liturgia: "Peccatores non abhorres, - sine quibus numquam fores, - tanto digna Filio" (Non aborrisci i peccatori, - senza i quali non saresti stata fatta - degna di dal Figlio).

Dunque S. Alfonso insieme a S. Tommaso da Villanova, S. Lorenzo Giustiniani, S. Bernardino, S. Tommaso, S. Bonaventura, S. Antonio, S. Guglielmo di Parigi, e con Pietro Cellense, Eadmero e lo stesso Ruperto, aggiunge un illustre sostegno alla testimonianza dei santi Padri (9).

La stessa cosa riferiscono gli Acta Doctoratus. Espressi i principi generali, ai quali si appoggia S. Alfonso, scelte le sentenze che riguardano la Beata Vergine Maria, così proseguono: chiarite queste sentenze, S. Alfonso in modo lucidissimo afferma l'eterna predestinazione di Maria nei divini decreti e la sua primogenitura: "O che sia primogenita in quanto fu predestinata insieme al Figlio nei i divini decreti, come vuole la scuola degli Scotisti; o che sia primogenita della grazia, in quanto destinata come Madre del Redentore dopo la previsione del peccato, come vuole la scuola dei Tomisti; tutti convengono sul fatto di chiamarla primogenita di Dio (Parte 2, disc. 1, p. 1 init.) (10)".

Quale delle due predette sentenze preferisca di più, il santo Vescovo lo lascia intendere dicendo con la Chiesa: ""Peccatores non abhorres, sine quibus numquam fores, tanto digna Filio" (Glorie di Maria, Parte 1, cap. 6, § 3 in fine), che è appunto la sentenza dei Tomisti.

 

P. Guglielmo Van Rossum C. SS. R.
in Aloysius Walter

S. Alphonsi M. de Ligorio,

Opera dogmatica

Romae, typis Cuggiani 1903 (I-II), pp. 739-743

Trad. Rocco Di Masi

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(1) P. 3, qu. 1, art. 3.

(2) Egli afferma: "Poiché dunque questo modo di ragionare non sembra essere così profondo, come il precedente, tuttavia è più consono alla devozione e alla fede, per il fatto che concorda di più con l'autorità dei santi e infiamma più ardentemente il nostro affetto", si deve preferire ad ogni altro. In 3, dist. 1, art. 2, qu. 2.

(3) Come segni della ragione divina non si devono intendere i diversi atti della mente, ma i diversi obiettivi. Dio infatti con un solo e semplicissimo atto intende e vuole: tuttavia con ordine definito e con dipendenza di uno dall'altro. Per tale motivo, poiché la mente umana non è capace di comprendere insieme tutte le cose, giustamente distingue nel pensiero divino una certa successione di atti per poter comprendere quell'ordine e quella dipendenza; ora questi atti dai teologi vengono chiamati decreti o segni della ragione.

(4) De Incarn., disp. 2, dub. 1, § 5, n. 29 - Gli autori di questa opinione nell'esporre la propria sentenza non omettono mai di proporre la distinzione riguardo all'ordine delle cause finali e delle cause materiali (che i seguaci della scuola di Salamanca chiamano il fine "cui"), insistendo sul fatto che nell'ordine delle cause materiali il decreto del Redentore precedette la previsione del peccato. Senza dubbio questa distinzione è vera, ma non può distruggere con il suo rigore l'altra sentenza. Poiché, infatti, come è chiaro, nella sapientissima disposizione della mente divina, prima viene inteso il fine e poi i mezzi, prevale in modo assoluto l'ordine delle cause finali, manifesta il motivo dell'agire e mette in ordine i segni della ragione.

(5) Arauxo in 3, qu. 1, dub. unic, n 53 e Salm., l. c., n. 26, erronea mentre citano Medina a favore della opposta sentenza. Nel passo citato (ad 2 arg.) questo autore dice: "L'effetto della predestinazione di Cristo non è il peccato, bensì l'annullamento del peccato; pertanto il peccato non soltanto nel genere della causa materiale, ma in modo assoluto e inequivocabile precede la predestinazione di Cristo". Non capisco per quale motivo questi autori possano attribuire tale opinione a Capreolo super 3, dist. 1, qu. 1, art. 1 e 3.

(6) L. c., n. 26.

(7) Così, questo autore sulle questioni disputate sulla Verità afferma: "Supposta l'opinione che Cristo si sarebbe incarnato anche se l'uomo non avesse peccato, Cristo sarebbe stato Capo della Chiesa soltanto secondo la natura divina; ma dopo il peccato è necessario che sia Capo della Chiesa anche secondo la natura umana" (Qu. 29, art. 4, n 3.). Ciò è chiaramente contrario all'altra sentenza (Cf. anche ivi, n. 5).

(8) Giova qui riferire il giudizio degli Acta Doctoratus di S. Alfonso su questa opera, che giustamente chiamano teologico-ascetica: "Certamente quest'opera assomma tanta varietà e profondità di dottrina unita alla massima semplicità, che si adatta ad ogni ceto di persone, per cui l'illetterato si nutre come da una fonte di latte della verità, il dotto vi trova un cibo molto solido e l'erudito si ristora col cibo delle altissime verità. Onde non dubito di asserire, senza essere tracciato di temerarietà, che tra i teologi mariani, anche in opere ponderose scritte con stile forbito, non si trova questione di una certa importanza, che non sia già stata trattata in quell'aureo volume, almeno succintamente, ma sempre con argomenti solidi, profondi ed irrefutabili".

(9) Parte I, cap. 4, art. 2, n. 11.

(10) Cap. 3, art. 5, n. 166 - Che poi il santo Dottore nell'effusione del suo cuore (Cf. Acclamazioni in lode di Maria, le quali propriamente sono da collocarsi preferibilmente tra i poemetti ditirambici) la esalta come Regina di tutte le perfezioni e come modello di tutte le bellezze delle creature, bisogna riconoscere che ha agito secondo il costume dei poeti, perché convinto del fatto che davvero qualsiasi bellezza si trovi nella natura, questa bellezza risplende in modo perfettissimo sia in lei che in Cristo. (Cf. De Salazar, Pro Imm. Deip. Virg. Conc. Defens., cap. 32).

 




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