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S. Alfonso Maria de Liguori Dell'uso moderato dell'opinione probabile IntraText CT - Lettura del testo |
CAPITOLO IX - SI ESAMINA LA DOTTRINA DI S. TOMASO, CIOÈ CHE NOI NON SIAMO TENUTI DI CONFORMARE LA NOSTRA VOLONTÀ ALLA VOLONTÀ DIVINA, SE NON QUANDO LA VOLONTÀ DI DIO CI È MANIFESTA.
1. Il testo è questo: S. Tomaso, 1, 2, q. 19, a. 10, fa il quesito: Utrum necessarium sit voluntantem humanam conformari voluntati divinæ in volito, ad hoc ut sit bona? e dice che l'uomo è tenuto a conformarsi alla divina volontà nel volito formale, cioè, come spiega il Santo, in volito boni communis (perché noi non possiamo lecitamente volere se non ciò ch'è buono), ma non già nel volito materiale. Questo volito materiale comprende, siccome l'intendono così S. Tomaso come tutti gli altri teologi e lo stesso mio oppositore, comprende (dico) cinque sorte di cose: precetti, proibizioni, permissioni, consigli e disposizioni divine. Il Santo poi (ad primum) si fa l'opposizione: Videtur quod voluntas hominis non debeat semper conformari divinæ voluntati in volito; non enim possumus velle quod ignoramus... Sed quid velit Deus, ignoramus in pluribus; ergo non potest humana voluntas divinæ voluntati conformari in volito. E risponde: Ad
primum dicendum quod volitum divinum, secundum rationem communem, quale sit scire possumus; scimus enim quod Deus quicquid vult, vult sub ratione boni. Et ideo quicunque vult aliquid sub quacunque ratione boni, habet voluntatem conformem voluntati divinæ, quantum ad rationem voliti, ch'è il volito formale o sia del ben comune. Soggiunge poi: Sed in particulari nescimus quid Deus velit; et quantum ad hoc non tenemur conformare voluntatem divinæ voluntati. Dunque (io scrissi nella dissertazione) non è tenuto l'uomo di conformarsi alla divina volontà in particolare (anche a rispetto de' divini precetti), ove questa volontà di Dio non gli è manifestata, siccome più distintamente dichiara il p. Gonet: Homo non tenetur conformari voluntati divinæ in volito materiali, nisi quando voluntas divina nobis præcepto vel prohibitione manifestatur. Clyp. to. 3, d. 6, art. 2, n. 37 in fin.
2. Or udiamo la risposta che mi dà il p. lettore. Eccola: «Non potreste credere abbastanza, monsignore, qual sentimento di compassione provi in me medesimo verso la riverita (si vede dagli onori che mi fa) vostra persona in riferire questo passo. Sapete quello che devo dirvi in risposta? e vel dirò con tutto quel rispetto che il grado vostro
si merita (Per carità ditelo presto, e lasciamo tante cerimonie da parte. Che mi avete da dire?): che studiate meglio le questioni e le dottrine di S. Tomaso e de' teologi prima di registrare sulla carta i sentimenti vostri, per non avervi a trarre addosso gli scherni degl'intendenti (obbligato a tante grazie).» Ma ciò non faccia maraviglia, perché il p. Patuzzi, ove non trova risposta adequata, cerca d'ajutarsi con questi bei modi sorprendenti, che significano molto e niente esprimono. Io non intendo qual sia l'errore che ho preso sopra la riferita dottrina di S. Tomaso. Ma vediamo che dice appresso il p. lettore. Egli riferisce poi in succinto l'articolo di S. Tomaso nella maniera come io l'ho esposto; e poi soggiunge: «Quanto poi al volito che materiale si appella, di cinque sorte ne distinguono i teologi: precetto, proibizione, permissione, consiglio e operazione di Dio, ch'è a dire, ciò che vien fatto o disposto da lui. Riguardo al precetto e proibizione, sempre dobbiamo conformarci alla volontà divina, eziandio quanto al volito materiale: mentre ci ha dati i suoi precetti, affinché gli osserviamo; e questi già sono notificati bastevolmente nelle sue leggi. Ma questo istesso debito non abbiamo in riguardo alle cose che Dio permette, consiglia ovvero opera nel mondo, mentre su queste non ci ha
imposto comando, e neppure della maggior parte sappiamo qual sia la divina volontà: siccome per esempio noi non sappiamo se sia volontà di Dio che muoja quella persona ch'è ammalata, che perdiam quella lite di cui si tratta, che incorriamo quella disgrazia che ci sovrasta: onde v'ha luogo alla preghiera e all'uso di tutti i mezzi umani per impedire quei mali che temiamo e procurarci quei beni che desideriamo.»
3. «E questo è, monsignore, il senso legittimo e chiaro delle parole di S. Tomaso addotte da voi. Si era egli opposto nel primo argomento: Videtur quod voluntas hominis etc.» E qui trascrive il testo che già noi abbiam trascritto di sopra dell'opposizione che si fa il Santo e della risposta che dà. Indi soggiunge il p. lettore: «Può essere più manifesto l'abuso da voi fatto dell'autorità di S. Tomaso? Perché noi ignoriamo qual sia in particolare la divina volontà in pluribus che permette o che opera in questo mondo, e perciò non siamo tenuti a conformarci ad essa in tutte le cose che succedono, se non quanto alla ragione universale; per questo non saremo ancora tenuti a conformarci in tutto ciò che ci proibisce e comanda? Non ci ha fatta Iddio su questo abbastanza nota la sua volontà colla legge che ci ha intimata perché l'osservassimo?
E se pure alle volte, pel contrasto delle opinioni, questa legge ci è oscura e non la ravvisiamo con certezza (or qui sta lo scoglio), possiamo noi dire di non averne almeno una cognizione probabile (ed ecco che torna a ripetere quel che tante volte ha opposto e tante volte gli si è risposto)? E tanto non ci deve bastare per osservarla e non esporsi ad un grave pericolo di operare contro la volontà di Dio, non facendone quel conto che merita?» Ho voluto registrare qui tutto il suo discorso, acciocché il lettore lo consideri, e poi consideri la mia risposta.
4. Senza che più si affligga il p. Patuzzi con tanti sentimenti di compassione verso di me per l'abuso che fo delle dottrine di S. Tomaso e per gli scherni che mi traggo addosso, tiriamo la conseguenza di ciò ch'egli stesso ha ammesso. Non si dubita che nel volito materiale non solo si contengono le divine permissioni, consigli e disposizioni, ma anche i precetti e le proibizioni. Dunque, siccome quando noi non sappiamo quello che Dio voglia nelle cose che permette o consiglia ovvero opera nel mondo, non siamo tenuti di uniformarci alla divina volontà, secondo quel che insegna l'Angelico (Sed in particulari nescimus quid Deus velit; et quantum ad hoc non tenemur conformare voluntatem nostram divinæ voluntati), così anche non
siamo tenuti ad uniformarci in quel che comanda o proibisce.
5. Ma no, dice il p. Patuzzi. «Riguardo al precetto e proibizione, sempre dobbiamo conformarci alla volontà divina, eziandio quanto al volito materiale: mentre (Iddio) ci ha dati i suoi precetti affinché gli osserviamo, e questi già sono notificati bastevolmente nelle sue leggi.» Ma io dimando: quando alcun precetto è dubbioso ed oscuro, siccome accade nel conflitto di due opinioni egualmente probabili, come può dirsi il precetto bastevolmente notificato? Allora non è notificato bastevolmente il precetto, ma il solo dubbio del precetto. Replica egli: bastevolmente è notificato il precetto quando se ne ha una cognizione probabile. Ma questo punto si è appurato già di sovra nel cap. III, § 1, n. 27 e 28, che ciò può correre quando la probabilità fosse per la sola parte della legge: ma quando vi è probabilità eguale anche per parte della libertà, allora è certo (e ciò l'afferma lo stesso p. Patuzzi) che non v'è più probabilità né dall'una né dall'altra parte, ma non resta che un solo e mero dubbio; onde in tal caso solamente può dirsi che dubitiamo del precetto, ma non può dirsi che ne abbiamo cognizione né certa né probabile. E come mai può dirsi che noi abbiamo cognizione della legge quando non sappiamo se quella vi sia
o no? Allora ben possiamo dire che non la sappiamo e per tanto che non siam tenuti (secondo insegna S. Tomaso) a conformarci in particolare alla volontà divina in tal volito materiale che a noi non è ignoto. E per conseguenza in tal caso non v'è pericolo di peccare, come dice il p. Patuzzi: mentre il Signore non c'impone di ubbidire alla sua volontà che non ci è nota.
6. E questo, che Iddio non ci obbliga a seguire la sua volontà, se non dopo ch'ella ci è manifestata per mezzo de' suoi precetti, tutto chiaramente lo conferma S. Tomaso in altro luogo, 2, 2, q. 104, a. 4 ad 3, dove propone il quesito: Utrum in omnibus Deo sit obediendum. Il Santo dice di sì; ma poi si fa l'obiezione ad 3 così: Quicunque obedit Deo, uniformat voluntatem suam voluntati divinæ etiam in volito: sed non quantum ad omnia tenemur conformare voluntatem nostram voluntati divinæ, ut supra habitum est; 1, 2, qu. 19, a. 10 (questo è il luogo già riferito di sovra del volito materiale). Ergo non in omnibus tenetur homo Deo obedire. E risponde così: Ad tertium dicendum quod etsi non semper teneatur homo velle quod Deus vult, semper tamen tenetur velle quod Deus vult eum velle et homini præcipue innotescit per præcepta divina. Ecco che qui S. Tomaso già spiega di che parlava nel primo
luogo riferito di sovra quando disse: in pluribus ignoramus, cioè che in pluribus del volito materiale noi possiamo ignorare non solo quel che Dio opera, consiglia o permette, ma anche quel che proibisce o comanda. Spiega inoltre che, per esser noi tenuti a questi divini precetti, debbon quelli essere a noi manifestati. Sicché l'uomo dee ubbidire a Dio e conformarsi alla di lui volontà non già in tutte le cose che Dio vuole, ma solamente in quelle che vuole Iddio che noi vogliamo: Quod Deus vult nos velle. Ma come sapremo noi quel che Dio non solo vuole, ma vuole che ancora noi vogliamo? Lo sapremo, dice S. Tomaso, quando ci sarà fatto ciò noto per li suoi divini precetti: Et homini præcipue innotescit per præcepta divina. Non basta dunque la notizia dubbia del precetto per obbligarci ad osservarlo, come volere di Dio, ma è necessaria la notizia certa e manifestata: tanto significa certamente la parola innotescit.
7. Or io dimando per concludere: quando questa volontà di Dio circa l'osservanza de' suoi precetti particolari non ci è manifestata, siamo noi tenuti di conformarci a quella? No, dice l'Angelico nel luogo di sovra riferito e che bisogna qui di nuovo ripetere: Sed in particulari nescimus quid Deus velit (e qui certamente il Santo parla di tutto ciò
ch'è compreso nel volito materiale); et quantum ad hoc non tenemur conformare voluntatem nostram divinæ voluntati. E questo appunto è quello ch'io dicea, cioè che nel volito materiale non siamo noi tenuti a conformarci a quei divini precetti e proibizioni che non sono a noi manifestati. E questo appunto è quel che ancora conferma il p. Gonet, dicendo: Homo non tenetur conformari voluntati divinæ in volito materiali, nisi quando voluntas divina nobis præcepto vel prohibitione, manifestatur. Clyp. to. 3, d. 6, a. 2, n. 37. Che perciò scrisse Giovanni Gersone che Iddio non può obbligare la creatura ad osservare la sua divina volontà, se prima non gliela dà a conoscere; e quindi disse esser necessario che questa volontà sia manifestata alla creatura, affinché la creatura sia tenuta di conformarsi a quella: Necesse est dari manifestationem ordinationis ac voluntatis Dei: nam... per solam suam voluntatem nondum potest Deus absolute creaturæ imponere obligationem. Vita spir. etc., lect. 2. Poteva dunque il mio oppositore esimersi da tanta pena ch'egli ha patita per la compassione avuta di me sopra questo punto, in vedermi fatto oggetto di scherni. Io per me penso che questo solo testo di S. Tomaso basta a far certo il principio che la legge incerta non può indurre un obbligo certo;
mentre insegna il Santo che non siamo noi obbligati ad ubbidire a quella volontà di Dio o sia a quel precetto che a noi non è palese, essendo cosa incontrastabile che pel conflitto di due probabili non è palese il precetto, ma solamente il dubbio del precetto.
8. Ma per tutto quello che ho detto in questa mia opera, ognuno vede che S. Tomaso è stato sempre conforme in ammaestrarci che la legge dee esser certa per obbligare; ed in tutti i luoghi dove il Santo ha parlato di questa materia sempre ha usati termini precisi, che fan conoscere tal essere la sua mente. Egli ha detto che la legge per legare dee esser applicata e promulgata colla di lei cognizione, 1, 2, q. 90, a. 4; e che la promulgazione della legge naturale allora si fa agli uomini quando essi per mezzo del lume naturale ne hanno la cognizione, quod Deus eam mentibus hominum inseruit naturaliter cognoscendam. Ibid. ad 1. Dice naturaliter cognoscendam: dunque l'uomo allora resta obbligato alla legge quando egli col lume naturale conosce la legge, non già quando dubita della legge. Ma basta la notizia probabile. Non signore, non basta: basterebbe se vi fosse la probabilità solo per parte della legge; ma quando vi è probabilità eguale dall'una e dall'altra parte, allora quella notizia è assolutamente dubbia: onde allora
non si giunge a conoscer la legge, ma solo si conosce il dubbio, la questione, se vi sia o no la legge. Ha detto di più S. Tomaso che questa cognizione della legge (chiamata dal Santo misura, perché con quella dee misurare l'uomo le sue azioni) dee essere certissima: mensura debet esse certissima. 1, 2, q. 19, a. 4 ad 3. Ha detto che siccome la fune non lega se non è applicata col contatto vero e sensibile, così il precetto non lega se non è applicato a' sudditi colla scienza del medesimo; e poi ha soggiunto che niuno vien legato dal precetto, se non per mezzo della scienza di quel precetto: Unde nullus ligatur per præceptum, nisi mediante scientia illius præcepti. De verit. q. 17, a. 3. Ha detto che l'uomo allora solamente è tenuto ubbidire alla divina volontà, quando questa divina volontà gli è manifestata per mezzo de' precetti: et homini præcipue innotescit per præcepta divina. T. 2, q. 19, a. 10.
9. Ciò non ostante, il p. lettore spiega S. Tomaso tutto al contrario, e poi dice: «Questa è la mente di S. Tomaso.» Indi conclude in breve che i testi del Santo da me rapportati «sono o inutili o fuor di proposito o malamente intesi e spiegati.» Ma ciò non bastava dirlo, dovea provarlo; altrimenti tutti seguiranno a credere, secondo i vocabolarj che corrono, che queste espressioni
di S. Tomaso, cioè che la legge per obbligare dee esser conosciuta, che niuno è legato dal precetto, se non per la scienza del precetto, che la legge dee esser certissima, che non siam tenuti a conformarci alla divina volontà, se non quando ella ci è manifestata per mezzo de' precetti, non possono altro significare tranne che la legge non obbliga, se non quando è conosciuta, se non quando è certissima, se non quando se ne ha la scienza e se non quando è manifestata.
10. Lascio di rispondere ad alcune altre opposizioni che dal p. lettore stanno buttate dentro del suo libro; mentre giudico che o a quelle già è stato da me risposto prima in altri luoghi, o che non richiedono risposta particolare: mi contento di aver risposto a quelle cose che con maggior apparato e calore ha procurato egli di oppormi. Onde a torto si lamenta ch'io ho tralasciato di rispondere a tutti i motivi ch'esso ha scritti nel libro della Regola prossima ec., in cui ha preteso di abolire l'uso d'ogni sentenza probabile, permettendo quelle sole che non hanno in contrario altro che semplici scrupoli irragionevoli ed imprudenti. A torto, dico, si lamenta: perché il mio intento non è stato di rispondere a tutte le obiezioni che si fanno contro l'uso del probabile, ma solamene ho inteso di provare il principio che la legge
dubbia non obbliga e di rispondere a quelle opposizioni che direttamente impugnano un tal principio; il quale se è vero (come io lo tengo), tutte le altre opposizioni vanno a terra.
11. Egli poi in questo suo libro tante volte m'inculca a ritrattare quel che ho scritto, e me lo dice in modo come io per sostenere il punto voglia più presto mettere a rischio la mia salute eterna che cedere all'impegno. Lo ringrazio di questo buon concetto che ha di me. Dunque io ho lasciato il mondo, mi son privato della mia libertà, entrando nella mia congregazione, dove si fa voto di stretta povertà e di perpetua perseveranza, mi sono ridotto in somma a vivere da povero missionario in una cella (benché poi da quella mi ha cacciato l'ubbidienza), e perché? Per morire dannato, a cagion di non voler ritrattarmi da questa mia sentenza, dopo aver conosciuta la verità (come si va immaginando il p. lettore), per non cedere all'impegno? Ma che pazzia sarebbe questa per me! Tanto più che il rivocarmi non mi sarebbe di disonore, ma più presto di lode in faccia a tutto il mondo. Direi, rivocandomi, che sinora sono stato in buona fede; ma perché son uomo soggetto ad errare, avendomi il Signore appresso illuminato, non ho voluto resistere a questo lume divino. È certo che tutti,
anche quelli che sono della mia sentenza, mi scuserebbero e mi loderebbero come uomo di retta coscienza. Gli antiprobabilisti poi quali elogi non mi darebbero da per tutto, s'io mi facessi del lor partito! Quando che all'incontro resto ora presso il p. lettore e presso altri tuzioristi moderni suoi compagni nel vile concetto di cervello storto, di lassista, di ridicolo e di ostinato e, per compatimento, d'uomo di mala coscienza. Ma mi consola che il giudizio della mia eterna salute nella morte (che mi sta vicina per l'età avanzata e per le infermità che patisco) non si ha da fare dal p. lettore, ma da Gesù Cristo, il quale vede il fondo de' cuori. Replico quel che dissi a principio: io tremo del giudizio per causa de' peccati fatti, ma non certamente per questa sentenza che difendo; mentr'ella mi sembra così certa, che, secondo mi pare, solo la santa Chiesa potrà farmi cambiar sentimento col condannarla; ed in tal caso io sottoporrò il mio giudizio alla di lei autorità infallibile, e dirò che mi bisogna ubbidire, benché siami ignoto il perché. E se mai dopo la mia morte la santa Chiesa dichiarasse in avvenire il contrario di ciò che ho scritto, da ora mi protesto che intendo tutto di ritrattarlo e rivocarlo. Io non ho lo spirito di profezia; nondimeno ho questo sentimento che non mai la Chiesa dichiarerà
per vera la sentenza del mio oppositore, cioè che non sia lecito far uso d'altre sentenze, se non di quelle che sono moralmente certe con giudizio diretto. E dico ciò appoggiato non alle mie sole riflessioni ed al mio debole talento, ma a quel che hanno scritto tanti teologi, e specialmente il Maestro angelico, santo così illuminato da Dio e dichiarato dottore della Chiesa.
12. Dicono che questa mia opera l'abbiano fatta i gesuiti. Io ho lette per altro molte cose ne' libri così de' gesuiti, come degli altri, ma l'opera l'ho fatta io. Meglio direbbero che l'ha fatta S. Tomaso, mentre in essa sono (per dir così) più le parole ed i sentimenti di S. Tomaso che i miei. E sempre ritorno a dire che, se non giungono a confutar prima le dottrine di S. Tomaso, non giungeranno mai a confutare la nostra sentenza. Dicano in somma quel che vogliono; io tutto ciò che ultimamente ho scritto sovra questa materia, l'ho scritto perché così la sento avanti a Dio.
13. Il p. Patuzzi si duole che tutte le sue ragioni non m'abbiano convinto: ma come io volea dichiararmi convinto, se quelle non mi hanno persuaso? Dice ch'io non ho voluto considerarle. Monsignore, io le ho considerate e ritornate a considerare; ed oltre le sue opposizioni so io quante altre opposizioni alle
volte in questa materia io ho obiettate a me stesso; ma ritrovandovi poi patenti le risposte, perciò non mi sono ritrattato: altrimenti, senza le sue sì replicate esortazioni, da quanto tempo da me stesso mi sarei rivocato! Ma non ho potuto rivocarmi senza positivo scrupolo di coscienza, aggravando le anime d'un obbligo non imposto loro dal Signore.
14. Sicché il sistema da me difeso a me sembra indubitabile e sicuro per la coscienza. All'incontro le opposizioni fattemi dal p. Patuzzi, secondo quel che ho inteso, non sono state universalmente parlando applaudite dagli altri, ed in quanto a me (cosa che non può soffrire il mio avversario) ella maggiormente mi han confermato nel mio sentimento. Del resto, se mai alcuno stimasse aver ragioni convincenti, non già contro qualche cosa particolare da me scritta, ma contro la sostanza del sistema, sì che quello per niun capo potesse reggere, lo prego e lo supplico quanto posso a farmele intendere con qualche foglio o pubblico o privato; e sempre che le sue ragioni convincano, io son pronto a rivocarmi con foglio stampato, mentre in questa controversia io non ho preteso né pretendo di vincere o di contendere, ma solo di mettere avanti gli occhi di tutti i fondamenti del mio sistema, affinché resti
chiarita la verità per lo ben comune e per la quiete delle coscienze. Quando però taluno mi scrivesse i suoi dubbi contro il sistema, e non vedesse alcuna mia scrittura in cui mi ritratto, lo prego a non argomentare dal non vedere data da me risposta ch'io sia rimasto convinto per non avere avuto che rispondere: poiché io non posso risponder sempre ed a tutte le difficoltà e motivi che vengono in mente di ognuno; solamente prometto di rispondere e rivocarmi quando da tali motivi restassi convinto. Io per altro ho esposte al giudizio della Chiesa e del pubblico le ragioni del mio sistema: se le medesime dalla Chiesa o da' dotti non saranno riconosciute per valide, io non pretendo che abbia luogo la mia sentenza. Ma, per quel che vedo, niuno de' moderni scrittori ha potuto confutarle sinora, e neppure il p. Patuzzi, che con tanto studio ha cercato di rispondere; anzi con impugnarle le hanno più avvalorate. Io prego istantemente il Signore quanto posso che di questa controversia così importante per la salute delle anime faccia conoscere a tutti la verità. Stiamo sinora ch'ella sia dalla mia parte, e così anche giudicano meco, non solo il mio p. Segneri e il mio p. Tirillo (come scrive il p. lettore), ma innumerabili altri uomini dotti e pii. Ma se mai errassi, lo prego, dico, che muova l'animo
del sommo pontefice a definire il contrario di quel che difendo; e da ora mi dichiaro contentissimo di quanto sarà definito. Del resto, non so come frattanto si possa in buona coscienza insegnare che ad un penitente il quale dopo la confessione de' suoi peccati ha acquistato jus certo all'assoluzione debba negargliela il confessore perché quegli tra due opinioni probabili non voglia seguire la più sicura. E questo è quel rigore che stimo eccessivo e che mi dispiace, mentr'egli può esser causa della perdizione di molte anime; quando per altro, ponendo da parte quel che ho scritto e provato per la mia sentenza, io ritrovo che molti autori, benché probabilioristi, moderni ed antichi e citati da' nostri avversarj come fautori della loro sentenza, dicono il contrario. Il probabiliorista Pontasso, verb. Confessarius, cap. 2, ecco come parla: Fatendum tamen quod si confessario persuasum foret opinionem sui pœnitentis esse probabilem (e parla d'un'opinione a cui la contraria più sicura anche è probabile), tunc ei absolutionem posset impertiri, quandoquidem tunc contra conscientiam suam non ageret. Lo stesso tiene Cabassuzio similmente probabiliorista, theor. jur. l. 3, c. 13, n. 13, dicendo: Quivis confessarius absolvere debet eum pœnitentem qui non vult ab opere abstinere quod secundum probabilem piorum
et doctorum aliquot hominum non reprobatam in Ecclesia auctoritatem est licitum, quamvis juxta probabilem aliorum auctoritatem, quam ipse sequitur confessarius, habeatur minus probabilis (si dee intendere non notabiliter minus), ut ostendunt Navarrus, Sylvius etc. E ne dà la ragione: perché, esto confessarius agat contra propriam opinionem, non tamen contra propriam conscientiam, cum teneatur absolvere dispositum. Inoltre Vittoria, il quale scrisse prima dell'anno 1545, de confess. n. 109, dice così: Sed quid facit (confessarius) quando ambæ opiniones sunt probabiles et habent suos proprios assertores? Respondeo: sive sit ejus proprius sacerdos, sive non, tenetur eum absolvere in tali casu; ita Paludan. 4, § 17, qu. 2, art. 1. Probatur aperte: talis enim est in gratia, et confessor habet probabilitatem quod sit in gratia, quia scit esse probabilem ejus opinionem: ergo non debet ei negare absolutionem. Inoltre Adriano, de confess., quæst. 5, dub. 7, parimenti scrive: Si a pluribus doctoribus gravioris seu etiam æqualis auctoritatis contrarium teneatur, non debet adeo de se præsumere sacerdos ut totum velit in suam opinionem, quæ forsitan erronea est, coarctare. Lo stesso scrisse Navarro, manual., cap. 26, n. 4: Si sint contrariæ doctorum opiniones, et confessarius
credit evidenti se textu vel ratione niti, pœnitentem autem dubia, non debet eum absolvere; at si pœnitens utitur pari ratione, vel fere pari, et habet pro se aliquem doctorem clarum, poterit eum absolvere. Ed indi aggiunge ivi: Cum dubitatur an pœnitens hoc facere aut dare debeat, benigniorem opinionem confessarius eligere debet; e cita per tal sentenza Angelo e Silvestro. S. Antonino conferma lo stesso in più luoghi; in un luogo, part. 1, tit. 6, cap. 10, § 10, scrive: Idem videtur sentire Goffredus de Fontibus, in his scilicet opinionibus contrariis quæ tolerantur ab Ecclesia, ut dictum est: et quod debet proponere confitenti quod bene studeat de hoc seipsum per prudentes informari, eo quod alii tenent contrariam opinionem, maxime si illius contrariæ opinionis confessor sit ordinarius ejus, et sic eum absolvere. Idem sentit Richardus claro modo, non distinguendo utrum confessor ejus sit ordinarius vel non ordinarius. In altro luogo, p. 2, tit. 1, cap. 11, § 29, lo stesso santo Arcivescovo, parlando di quel celebre contratto discettato in Firenze, dice (come abbiam riferito di sovra) che dee consigliarsi l'astenersene a chi volesse farlo, ma poi soggiunge: Quod si tale consilium recipere recusaret..., reliquendus videtur judicio suo, nec condemnandus ex hoc, aut deneganda
absolutio. Finalmente in altro luogo, part. 2, tit. 4, c. 5, § In quantum, dice: Si vero non potest (confessarius) clare percipere utrum sit mortale, non videtur tunc præcipitanda sententia, ut dicit Guillelmus, ut deneget propter hoc absolutionem vel illî faciat conscientiam de mortali; quia faciendo postea contra illud, etiamsi illud non esset mortale, ei erit mortale, quia omne quod est contra conscientiam ædificat ad gehennam. 28, quæst. 1, § Ex his. Et cum promptiora sint jura ad absolvendum quam ligandum..., potius videtur absolvendum et divino examini dimittendum.
15. Lo stesso scrive Domenico Soto, in 4, d. 18, qu. 2, art. 5 ad 4: Postquam opinio pœnitentis est probabilis, excusat eum a culpa; et ideo jus habet absolutionem petendi, quam ideo plebanus tenetur impendere. E qui replico di nuovo: ecco come parlano gli autori antichi. Or se il p. Patuzzi (conchiudiamo) nella sua opera della Regola prossima delle azioni umane, perché tiene per certa la sua sentenza, dice in fine che i vescovi debbon negare la facoltà di confessare a' sacerdoti che non seguitano il suo sistema, perché non posso io similmente dire, tenendo con più ragione il mio sistema per certo, che i vescovi non debbono ammettere a prender le confessioni quei sacerdoti
che, dopo aver ascoltata la confessione de' peccati, negano l'assoluzione a' penitenti perché non vogliono seguitare l'opinione più rigida fra le due opinioni egualmente probabili?