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S. Alfonso Maria de Liguori Dichiarazione del sistema...azioni morali IntraText CT - Lettura del testo |
Testo
1. Taluni mi tacciano, dicendo ch'io son probabilista. Io di nuovo mi dichiaro in questa breve operetta ch'io non sono probabilista né seguito il probabilismo, anzi lo riprovo. È vero che ne' miei primi libri di morale, dati fuori in età più fresca, ammisi certe opinioni benigne più del dovere, ma poi, avendo fatta miglior riflessione, anche colle stampe più volte le ho rivocate. Né mi si dica che io ho seguitata la dottrina del p. Busembao: perché quantunque nella mia opera grande di morale vi ho fatto mettere prima delle mie lunghe addizioni il breve compendio di morale fatto da questo autore, nonperò io non l'ho premesso per seguitare la sua dottrina o sia quella de' gesuiti; chi non ha occhi non vede che in moltissime sentenze io son contrario alle opinioni di Busembao e le confuto. Ho premesso quel suo compendio per tenere l'ordine delle materie da esaminarsi, il quale ordine da tutti è stato reputato eccellente. Dico l'ordine, ma non la dottrina: il moralista padovano Franzoja non è autore lasso; egli nelle sue opinioni è più rigido del p. Concina: e pure
nella sua morale ha premesso il testo di Busembao, e l'ha impugnato dove ha stimato bene d'impugnarlo. E così ancora ho fatto io. Del resto io nell'ultima ristampa fatta in Venezia della mia Morale nell'anno scorso 1772, in fine del secondo tomo ho fatto porre un avvertimento col nome di monitum, dove succintamente ho posto più in chiaro il sistema ch'io tengo circa l'uso delle opinioni.
2. Accenno qui brevemente quel che in detto monito sta più disteso. Io dico per 1° che quando l'opinione che sta per la legge ci apparisce certamente più probabile, quella dobbiam seguire per più ragioni: delle quali la più principale si è perché noi ne' dubbj morali dobbiam seguire la verità; onde dove non possiamo chiaramente ritrovar la verità, almeno seguire dobbiamo quella opinione che più si accosta alla verità, qual appunto respettivamente è l'opinione che ci apparisce più probabile: onde la stessa verità che ci obbliga a doverla seguire, ci obbliga ancora a seguire quella opinione che sta per la legge quando ella più si accosta alla medesima verità.
3. Dico per 2° che quando l'opinione che sta per la libertà è ugualmente probabile che quella che sta per la legge, neppure possiamo seguirla per la ragione ch'è
probabile, poiché per operar lecitamente non basta a noi la sola probabilità dell'opinione, ma vi bisogna la certezza morale dell'onestà dell'azione, massima indubitata anche presso i probabilisti, secondo il testo di S. Paolo: Omne... quod non est ex fide, peccatum est. Rom. 14, 23. Ond'io sempre ho stimato falso quel principio adottato da' probabilisti: Qui probabiliter agit, prudenter agit; mentre chi opera senza la moral certezza dell'onestà della sua azione, non prudentemente, ma imprudentemente opera. E pertanto dico che non solo è illecito operare secondo l'opinione meno probabile che sta per la libertà, ma neppure (parlando per sé) secondo l'opinione più probabile, quando l'altra che sta per la legge, anche è probabile, benché meno probabile: perché allora neppure si ha la certezza morale necessaria a deporre adequatamente il dubbio, stante che quell'opinione meno probabile per la legge anche può esser vera. Sicché io non sono né probabilista né equiprobabilista, in modo ch'io dica essere per sé lecito il seguire l'opinione equiprobabile.
4. Dico nonperò per 3°: quando vi sono due opinioni egualmente probabili, benché l'opinione meno tuta per sé non possa seguirsi, mentre (siccome ho detto) la sola probabilità non dà fondamento bastante a
lecitamente operare; nulladimeno quando l'opinione che sta per la libertà è di egual peso di ragioni che l'opposta che sta per la legge (ho detto di egual peso, perché quando fosse meno probabile, già si è detto di sovra che allora dee seguirsi l'opinione che sta per la legge, la quale benché in qualche modo anche sia dubbia, il dubbio nondimeno è largo) allora entra il dubbio stretto e rigoroso che fa sospendere affatto il giudizio della mente, se la legge vi sia o non vi sia; onde s'ignora allora l'esistenza della legge che proibisca l'azione. E perciò in tal caso la legge non si può dire sufficientemente promulgata: allora solo è sufficientemente promulgato il dubbio se vi è o non vi è la legge, ma non è promulgata la legge; e pertanto non essendo allora la legge promulgata, non può ella indurre obbligo certo di osservarla.
5. Che poi ogni legge, per obbligare, debba esser promulgata, non è sentenza particolare di alcuni dottori, ma universale di tutti i padri e teologi. Da S. Tomaso viene definita la legge: Quædam rationis ordinatio ad bonum commune promulgata. 1, 2, q. 90, art. 4. E così parlano tutti gli altri. Ludovico Habert, tom. 3 de leg., c. 6, q. 4, scrive: Ad rationem legis pertinent promulgatio et vis obligandi. Du-Vallio, in 1, 2
S. Th. q. 2, dice: De ratione legis est ut promulgetur hominibus. Il cardinal Gotti, Theol. tom. 2, tract. 5 de leg., q. 1, d. 3, § 3, n. 18, dice: Ad hoc ut lex in actu secundo obliget, requiritur quidem indispensabiliter ut subditis promulgatione proponatur. Domenico Soto, de just. et jure lib. 1, q. 1, art. 4, dice: Nulla lex ullum habet vigorem ante promulgationem... Itaque nullam exceptionem conclusio hæc permittit. Lo stesso mio primo avversario, Theol. mor., tract. de leg., cap. 5, n. 7, dice: Consentiunt quidem omnes promulgationem esse omnino necessariam ut lex virtutem obligandi obtineat.
6. La ragione di ciò è chiara, perché, come insegna S. Tomaso, la legge è una regola e misura con cui l'uomo dee regolare e misurare le sue azioni: Lex quædam regula est et mensura actuum, secundum quam inducitur aliquis ad agendum vel ab agendo retrahitur; dicitur enim lex a ligando, quia obligat ad agendum. 1, 2, q. 90, art. 1. Se dunque la legge è regola e misura per regolare e misurare le nostre azioni, questa regola e questa misura dev'esser da noi conosciuta per certa: altrimenti come possiamo regolarle e misurarle con una regola e misura incerta? E perciò S. Tomaso insegna che questa misura (parlando della legge) deve
esser certissima: Mensura debet esse certissima. 1, 2, q. 19, art. 4, ad 3. È vero che ciò lo dice nella obiezione che si fa; nella risposta però non lo nega, ma lo conferma. In altro luogo scrive: Nullus ligatur per præceptum nisi mediante scientia illius præcepti. Opusc. de verit., q. 17, art. 3. Ed ivi parla non solo delle leggi umane ma anche delle divine e naturali. Del resto, io dico che nella mia sentenza non intendo seguire altra sentenza che quella di S. Tomaso: onde chi non confuta prima la sentenza di S. Tomaso, non potrà mai confutar la mia, cioè che la legge o umana o divina non obbliga l'uomo se non gli è promulgata.
7. A questa mia sentenza io ho avuti molti oppositori e specialmente il p. Gianvincenzo Patruzzi domenicano, che mi fece diverse opposizioni, alle quali diedi in istampa le mie risposte, che poi universalmente da' dotti sono state applaudite. Ultimamente non però per questa sentenza mi vedo posto da alcuni altri fra il numero degli equiprobabilisti, chiamati libertini e licenziosi, che voglion vivere in libertà e senza legge, per seguire le loro passioni e gli appetiti della carne e del vizio: e perciò son essi riputati quasi non dissimili a' manichei, agli epicurei, obbesiani e spinozist; e fra questi
tali, non già con termini espressi ma gravidi e significanti, vengo annoverato anch'io. Sento farmi una nuova opposizione: sento dirmi che quantunque la legge non obblighi se non è bastevolmente promulgata, nondimeno ciò corre per le leggi positive, ma non per la legge naturale, che nasce dalla stessa natura umana ed è la prima sorgente del diritto naturale ed è la prima regola e misura dell'onestà delle azioni morali. E quindi sento dedursene per conseguenza che tal legge naturale si promulga colla stessa natura e comincia ad obbligare gli uomini da che sono enti ragionevoli. Io risponderò appresso all'opposizione che si fa contro la mia sentenza; ma, per ora, bisogna ch'io premetta le difficoltà gravissime che ritrovo a questo principio assegnato, cioè che la legge naturale nasce dalle stesse nature de' suoi subbietti.
8. Ritrovo per 1° che il p. Patuzzi nella sua Teologia morale, tract. 1 de leg., c. 5, n. 3, chiama falsa questa opinione, tenuta prima dal p. Vasquez (fuori del quale non ho potuto ritrovare altro autore che l'avesse insegnata), cioè che la stessa natura razionale sia la prima regola dell'onestà morale. Falsa est (scrive il p. Patuzzi) sententia p. Vasquez asserentis naturam ipsam rationalem esse primam moralis honestatis regulam,
ita ut ex conformitate vel difformitate ad illam tota desumatur honestas et pravitas humanarum actionum. Hæc, inquam, sententia falsa est. Ritrovo ancora la sentenza di Vasquez riprovata dal p. Suarez e dal Du-Hamel, Theol. tom. 1, lib. 1 de leg., cap. 2, il quale aggiunge che questa sentenza di Vasquez discorda dal sentimento di tutti i teologi e filosofi; aliena est ab omni theologis et philosophis. Iddio ha formate le nature degli enti ragionevoli, degli angeli e degli uomini, e secondo le proprie nature ha loro adattata la legge o sia regola e misura che ad essi conveniva; onde non è la natura che forma la legge e la misura dell'onestà, ma è quella legge che Iddio ha data a' subbietti di ciascuna natura.
9. Ritrovo per 2° presso S. Tomaso, 1, 2, qu. 93, art. 3, che tutte le leggi e specialmente la naturale derivan dalla legge eterna; sicché la legge naturale non nasce dalle stesse nature degli enti ragionevoli, come suppongono questi autori, ma nasce dalla legge eterna. E perciò S. Agostino definisce il peccato: Dictum vel factum vel concupitum (non contra naturam rationalem, ma contra legem æternam. Lib. 22 contra Faust., cap. 27. Onde poi S. Tomaso, 1, 2, q. 71, art. 6, adottando la stessa definizione, scrive che S. Agostino in definitione peccati posuit
duo: unum quod pertinet ad substantiam actus humani, quod est quasi materiale in peccatum, cum dixit - dictum vel factum vel concupitum: aliud autem quod pertinet ad rationem mali, quod est quasi formale in peccato, cum dixit - contra legem æternam. Sicché tutta la ragione del male del peccato non nasce dalla stessa natura, ma nasce dall'esser contrario alla legge eterna.
10. Giova qui notare quel che scrive il p. Giovan-Lorenzo Berti nella sua teologia, tom. 4, lib. 20 de leg., cap. 3, pag. 11: parlando ivi in primo luogo della legge eterna, riferisce la celebre definizione che ne fa S. Agostino: Lex æterna est ratio divina vel voluntas Dei ordinem naturalem conservari jubens, perturbari vetans. Contra Faustum, lib. 22, cap. 27. Sicché la ragione divina è quella che crea l'ordine naturale di tutte le cose; e la volontà di Dio è quella che conserva quest'ordine. Quindi scrive il p. Berti: Omne malum æterna lege prohibitum est; quælibet ergo lex aliquid prohibens aut imperans ab æterna dimanat. E ciò lo ricava S. Agostino stesso, che scrisse: Nihil fit quod non de invisibili summi imperatoris aula aut jubeatur, aut permittatur. Ap. S. Prosp. in sent. collect., sent. 58. Indi soggiunge Berti: Lex æterna ceteras enititur, ut quælibet obliget juxta
naturam suam, videlicet lex naturalis jure naturali et lex humana jure humano. Parlando poi il p. Berti della legge naturale, la definisce con S. Agostino così: Lex naturalis est ipsius æternæ legis in mente hominum per participationem incommutabilis rationis divinæ facta transcriptio. E poi soggiunge: Hæc definitio traditur ab Augustino, lib. 83, qu. 53; eamque brevi explanabo. Dicitur transcriptio æternæ legis: quoniam nullam vim habere potest creata natura quæ ipsî ab auctore sempiternæ legis non imprimatur etc. In consequentibus verbis exponitur lex naturæ ut obstringit homines ratione præditos; quos a Deo lumen rationis et recte operandi regulam participari nemo, nisi ratione destitutus sit, in dubium vertit. Nam, ut Augustinus, serm. 2 de verb. Dom., scribit, Quis legem in cordibus hominum scribit, nisi Deus? Sitam vero naturalem legem in participatione rationis et interiori quadam intimatione, quæ, ut verbis utar Damasceni, lib. 4 de fide, cap. 13, conscientiam nostram pertrahit et vellicat. Dunque, secondo S. Agostino, creata natura nullam vim habet quæ ipsi non imprimatur ab auctore legis æternæ; e la legge naturale non è che il lume di ragione che Dio partecipa all'uomo internamente; e perciò dice il santo Dottore: Quis legem in cordibus
hominum scribit, nisi Deus? Ma tutto ciò meglio si chiarirà da quel che si dirà nel numero seguente.
11. Ritrovo per 3° che il peccato filosofico, secondo ha dichiarato la santa Chiesa per Alessandro VIII papa, è vero peccato e peccato grave ove la materia è grave. Ma, come dicono tutti i teologi, per quanti ne ho letti, il peccato filosofico non è peccato perché offende la natura dell'uomo, ma perché offende l'autore della natura, ch'è Dio; il quale vieta l'opporsi al lume naturale che da lui stesso a noi vien comunicato. La ragione è chiara: perché niuno può conoscere che offende la legge di natura senza avere una cognizione, almeno implicita e confusa, del supremo legislatore che ha fatta questa legge di natura; e ciò basta a formare il peccato mortale teologico.
12. Udiamo ora quel che scrive il p. Berti, Theol. tom. 4, lib. 21, cap. 9, pag. 243, parlando del peccato filosofico: egli fa vedere che l'operar contro la retta ragione intanto è peccato, in quanto è trasgressione della divina legge; ed all'incontro dice che il chiamar peccato ciò che non è offesa di Dio e della sua legge sarebbe temerario ed erroneo. Indi riferisce che quelli che difendeano il peccato filosofico non esser peccato mortale adduceano la dottrina di S. Tomaso,
che dice: A theologis consideratur peccatum præcipue secundum quod est offensa contra Deum; a philosopho morali secundum quod contrariatur rationi. Onde diceano poi che chi avesse una totale ignoranza di Dio e della sua legge che proibisce l'opporsi alla retta ragione, questo opporsi alla retta ragione non sarebbe peccato. Il p. Berti risponde che tal sentenza neppure ipoteticamente può difendersi, e dice: Quamquam, data invincibili Dei ignoratione, non hypothetice tantum sed reapte admitteretur peccatum philosophicum: posset enim ignorans Deum adversus rectam rationem delinquere; cur quæso non? Si legem Dei non transgrederetur, Deum non offenderet. Potest excogitari peccatum repugnans rectæ rationi, quod non sit Dei offensa? Ego rectam rationem nego quæ non sit cum participatione legis æternæ; et cum participatione legis æternæ nego posse dari invincibilem Dei ignorationem. E poi soggiunge: Non enim est offensa Dei, si non est transgressio divinæ legis. Non est transgressio divinæ legis, quoniam lex invincibiliter ignoraretur; quomodo ergo esset Dei offensa? At vindex, inquiunt, est Deus peccati, etsi non cognoscatur contra legem Dei perpetratum. Quid inde? Vindex erit, sed non offensus. Etiam inter homines, ajunt, optimo cuique displicet peccatum, etiamsi
commissum adversus alios. Fateor, displicet; sed optimo illî, quem ignoras, nulla affertur injuria, nulla offensa. Peccatum vero quod non sit offensa Dei et libera divinæ legis transgressio admittere temerarium est et erroneum.
13. E qui entra ben anche la dottrina di S. Tomaso, che dice: Si posset esse conversio ad bonum commutabile sine aversione a Deo, quamvis esset inordinata, non esset peccatum mortale. 2, 2, quæst. 20, art. 3. Quindi saggiamente dice il p. Berti che il peccato filosofico, come avversione dalla retta ragione, intanto è peccato mortale ed è avversione da Dio, in quanto la retta ragione è una participazione della legge eterna di Dio: poiché non può comprendersi che una cosa sia conforme o contraria alla retta ragione, se non si comprende quella ragione come procedente da Dio: e perché l'esistenza di Dio non può affatto ignorarsi, perciò non può darsi un'azione tutta contraria al lume della ragione che non sia colpa grave. E qui fa il testo riferito nel num. antecedente dello stesso Dottore angelico, 1, 2, qu. 71, art. 6: A theologis consideratur peccatum præcipue secundum quod est offensa contra Deum, a philosopho morali secundum quod contrariatur rationi. Colle quali parole ci dà da intendere S. Tomaso
che il peccato intanto si fa mortale non già perché è contrario alla ragione, come lo si considerano i filosofi, ma in quanto è offesa contro Dio, come lo considerano i teologi, che parlano secondo la fede. E perciò (come abbiamo veduto di sovra) dice il medesimo santo Dottore che un'azione che non fosse contro Dio ma solo contro la ragione, quamvis esset inordinata, non esset peccatum mortale. Dunque, se alcuno ignorasse affatto l'esistenza di Dio, non peccherebbe, facendo un'azione contraria al lume della natura? No, rispondo; sempre peccherebbe, ma non già perché offenderebbe la natura degli enti ragionevoli, bensì perché offenderebbe l'autore della natura, il quale da niuno, neppure parlando ipoteticamente (come saviamente scrive il P. Berti), può mai ignorarsi. Io per me, considerando il peccato come offesa di Dio, ch'è somma bontà e mio Signore, che mi ha creato, redento e da cui ho ricevuto tutto, col suo ajuto ben posso concepirne un vero pentimento. All'incontro non saprei concepir questo vero pentimento, considerandolo come mera offesa della natura, che non è mia signora né mi ha creato né redento, e da cui non ho ricevuto alcun bene, mentre quanto ho avuto, tutto lo riconosco da Dio.
14. Ritrovo per 4° un'altra opposizione
più forte; e perciò, omettendo le altre che posson farsi al mentovato nuovo sistema, mi ho riserbato di parlarne qui in ultimo luogo. L'opposizione è questa: le Scritture, i Padri ed i teologi comunemente e concordemente insegnano che la legge divina sia la prima ed unica regola del vivere onesto degli uomini e ch'ella sia la misura dell'onestà e disonestà delle loro azioni morali. Sento che si risponde che gli scrittori sacri ed i Padri non han parlato colla mira di decidere la presente controversia; ma che han potuto parlare così in un senso che non sia contrario al presente sistema. Ma io non so come questa risposta tolga la difficoltà; sembrando cosa molto difficile, anzi moralmente impossibile che, se fosse vero il nuovo sistema, che la natura delle cose sia la prima sorgente del dritto naturale e la prima misura dell'onestà e disonestà delle azioni morali, i Padri poi ed i teologi, uomini così illuminati, comunemente e concordemente avessero insegnato che la legge divina sia l'unica e prima regola e misura dell'onestà e disonestà.
15. Dicono: i Padri ed i teologi sapeano che, nascendo noi nello stato della natura elevato alla grazia, siamo obbligati a vivere non solo a norma del dritto naturale, ma anche della legge di grazia. Onde noi
commettendo un'azione cattiva; v. gr. un omicidio, un furto, non solamente facciamo un'opera inonesta e ci rendiamo rei di una pena naturale, ma di più violiamo la divina legge ed incorriamo una pena sovrannaturale tassataci dal divin sovrano. E qui si adduce una dottrina di S. Agostino, che diceva: Omnis lex prohibens, non occides, non mœchaberis, non furtum facies etc., delicta ingeminat. Non enim simplex peccatum est et malum et vetitum committere. De vera relig., cap. 26. Sulle quali ultime parole si fa poi la chiosa: malum perché azione difforme ed opposta al diritto naturale, alla natura ragionevole; e vetitum perché azione proibita dalla legge divina. E perciò dicono poi che i sacri scrittori concordemente han detto che la legge divina è l'unica regola delle azioni morali: ma ciò l'han detto affin d'inculcarci coll'osservanza della divina legge la pratica delle virtù e la fuga de' vizj. Ma no, io dico: non già a questo solo fine tutti i padri e teologi chiamavano la legge divina unica regola delle azioni, ma perché fuori della legge divina non riconosceano altra legge, e per conseguenza non riconosceano questa legge supposta che nasce dalle nature degli enti ragionevoli; altrimenti non avrebbero detto con sentimento così uniforme e così assoluto che la legge divina è l'unica regola delle morali azioni.
16. Ma ribattiamo più addentro questo chiodo. Dicono che, oltre la legge positivo-divina, vi è anche la legge naturale, che deriva per sé stessa dalle nature degli enti ragionevoli, e che questa legge naturale è quella che forma l'onestà e l'inonestà intrinseca delle azioni morali. Ma i Padri e i teologi concordemente non riconoscono questa legge naturale che nasce dalle stesse nature; tutti comunemente dicono che la legge divina è l'unica regola e misura dell'onestà e disonestà delle azioni morali. E replico sembrare impossibile che tutti questi sacri scrittori avrebbero chiamata la divina legge unica regola e misura delle azioni umane, se avessero tenuto o almen dubitato esservi, oltre la legge divina, un'altra legge naturale ed un diritto risultante dalla natura delle cose; perché prima della legge positivo-divina vi era già la legge naturale-divina, che s'imprime in noi dal medesimo Dio col lume della ragione; la qual legge naturale nasce dalla legge eterna, da cui (come insegna S. Tomaso) deriva ogni altra legge, così positiva come naturale, non essendo altro la legge naturale (secondo scrive lo stesso santo Dottore) che una partecipazione della legge eterna.
17. Ma S. Agostino dice (come di sovra si è rapportato al n. 15) che ogni legge che
proibisce l'omicidio, il furto ec., delicta ingeminat; non enim simplex peccatum est et malum et vetitum committere. Ma ciò non può già intendersi che con ogni peccato contro la legge naturale si commettono due delitti, l'uno perché è opposto alla natura ragionevole e l'altro perché è vietato dalla legge divina; ma deve intendersi ch'è un solo peccato perché è contrario alla legge di Dio, il quale colla legge naturale ha vietata già ogni azione che si oppone al lume della natura da lui impresso nelle anime nostre, e poi l'ha proibito ancora colla legge positivo-divina, la quale non fa che siano due peccati, ma dichiara meglio il nostro obbligo di osservar la legge naturale. Né osta quell'ingeminat delicta espresso da S. Agostino, perché l'ingeminare non sempre significa moltiplicare ma spesso ancora significa accrescere, aumentare, come ve ne sono più esempi in Virgilio. Quei che offendon la legge naturale, dopo ch'è stata più dichiarata colla legge scritta del decalogo, offendono Dio più gravemente di coloro che l'offendeano nello stato della sola legge di natura, per ragion della maggior cognizione che hanno della divina legge; il che ben s'intende con quel che sta scritto nel Vangelo: Ille autem servus qui cognovit voluntatem domini sui et non præparavit et non
fecit secundum voluntatem ejus, vapulabit multis. Qui autem non cognovit et fecit digna plagis, vapulabit paucis. Luc. 12, 47 et 48.
18. Diciamo dunque che noi, per vivere onestamente, non riconosciamo altra legge ed altra regola che la divina; mentre noi riconosciamo per unico nostro signore e legislatore solo Dio, non già la natura. Chi mai ha detto che la natura è legislatrice? Dicono che quando si commette un male intrinseco si offende non solamente la legge di Dio ma anche la legge della natura: ma no; perché ogni legge è da Dio, ogni diritto naturale è da Dio, da Dio è la natura, da Dio è segnato il lume della ragione, Dio solo fa la legge. Ogni altra cosa che si dice o si pensa è pensiero, è idea senza fondamento; perché la sola volontà di Dio, ch'è santissima, sapientissima e rettissima, è l'unica sorgente di ogni diritto, di ogni ordine, di ogni legge, di ogni regola e misura dell'onestà. E qui va a proposito quella sentenza di S. Agostino: Nihil fit quod non de invisibili summi imperatoris aula aut jubeatur aut permittatur. Apud S. Prosp. in sent. collect., sentent. 56. E S. Tomaso, 1, 2, q. 93, art. 3, facendo ivi il quesito: Utrum omnis lex a lege æterna derivetur. Scrive: Omnes leges in quantum participant de ratione recta, in tantum derivantur a lege
æterna. Et propter hoc dicit Augustinus, lib. 1 de lib. arb., cap. 5 et 6, quod in temporali lege nihil est justum ac legitimum quod non ex lege æterna homines sibi derivaverint.
19. Che cosa è per noi questa legge naturale che nasce dalla stessa nostra natura, se non la ragione umana che la natura c'infonde? Ma questa ragione umana è la regola forse delle nostre azioni? No: insegna S. Tomaso che la regola è il lume divino che ci viene impresso da Dio per bene operare: Ratio humana secundum se non est regula rerum, sed principia ei naturaliter indita sunt regulæ quædam generales et mensuræ omnium eorum, quæ sunt per hominem agenda. 1, 2, q. 91, art. 3, ad 2. Dunque non è la ragione umana né la natura dell'uomo che dà la regola dell'onestà delle azioni, ma i principj naturalmente in noi impressi da Dio sono le regole e misure di ciò che gli uomini debbono fare; ch'è quanto a dire è la legge eterna da Dio a noi comunicata per via del lume naturale. In somma Dio è tutto, e la legge naturale intanto è legge ed obbliga l'uomo non perché nasce dalla sua stessa natura umana, ma è legge ed obbliga perché deriva dalla legge eterna e dalla volontà divina, la quale per via della ragione o sia del lume naturale ce l'intima e manifesta.
20. Dunque, diranno, non vi è più legge naturale, ma tutte son leggi positivo-divine; né vi è più male intrinseco, perché è male per se stesso, ma tutti son mali, perché proibiti dalla legge divina. Diciamo noi che ben vi è la legge naturale, distinta dalle leggi positivo-divine, ma questa legge naturale non nasce dalle stesse nature delle cose, ma dalla legge eterna e dalla volontà di Dio, che vuole che obblighi la detta legge di natura, a noi intimata da Dio per mezzo del lume naturale. E così anche diciamo che vi è il male per sé male quia malum, a differenza del male quia prohibitum; ma questo male per sé intanto è male, in quanto disconviene e perturba l'ordine eterno stabilito da Dio, e perciò Dio lo vieta colla legge naturale.
21. Replicano: ma dove Iddio conosce che quel male è male intrinseco, se non nelle stesse nature de' subbietti? No: qui sta la supposizione che non regge degli avversarj, cioè che Dio conosce il male nella natura della cosa. Dio lo conosce in sé stesso, nella sua essenza, nella sua somma rettitudine e nell'eterno ordine da lui stabilito; e perciò l'ha vietato poi colla sua legge, contro cui pecca l'uomo che perturba un tal ordine. E se Dio quel male non l'avesse proibito colla sua legge, non sarebbe peccato
il commetterlo? Ben potrebbe rispondersi ch'essendo vero che tutte le leggi derivano dalla divina volontà, se non vi fosse la legge divina, quell'azione non sarebbe peccato, perché dove non vi è legge non vi è peccato, per quel che scrisse l'Apostolo: Peccatum non cognovi, nisi per legem. Rom. 7, 7. Ed è certo che solo Dio fa leggi, non la natura. Dunque se quel male non è male per sé, ma solo perché è contrario alla divina volontà, è stata cosa arbitraria a Dio il proibirlo. No, non è stata arbitraria, perché la volontà di Dio è rettissima, è la stessa rettitudine; onde non poteva Iddio non proibire ciò ch'è opposto all'ordine eterno da lui stabilito: ma tutta la malizia del peccato consiste nell'esser contrario alla divina volontà.
22. Ma basti per ora quel che si è detto a rispetto delle difficoltà già toccate che incontra il riferito nuovo sistema, che la legge naturale nasca dalle stesse nature de' subbietti. Dico, basti per ora; perché appresso mi sarà necessario di rivangar questo punto, almeno in breve, per iscioglier le opposizioni che si fanno alla mia sentenza o, per meglio dire, alla sentenza di S. Tomaso. Esaminiamo ora le conseguenze che dal lor sistema ne deducono gli oppositori contro la nostra sentenza; la qual è, come da principio
dichiarammo, che quando la legge non è attualmente promulgata non ha virtù di obbligare, come parla S. Tomaso.
23. Oppongono a questa dottrina del santo Dottore che tal promulgazione attuale è necessaria per le leggi umane o positivo-divine, ma non per la legge naturale che si promulga agli enti ragionevoli colle stesse loro nature; la qual legge è di diversa teoria delle leggi positive. Spieghiamoci distintamente per non far confusione. Vi sono i precetti divini naturali ed i precetti positivo-divini, come furono nell'antico Testamento i precetti cerimoniali e giudiziali, e nel nuovo i precetti de' sacramenti: ma gli uni e gli altri, positivi e naturali, han dovuto esser promulgati per obbligare gli uomini ad osservarli; con questa differenza che i positivi sono stati promulgati esternamente, ma i naturali si promulgano internamente col lume naturale della ragione. È vero poi che anche i precetti naturali furono pubblicati da Mosè colla legge scritta del decalogo, ma prima di questa legge scritta vi era già per gli uomini nello stato della legge di natura la legge naturale divina, scritta (come dice S. Paolo) ne' cuori degli uomini, colla quale ben poteano conoscere quel che per sé era male o bene. Ma perché trascuravano essi d'indagare questa legge, acciocché non si
lamentassero, dice S. Agostino, che mancasse loro qualche cosa per ben conoscere quel che doveano fare o evitare, Iddio diè a Mosè in due tavole scritta col suo medesimo dito divino quella legge che stava già scritta ne' loro cuori, ma ch'essi non voleano leggerla: Sed ne sibi homines aliquid defuisse quererentur, scriptum est et in tabulis; sed legere nolebant. In ps. 57. Quindi reca il santo Dottore a tal proposito quel testo d'Isaia, c. 47, v. 8: Redite, prævaricatores, ad cor, cioè: peccatori, entrate nei vostri cuori, ed ivi troverete scritti tutt'i vostri doveri. E così anche spiega S. Agostino quell'altro testo di Davide: Prævaricantes reputavi omnes peccatores terræ. Psalm. 118, v. 119. Che i peccatori tutti sono trasgressori della legge divina, non già della legge positivo-divina scritta, perché questa, dice S. Agostino, fu data da Dio per mezzo di Mosè al solo popolo d'Israele, non già a tutte le genti; ma Davide scrisse che tutti i peccatori della terra eran prevaricatori della legge, cioè della legge naturale, scritta ne' cuori di tutti gli uomini per mezzo del lume della ragione, che loro si palesa per mezzo della coscienza, come scrive l'Apostolo: Qui ostendunt opus legis scriptum in cordibus suis, testimonium reddente illis conscientia ipsorum. Rom. 2, 15.
24. Sicché la legge che chiamano derivante dalle stesse nature degli enti ragionevoli non è di diversa teoria, ma della stessa teoria della legge divina naturale, che noi diciamo derivante dalla stessa volontà di Dio, il quale vuole che noi osserviamo quella legge ch'egli ci promulga per mezzo del lume naturale, quo (come scrive S. Tomaso) discernimus quid sit bonum et quid malum. Onde poi conchiude nello stesso luogo: Quod pertinet ad naturalem legem nihil aliud est quam impressio divini luminis in nobis. 1, 2, q. 91, art. 2. Ma questa legge, scrive lo stesso santo Dottore, non obbliga se non quando ella ci è promulgata per certa, come meglio appresso dimostreremo.
25. Oppongono inoltre che nel concorso di due opinioni ugualmente probabili, una per la legge e per la virtù, come dicono, e l'altra per la libertà e per lo vizio (giacché per libertà non intendono altro che libertinaggio e licenza viziosa), si dee stare all'opinione della ragione, la quale dicono che abitualmente si promulga all'uomo sin dalla sua concezione, e sin d'allora possiede il suo cuore. Si risponde che quando la ragione sta per la sola parte della legge, o sia certa o almeno certamente più probabile, a quella dee starsi; perché quella ragione tira a sé l'assenso della mente: ma quando le
ragioni delle parti sono di egual peso, allora la mente resta sospesa e non può vedere per qual parte sia la ragione e la verità; e perciò come può dirsi che la legge sia in tal caso bastevolmente promulgata? Allora è promulgato bastevolmente il dubbio se vi sia o non vi sia la legge, ma non è promulgata la legge.
26. Dicono che la legge naturale si promulga abitualmente all'uomo sin dalla sua formazione: ma il punto sta se la promulgazione, per obbligare, dev'essere attuale o basta che sia abituale. Suppongono bastar che sia abituale, ed apportano il testo di S. Tomaso, il quale, 1, 2, qu. 90, art. 4, avendo posto il quesito - Utrum promulgatio sit de ratione legis - risolve che sì; e poi obiettandosi, ad 1, che la legge naturale non si promulga, risponde: Promulgatio legis naturæ est ex hoc ipso quod Deus ipsam mentibus hominum inseruit naturaliter cognoscendam. Dunque, dicono i contrarj, ecco che S. Tomaso con quella parola inseruit riconosce la promulgazione abituale e il possesso abituale della legge: dunque riconosce un diritto naturale che nasce dalle nature delle cose e non già dalla provvidenza di principe. Ma io dico che S. Tomaso intende tutto l'opposto di quello che vogliono i contrarj. Vediamo brevemente tutta la dottrina del santo
Dottore su questo punto, se la legge naturale, per obbligare, dev'essere attualmente promulgata o basta che sia promulgata solo abitualmente.
27. S. Tomaso, 1, 2, q. 90, art. 4, propone il quesito: Utrum promulgatio sit de ratione legis. Risponde: Lex imponitur aliis per modum regulæ et mensuræ: regula autem et mensura imponitur per hoc quod applicatur his qui regulantur et mensurantur. Unde ad hoc quod lex virtutem obligandi obtineat, quod est proprium legis, oportet quod applicetur hominibus qui secundum eam regulari debent. Talis autem applicatio fit per hoc quod in notitiam eorum deducitur ex ipsa promulgatione. Unde promulgatio ipsa necessaria est ad hoc quod lex habeat suam virtutem. Dicendo dunque il Maestro angelico che la legge, per obbligare, dev'essere applicata all'uomo colla promulgazione, acciocché gli serva di regola, necessariamente intende della promulgazione attuale, perché l'abituale che si fa ne' bambini (come vogliono i contrarj), non potendo quelli allora conoscer la legge, non può servire loro di regola se non quando sarà ad essi attualmente promulgata coll'uso di ragione, come saggiamente riflette il dotto p. Pietro Collet: Lex enim, ut obliget, debet dari ut regula ac proinde innotescere per promulgationem.
Moral. tom. 1 de legib., cap. 1, art. 2, con. 2.
28. Indi S. Tomaso nel citato a. 4, ad 1, si fa l'obiezione: Lex naturalis maxime habet rationem legis: sed lex naturalis non indiget promulgatione: ergo non est de ratione legis quod promulgetur. E risponde: Dicendum quod promulgatio legis naturæ est ex hoc ipso quod Deus eam mentibus hominum inseruit naturaliter cognoscendam. Ammette dunque che la legge naturale anche dev'esser promulgata, ma dice che la promulgazione della legge naturale si fa per mezzo del lume naturale, che Dio inserisce nelle menti degli uomini; a differenza delle leggi umane, che si promulgano co' segni esterni. Qui diranno gli oppositori: ma questa promulgazione non bisogna che sia attuale; basta che sia abituale. No, mi perdonino, non basta: perché ivi S. Tomaso certamente parla dell'attuale. I contrarj fanno forza sovra la parola inseruit: ma bisogna che si avvalgano ancora delle parole naturaliter cognoscendam, cioè quando la legge col lume naturale si conosce attualmente: ex hoc ipso quod Deus inseruit eam... naturaliter cognoscendam; il pronome hoc ipso complette così il verbo inseruit come l'altro cognoscendam che fanno il senso compito, cioè che la promulgazione della legge allora in
effetto si fa quando Dio inserisce nella mente dell'uomo la cognizione della legge per mezzo del lume naturale, perché allora si applica attualmente all'uomo la legge. E che così l'intenda il Santo, è chiaro da quel che dice nel corpo dell'articolo; ivi dice: Ad hoc quod lex virtutem obligandi obtineat, oportet quod applicetur hominibus, qui secundum eam regulari debent; talis autem applicatio fit per hoc quod in notitiam eorum deducitur ex ipsa promulgatione. Sicché quest'applicazione della legge allora si fa quando ella colla promulgazione attualmente in notitiam eorum deducitur; ed ecco la promulgazione attuale della legge con cui gli uomini debbono regolarsi. Onde della stessa applicazione o sia cognizione attuale deve intendersi quel naturaliter cognoscendam; altrimenti discorderebbe quel che il Santo dice nell'obiezione da quel che ha premesso e spiegato nel corpo dell'articolo. Pertanto saggiamente scrisse poi il cardinal Gotti, Theol., de leg., quæst. 2, dub. 2, n. 21, che la legge naturale ne' fanciulli è solo in potenza, poiché essi non possono formare perfetto dettame delle loro azioni, col quale la legge intimi loro il precetto. In effetto promulgazione è lo stesso che cognizione e manifestazione. Dimando: quando l'uomo acquista cognizione del precetto? quando è
bambino? No, allora acquista l'abilità, la facoltà di conoscerlo nel tempo che avrà l'uso di ragione. Dunque a principio s'inserisce da Dio nell'infante la sola abilità a conoscere la legge per quando avrà l'uso della ragione, ma non s'inserisce né si promulga la legge; e ciò vuole intendere il santo Dottore, dicendo cognoscendam, come l'intendono e spiegano tutti i tomisti. Così l'intende il dottissimo Francesco Silvio: Actualiter tunc unicuique (lex) promulgatur quando cognitionem a Deo accipit dictantem quid juxta rectam rationem sit amplectendum quid fugiendum. In 1, 2, q. 90, a. 4 in fin. Così l'intende il p.m. Montesino: Lex naturalis promulgatur in unoquoque dum primo venit ad usum rationis. De leg. 20, q. 4, n. 75. Così l'intende il p.m. Cuniliati: Actualis legis naturalis promulgatio evenit quando quis a Deo cognitionem accipit dictantem quid sit fugiendum vel amplectendum. Tract. 5, cap. 2, § 1, n. 5 et § 3, n. 1. E così più altri che si lasciano per brevità.
29. Non si niega che quando l'uomo è conceputo gli viene infusa abitualmente la legge naturale, cioè la capacità o sia l'abilità di conoscere la legge naturale per quando giungerà all'uso di ragione. Ma non perché riceve tal capacità, perciò può dirsi essergli
promulgata la legge; la legge allora si dirà a lui promulgata e l'obbligherà ad osservarla quando attualmente riceverà per mezzo dell'uso di ragione la cognizione della legge. Ciò l'insegna in più luoghi lo stesso S. Tomaso; egli parlando della legge eterna, 1, 2, quæst. 90, art. 2, ad 1, dice: lex æternam habet promulgationem ex parte Dei promulgantis... sed ex parte creaturæ audientis et inspicientis non potest esse promulgatio æterna. Sicché tanto la legge eterna, quanto la naturale, ch'è una participazione dell'eterna, allora obbliga l'uomo quando attualmente gli viene insegnata dalla Chiesa o quando egli col lume naturale la conosce: questo importano le parole audientis et inspicientis.
30. Ciò lo conferma il Maestro angelico nella questione 1, 2, qu. 91, art. 2, e lo spiega più a lungo, parlando specialmente della legge naturale. Propone ivi il quesito: Utrum sit in nobis aliqua lex naturalis. E risponde: Lex, cum sit regula, dupliciter potest esse in aliquo: uno modo sicut in regulante, alio modo sicut in regulato; quia in quantum participat aliquid de regula, sic regulatur... Et talis participatio legis æternæ in rationali creatura lex naturalis dicitur. Soggiunge poi che tal participazione si fa quando in noi s'imprime il lume della
ragion naturale, che ci fa conoscere il bene e il male. Unde cum Psalmista dixisset: Sacrificate sacrificium justitiæ, quasi quibusdam quærentibus quæ sint justitiæ opera, subjungit: Multi dicunt: Quis ostendit nobis bona? Cui quæstioni respondens dicit: Signatum est super nos lumen vultus tui, Domine; quasi lumen rationis naturalis, quo discernimus quid sit bonum et quid malum, quod pertinet ad naturalem legem, nihil aliud sit quam impressio divini luminis in nobis etc. Sicché S. Tomaso dice che l'uomo è obbligato a regolarsi colla legge naturale per quanto una tal regola gli è partecipata, e che allora ha cognizione di questa legge quando coll'uso di ragione giunge a discernere il bene dal male. Dunque prima che la legge sia partecipata all'uomo colla cognizione della medesima, la legge in niun modo può dirsi promulgata, né può dirsi da tal legge legato l'uomo.
31. Dicono i contrarj che la legge naturale si promulga abitualmente all'uomo colla stessa natura e comincia ad obbligarlo dacché è uomo. Ma come la legge si promulga all'uomo, se l'uomo non la conosce? E come può obbligare una legge, se non è conosciuta? Insegna S. Tomaso che la legge naturale non è altro che una concezione o sia cognizione della stessa legge dimostrata
col lume naturale, con cui l'uomo vien diretto nelle proprie azioni: Lex ergo naturalis nihil aliud est quam conceptio homini naturaliter indita, qua dirigitur ad convenienter agendum in actionibus propriis. 3 p., qu.... La legge naturale dunque è quel concetto o sia intelligenza ch'è data all'uomo per mezzo della ragion naturale, del come debba regolarsi nell'operare; e con questo lume vuole Dio obbligarlo a fare o ad omettere quel che dee, come spiega Giovan Gersone, parlando della legge naturale: Lex ista sit quædam revelatio ac declaratio creaturæ rationali facta, per quam illa cognoscit quid Deus de certis rebus judicet, ad quas vel præstandas vel omittendas ipse creaturam obligare vult. Vit. spir. etc., lect. 2, col. 176, edit. paris. Soggiunge poi che non può Iddio assolutamente imporre alla creatura l'obbligo di una legge, se non gli manifesta la legge e la sua volontà di volerla obbligare. Necesse est dari manifestationem ordinationis ac voluntatis Dei; nam per solam ordinationem ac voluntatem nondum potest Deus absolute creaturæ imponere obligationem; sed ad hoc opus est ut ei communicet notitiam unius æque ac alterius. E finalmente conclude: Ex quo liquet immediate deducibilis conclusio, creaturam rationalem non posse esse indignam amicitia Dei nec proprie
peccato obnoxiam, nisi dum sciens, volens ac libere ponit actionem sibi prohibitam aut omittit rem præceptam. Loco cit. Si notino le parole di Gersone: Necesse est dari manifestationem ordinationis; e quelle altre: Nondum potest Deus imponere obligationem, sed opus est ut communicet notitiam; e quelle altre: Creaturam non posse esse peccato obnoxiam, nisi... sciens, volens... ponit actionem prohibitam.
32. Suppongono i contrarj che la legge naturale sia abito; ma i teologi dicono che ella è atto, non abito. Scrive il cardinal Gotti che se la legge naturale si prende in atto primo, cioè per la virtù che ha di obbligare per quando sarà manifestata, si chiama in certo modo abito; perché il lume della ragione infuso all'uomo di poter conoscere la legge per quando gli sarà fatta nota sta permanentemente nel di lui intelletto, dacché egli è formato; ma ella non obbliga se non quando in atto secondo è manifestata all'uomo col lume naturale allorché giunge all'uso di ragione, in cui può formare il dettame di coscienza. Ecco le sue parole: Ex his patet nos loqui de lege naturali ut in actu secundo denunciante, in quo essentia legis consistit, quæ habetur per modum denunciationis. Quod si sumamus legem naturalem in actu primo, sic in virtute et
quodammodo habitu lex naturalis est, cum semper maneat in intellectu lumen rationis, quod simul cum natura rationali creaturæ Deus indidit; ex quo, si usu rationis polleat, potest formare dictamen de agendis etc. Theol., tract. 5 de leg., qu. 2, d. 2, § 1, n. 9. Si notino le prime parole, In actu secundo denunciante, in quo essentia legis consistit. Lo stesso dice Silvio: Lex naturalis est actus rationis, actuale scilicet judicium et dictamen rationis practicæ. 1, 2, q. 94, a. 1, concl. 2. E così spiega Silvio il testo di S. Tomaso di cui si avvalgono i contrarj (come si è notato di sovra n. 26 e seg.): Promulgatio legis naturæ est ex hoc ipso quod Deus eam mentibus hominum inseruit naturaliter cognoscendam. Silvio spiega: Legem naturalem quasi promulgari in habitu, eo ipso quod Deus illam mentibus hominum imprimit... actualiter autem tunc unicuique promulgatur quando cognitionem a Deo accipit dictantem quid juxta rationem naturalem sit amplectendum, quid fugiendum. Vide loc. cit. Lo stesso scrive il p. Pietro Collet: Lex naturalis, in actu primo ac velut in genere habitus spectata, est vis a Deo menti creatæ impressa, imperative dictans seu potius nata dictare quid sit faciendum vel omittendum, ut consentaneum aut dissentaneum legi æternæ. Eadem vero
lex in actu secundo spectata est actuale dictamen, præcipiens quid hîc et nunc fieri debeat aut omitti. Moral. t. 1, c. 3, a. 1, con. 2. Dice: potius nata dictare, perché in fatti la legge naturale non detta all'uomo ciò che dee fare quando gli è impressa in atto primo ed in abito nel modo riferito di sovra; ma glielo detta quando in atto secondo attualmente gli è manifestata, ed allora l'obbliga.
33. Lo stesso scrive Giovan Maldero dottor lovaniese e vescovo di Anversa: In habitu ergo promulgatur (lex naturalis) ab initio nativitatis, actu autem initio usus rationis: ad eum fere modum (quanto è bella questa similitudine!) ac si quis in tenebris litteras principis aliquid jubentis accipiat, quibus tunc demum teneatur parere quando eas legere potuerit. In 1, 2 S. Th., q. 90, art. 4. Siccome dunque non è tenuto il vassallo ad ubbidire prima di legger la lettera del principe, non potendo leggerla; così l'uomo non è tenuto ad osservare la legge naturale prima di conoscerla col lume della ragione. Lo stesso scrive Domenico Soto: Est enim (lex) regula nostrarum actionum: regula autem, nisi operantibus applicetur, vana est. Applicari autem nequit nisi per ejus notitiam; nam qui regula utitur, eam intueri necesse habet. Fit ergo consequens
ut ante promulgationem, qua subditis (lex) innotescit, non eos obligando perstringat, sed tunc percipi quando promulgatur. De just. et jure lib. 1, q. 1, art. 4; et vide etiam q. 3, art. 2. Lo stesso scrive Lodovico Habert parlando della legge naturale: Præscribit (lex) quid creatura rationalis agere aut fugere debeat. Quibus verbis duo denotantur quæ ad rationem legis pertinent, nempe promulgatio et vis obligandi: intimat enim hoc ipso quo dictat et præscribendo obligat. Tom. 3 de leg., cap. 6, q. 4, vers. Dic 4. Dunque la legge naturale allora obbliga quando attualmente prescrive ciò che dee farsi.
34. E così l'intendono comunemente gli altri teologi, i quali dicono che la legge naturale allora si promulga quando l'uomo giunge all'uso di ragione, e col lume naturale gli vien promulgata e manifestata la legge. scrive il m. Montesino tomista: Lex naturalis promulgatur in unoquoque, dum primo venit ad usum rationis; et quamvis pro tunc solum promulgentur ista lex quantum ad principia communissima juris naturæ, tamen postea paulatim per discursum promulgatur eadem lex quantum ad alia. De leg., disp. 20, q. 4, n. 85. E ciò è uniforme a quel che insegna S. Agostino, de vera relig. cap. 31, ove scrive: Veritatem omnes
aliqualiter cognoscunt, ad minus quantum ad principia communia legi naturali; in aliis vero quidam plus et quidam minus participant de cognitione veritatis, et secundum hoc plus vel minus cognoscunt legem æternam. E con ciò vuol farci intendere il santo Dottore che, secondo la cognizione che in noi abbiamo della legge divina, siamo obbligati ad osservarla. Lo stesso scrisse S. Girolamo con parole troppo espressive, parlando della legge naturale, epist. 121, alias 151 ad Aglasiam q. 8: Hanc legem nescit pueritia, ignorat infantia, et, peccans absque mandato, non tenetur lege peccati. Maledicit patri et matri, parentes verberat; et quia necdum accepit legem sapientiæ, mortuum est in eo peccatum. Cum autem mandatum venerit, hoc est tempus intelligentiæ (quo Dei mandata cognoscimus) appetentis bona et vitantis mala, tunc peccatum reviviscere incipit, et homo reus est peccati. Si notino le parole: Cum autem mandatum venerit, hoc est tempus intelligentiæ (quo Dei mandata cognoscimus) appetentis bona et vitantis mala, tunc... homo reus est peccati. Sicché quando l'uomo ha la cognizione della legge che l'istruisce ad appetire il bene e ad evitare il male, allora gli vien promulgata la legge, ed allora solamente pecca se non la osserva.
35. E così dicono gli altri teologi. Du-Vallio dottor della Sorbona, tenuto a tempo suo quasi per oracolo nella Francia, scrive in 1, 2 de leg., quæst. 3, art. 3: Quæres quo tempore lex naturæ unumquemque obligare incipiat. Respondetur incipere quando promulgatur: tunc autem sufficienter promulgatur quando quisque annos discretionis incipit, cioè quando col lume della ragione comincia a discernere il bene dal male. Pietro de Lorca cisterciense, in 1, 2, disp. 6 de leg., pag. 386: Quemadmodum promulgatio est intrinseca et essentialis humanis legibus; sic rationis judicium et cognitio intrinseca est legi naturæ. Il p. Gonet, diss. de opin. probab., art. 6, § 1, n. 172: Promulgatio legis naturalis fit dictamen rationis intimantis homini ea quæ lege naturæ præscripta aut prohibita sunt; ergo cum deest tale dictamen, lex naturæ non obligat ad ejus observationem. Il p. Cuniliati anche tomista, tract. 1 de moral. reg., cap. 2: Actualis legis promulgatio evenit quando quis a deo cognitionem accipit dictantem quid juxta rationem naturalem sit vel fugiendum vel amplectendum. Il p. Manstrio: Hoc autem jus (naturæ) hominibus intimatur et obligare incipit ab eo tempore quo rationis usum accipiunt, et per talem legem sibi intimatam inter bonum et malum
discernere incipiunt; hic enim rationis usus est veluti ipsius legis naturalis notificatio et manifestatio. Jocodo Lorichio dottore di Lovanio, thesaur. utr. theol., verbo Lex, n. 6, parlando della legge eterna, scrive: Hac lege Deus omnia ordinat ad seipsum, et est promulgata apud ipsum ab æterno; hominibus autem promulgatur quando eis innotescit. Lo stesso scrisse Corrado Koellin domenicano, in 1, 2, qu. 9, art. 4: Cum venerit (homo) ad usum rationis, tenetur ad ea quæ sunt legis naturæ. Lo stesso scrissero più altri teologi, de' quali ho riferite le parole nella mia Morale, ma qui lascio di trascriverle per non dare più tedio ai lettori. Ma sovra tutte le autorità de' dottori deve farci forza la ragione addotta da S. Tomaso, che la legge naturale all'uomo è proposta per regola da regolare le sue azioni: onde è necessario che la legge gli sia attualmente manifestata, acciocché possa con tal legge regolarsi; altrimenti, se la legge gli è ignota o dubbia, il che importa lo stesso che essergli ignota, non può servirgli di regola per regolare le sue azioni.
36. Ma vediamo qui unitamente in quanti luoghi lo stesso principe de' teologi S. Tomaso insegna esser necessaria la promulgazione attuale, acciocché i precetti naturali inducano obbligo di osservarli. Il Santo in
un luogo, 1, 2, q. 100, art. 1, ad 3, scrive che per quei precetti che non sono i primi comuni della legge naturale e che non sono per sé noti vi bisogna l'attual promulgazione: Prima præcepta communia legis naturæ sunt per se nota habenti rationem naturalem et promulgatione non indigent. Ecco come il santo Dottore, dicendo che i soli primi precetti comuni che son noti per sé non han bisogno di promulgazione per coloro che hanno l'uso della ragione, insegna chiaramente che per altri precetti naturali che non sono per sé noti vi bisogna la promulgazione attuale, acciocché possano obbligare.
37. In altro luogo insegna più espressamente che i precetti divini (o sieno positivi o naturali) allorché sono dubbj, non obbligano. Egli, 1, 2, quæst. 19, art. 10, scrive che quando noi non sappiamo in particolare ciò che voglia Dio, non siamo obbligati a conformarci alla sua volontà: Sed in particulari nescimus quid Deus velit; et quantum ad hoc non tenemur conformare voluntatem divinæ voluntati. E ciò appunto avviene quando vi sono due opinioni di egual peso per la legge e per la libertà; perché allora non può mai dirsi che sappiamo la volontà di Dio.
38. Dicono gli oppositori che non si deve
intender così questa dottrina di S. Tomaso. Esaminiamola dunque tutta, e vediamo se deve o no intendersi così. Anche il p. Patuzzi, mio primo contraddittore, mi oppose ch'io non intendeva S. Tomaso. Il Santo propone il quesito: Utrum necessarium sit voluntatem humanam conformari voluntati divinæ in volito, ad hoc ut sit bona; e risponde che l'uomo dee conformarsi alla divina volontà nel volito formale, cioè nel volere il bene o sia ciò ch'è buono, ma non già nel volito materiale. Il Santo poi si fa l'obiezione, ad 1: Videtur quod voluntas hominis non debeat semper conformari divinæ voluntati in volito; non enim possumus velle quod ignoramus...: sed quid velit Deus ignoramus in pluribus; ergo non potest humana voluntas divinæ voluntati conformari in volito. E risponde: Quicumque vult aliquid sub quacumque ratione boni, habet voluntatem conformem voluntati divinæ quantum ad rationem voliti (ch'è il volito formale). Indi soggiunge: Sed in particulari (ch'è il volito materiale) nescimus quis Deus velit; et quantum ad hoc non tenemur conformare voluntatem divinæ voluntati. Vediamo ora che cosa comprende il volito materiale. Tutti i teologi convengono collo stesso p. Patuzzi che esso comprende i precetti, le proibizioni, i consigli e i decreti di Dio
sulle creature. I contrarj, parlando del testo riferito di s. Tomaso, dicono: vuol dire il Santo che l'uomo, finché non sa i particolari consigli ed i liberi decreti del creatore sulle sue creature, non è obbligato a seguirli. E quando non sa i precetti e le proibizioni, dimando io, è obbligato a seguirli? forse i particolari precetti e le proibizioni non si comprendono nel volito materiale? S. Tomaso dice che, quando l'ignora, non è obbligato di conformarsi alla divina volontà. E ciò più distintamente lo dichiara il p. Gonet, dicendo: Homo non tenetur conformari voluntati divinæ in volito materiali, nisi quando voluntas divina nobis præcepto vel prohibitione manifestatur. Clyp. tom. 3, d. 6, a. 2, n. 37 in fin.
39. Ma senza la spiegazione del p. Gonet abbiamo S. Tomaso, che ciò spiega chiaramente in altro luogo, 2,2, q. 104, a. 4, ad 3. In questo luogo fa il quesito: Utrum in omnibus Deo sit obediendum. Risponde che sì; di poi ad 3 si fa l'obiezione: Quicunque obedit Deo, uniformat voluntatem suam voluntati divinæ etiam in volito: sed non quoad omnia tenemur conformare voluntatem nostram voluntati divinæ, ut supra habitum est (e cita il luogo da noi poco anzi riferito, I, 2, q 19, a. 10; e poi soggiunge: Ergo non in omnibus tenetur homo
Deo obedire. Risponde poi all'obiezione: Ad tertium dicendum quod etsi non semper teneatur homo velle quod Deus vult, semper tamen tenetur velle quod Deus vult eum velle, et homini præcipue innotescit per præcepta divina. Ecco dunque che S. Tomaso anche spiega che nel primo luogo, ove disse: Sed quid velit Deus ignoramus in pluribus; e poi soggiunse nella risposta: Sed in particulari nescimus quid Deus velit; et quantum ad hoc non tenemur conformare voluntatem divinæ voluntati: spiega il Santo, dico, che noi allorché non sappiamo quale sia la volontà di Dio su di qualche precetto di cui dubitiamo, non siamo tenuti ad uniformarci alla divina volontà che ignoriamo. In questo secondo luogo poi conferma ciò S. Tomaso, dicendo che l'uomo non è obbligato in tutte le cose a voler quello che vuole Iddio, ma è tenuto a volere ciò che vuole Iddio ch'esso uomo voglia, quod Deus vult eum velle. Ma come saprà l'uomo ciò che vuole Iddio ch'esso voglia? lo saprà, dice il Santo, quando ciò gli sarà manifestato per li suoi divini precetti, et homini præcipue innotescit per præcepta divina. Dunque non basta il dubbio di un precetto per obbligarci ad osservarlo come volere di Dio, ma bisogna che il precetto ci sia manifestato: ciò significa certamente la parola
Innotescit. Questo medesimo, come abbiamo veduto, scrive il p. Gonet, dicendo che non siamo tenuti a conformarci alla volontà divina in volito materiali, nisi quando voluntas divina nobis præcepto vel prohibitione manifestatur. E quindi scrisse Giovan Gersone, come di sopra abbiam riferito, che Dio non può obbligare la creatura ad osservar la sua volontà, se prima non gliela manifesta: Necesse est dari manifestationem ordinationis ac voluntatis Dei, nam per solam suam voluntatem (quando ella ci è occulta) nondum potest Deus absolute creaturæ imponere obligationem. Mi dispiace che con replicar tante volte queste dottrine, mi rendo tedioso a chi legge i miei libri di morale: ma che ho da fare, giacché S. Tomaso parla così chiaro, ma perché a' miei oppositori, non piacciono tali dottrine, cercano sempre di oscurarle e travolgerne il senso, e poi dicono ch'io non l'intendo? E perciò mi bisogna di nuovo porle davanti gli occhi de' leggitori.
40. Questa verità, che la legge non ci obbliga se non quando ella ci è manifestata, S. Tomaso l'insegna con modo più espresso in altro luogo; egli nell'opuscolo de verit., qu. 17, art. 3, propone il quesito: Utrum conscientia liget; e dice che niuno può esser obbligato a qualche precetto (umano o
divino) se non gli è manifestato. Dice ivi che la scienza del precetto è come una fune che lega la volontà: onde siccome per legare v. g. una bestia bisogna che le sia attualmente applicata la fune che la costringa a non partirsi dal luogo dove sta, così il precetto, per legare la volontà dell'uomo ad astenersi di fare qualche azione, bisogna che abbia la scienza del precetto, senza la quale l'uomo non resta legato. Unde (conclude) nullus ligatur per præceptum aliquos nisi mediante scientia illius præcepti. Ma osserviamo tutto il testo del santo Dottore. Ecco le parole: Ita se habet imperium alicujus gubernantis ad ligandum in rebus voluntariis illo modo ligationis qui voluntati accidere potest, sicut se habet actio corporalis ad ligandum res corporales necessitate coactionis. Actio autem corporalis agentis nunquam inducit necessitatem in rem aliam, nisi per contactum coactionis ipsius ad rem in qua agit. Unde nec ex imperio alicujus domini ligatur aliquis, nisi imperium attingat ipsum cui imperatur. Attingit autem ipsum per scientam. Unde nullus ligatur per præceptum aliquod nisi mediante scientia illius præcepti. Et ideo ille qui non est capax notitiæ præcepti (ciò vale contro i nostri avversarj, che dicono esser legato l'uomo dalla legge naturale sin dacché è
conceputo), non ligatur; nec aliquis ignorans præceptum Dei ligatur ad præceptum faciendum, nisi quatenus tenetur scire præceptum. (S'intende quando colpevolmente trascura di saperlo ed è tenuto a saperlo.) Si autem non teneatur scire nec sciat, nullo modo ex præcepto ligatur.
41. Dicono che noi falsamente pensiamo che l'uomo nasce libero ed esente da ogni legge, sì che prima di esser legato da qualche legge abbia la libertà di fare quel che vuole e soddisfare i suoi appetiti come gli piace; e ci deridono perché citiamo a favor nostro quel testo dell'Ecclesiastico: Deus ab initio constituit hominem et reliquit illum in manu consilii sui. Adjecit mandata et præcepta sua; si volueris mandata servare, conservabunt te etc. 15, 14 ad 16.
42. Rispondiamo; e per ispiegarci più chiaramente, avvagliamoci di un esempio triviale. Un moro è venduto schiavo ad un cristiano: il moro è tenuto ad ubbidire al padrone in quelle cose che gli comanda; ma se il padrone non gli dichiara quel che vuole, ma lo tiene occulto nella sua mente, è tenuto lo schiavo ad eseguirlo? Questo è il caso nostro: noi diciamo che l'uomo non già nasce libero ed esente da ogni legge; nasce subordinato a Dio suo creatore ed obbligato ad ubbidirlo in tutti que' precetti che
vuole imporgli: ma finché Iddio non gli fa conoscere i suoi voleri, come può esser tenuto l'uomo ad eseguirli? E quindi adduciamo il testo di sovra citato: Deus ab initio constituit hominem et reliquit illum in manu consilii sui; il Signore crea l'uomo e lo lascia nell'arbitrio di fare il bene in suo vantaggio e il male in sua ruina. Adjecit mandata et præcepta sua; quando l'uomo giunge all'uso di ragione, Iddio gli fa noti i suoi comandamenti, che sono la regola (come dice S. Tomaso) colla quale ha da regolare le sue azioni; e secondo scrive S. Agostino, l'uomo non conoscerà a principio che i soli precetti principali della legge naturale ed indi i meno principali, e secondo la cognizione che avrà di quelli sarà tenuto ad osservarli; e se gli osserverà, sarà salvo: Si volueris mandata servare, conservabunt te. Ma quali comandamenti? quelli che Dio adjecit e gli manifesta. Ora dimando; perché poi i contrarj ci deridono per avvalerci noi di questo testo a provare che l'uomo non è tenuto ad osservare i precetti naturali finché Dio non glieli fa sapere? Gran cosa! par che sia costume di tutti i nostri avversarj che dove non trovano opposizione adequata contro la nostra sentenza, per non restarvi da sotto, prendono a riso tutto ciò che diciamo. Così appunto faceva il p. Patuzzi
su questa medesima controversia, come può vedersi nel mio libro intitolato Uso moderato ec., che mandai a tutti i vescovi d'Italia e dove scrissi tutte le obiezioni fattemi dal p. Patuzzi colle mie risposte. Chi non vede che il testo da noi addotto prova chiaramente non già che Dio in dar l'essere all'uomo gli dà la libertà e licenza di far tutto ciò che gli piace, come i contrarj vogliono farci dire, ma che Dio in formare l'uomo non gli promulga già la legge naturale, come essi dicono, né l'obbliga a quella, ma solo gli comunica l'abilità, la potenza, la facoltà di conoscer la legge per quando quegli giungerà all'uso di ragione: e quando gli saran promulgati i precetti della legge, allora sarà tenuto ad osservarli.
43. Pertanto quando l'uomo sta in dubbio di qualche precetto, troppo giusta è la dimanda che fa Dio: Signore, fatemi conoscere la vostra volontà, ed io l'eseguirò. Questa appunto era la continua preghiera di Davide che faceva a Dio: Da mihi intellectum, et scrutabor legem tuam et custodiam illam in toto corde meo. Da mihi intellectum, et discam mandata tua. Da mihi intellectum ut sciam testimonia tua. Viam justificationum tuarum instrue me, et exercebor in mirabilibus tuis. Dunque Davide non si stimava obbligato ad eseguire i divini
precetti, se non dopo che Dio glieli avesse manifestati; e perciò pregava Dio che gli facesse noti i suoi precetti, affin di metterli in esecuzione dopo averli conosciuti. Lo stesso significano quelle parole: A mandatis tuis intellexi, propterea odivi omnem viam iniquitatis. Lucerna pedibus meis verbum tuum... Juravi et statui custodire judicia justitiæ tuæ. «Da' vostri precetti ho imparato a fuggire ogni via, cioè ogni occasione che mi può rendere inquieto. La vostra legge mi ha fatta conoscere la vostra volontà, e perciò ho stabilito di custodirla. » E Dio stesso gli parlava in questo tenore dicendogli: Intellectum tibi dabo et instruam te in via hac qua gradieris. Ps. 31, 8.
44. Quindi che giova a' nostri contraddittori il dire: dunque, concorrendo due opinioni, per la libertà e per la legge, sarà lecito seguir l'opinione che sta per la libertà, cioè che sta per lo vizio, e così appagare gli appetiti della carne?. E perciò dicono ancora che noi seguiamo le massime di Hobbes, che dava per lecito il soddisfare tutti i nostri appetiti; e di Spinoza, che ammettea poter noi far tutto sin dove si stendono le nostre forze. Dunque, io ripiglio, presso de' nostri avversarj significa lo stesso libertà che libertinaggio? lo stesso essere esente da qualche obbligo che seguire il vizio e gli
appetiti della carne? No: altro è il libertinaggio, che ammette i vizj e gli appetiti disordinati; altro è la libertà permessa, che importa essere esente da qualche legge non ancor manifestata. Non può negarsi esserci data da Dio questa libertà in quelle cose che non conosciamo a noi proibite. Di questa libertà scrisse S. Paolo che ben poteva avvalersi una vergine che volesse maritarsi, dicendo: Quod vult, faciat, non peccat, si nubat. E poi soggiunse: Potestatem autem habens suæ voluntatis. E dice ch'ella maritandosi non fa male, ma bene facit; benché, se non si marita, melius facit. 1 Cor. 7, 36 et seq. E certamente lo stesso intendea dire l'Apostolo per ognuno che non si vede legato da qualche precetto certo. Ho detto certo: perché, quando non è certo, insegna S. Tomaso che l'uomo non è legato; e il non osservare qualche precetto di cui si dubita se vi sia o non vi sia non è libertinaggio, non è disordine, non è seguire il vizio e gli appetiti malvagi della carne; e tanto meno è seguir le massime di Epicuro, di Hobbes e di Spinoza, come si avanzano a dire i contrarj. E pertanto quando vi sono due opinioni di egual peso e non si conosce per qual parte sta la verità, non può dirsi che l'uomo è tenuto a seguir l'opinione più rigida; poiché allora è ignoto il precetto
divino, ed è ignota la volontà di Dio che gl'imponga ad attenersi all'opinione più rigorosa.
45. Dicono che nel dubbio dobbiamo seguire l'opinione che sta per la legge, perché dee preferirsi la legge alla nostra libertà. Ottimo quando la legge esiste; ma quando non si sa se esiste o non esiste la legge? allora non è che dovrebbe preferirsi la legge, ma l'opinione di coloro che vogliono esservi la legge. E come mai questa opinione poi diventa legge che obbliga, tuttoché sia ignota la legge? dove mai sta scritta e promulgata questa legge, che tutte le opinioni rigide, nel dubbio se vi è legge, si hanno da tenere per leggi che obbligano? No, dice S. Tomaso: niuno è tenuto ad osservare un precetto, se quello non gli è manifestato: niuno è obbligato in particolare a conformarsi alla divina volontà quando non la sa: niuno è tenuto a volere ciò che vuole Iddio, se non quando Dio vuole che esso uomo voglia ciò che vuole Dio, e Dio particolarmente glielo fa palese co' suoi precetti. Tutte queste son dottrine di S. Tomaso già riferite di sovra: Nullus tenetur ad præceptum, nisi mediante scientia illius præcepti: sed in particulari nescimus quid Deus velit, et quantum ad hoc non tenemur conformare voluntatem nostram divinæ voluntati:
etsi non semper teneatur homo velle quod Deus vult, semper tamen tenetur velle quod Deus vult eum velle et homini præcipue innotescit per præcepta divina.
46. Ma se mai (replicano) innanzi a Dio è vera l'opinione che sta per la legge, l'operare contro quella opinione non è peccato? No, perché allora si pecca quando si ha cognizione del male e vi è la volontà di peccare; ma quando non vi è né cognizione della legge che vieta quel male e ne fa conoscer la malizia perché ella non è promulgata e pertanto è ignota, né vi è volontà di peccare perché il male non si conosce, allora non vi è peccato, il quale consiste nel volere il male conosciuto.
47. Il dire poi che il nostro sistema sia un puro manicheismo, facendo diventare Iddio un mostro a due teste, cioè la virtù e il vizio per essenza, e volendo che vi siano in Dio due leggi eterne e due leggi naturali nell'uomo, qual è il dogma de' manichei, niuna di queste due cose abbiamo noi per pensiero mai creduta o detta. Noi crediamo e diciamo che vi è un solo Dio, tutto bontà e virtù; e neghiamo esservi due leggi, ma diciamo che vi è una legge sola eterna ed una sola naturale, ch'è una participazione dell'eterna, la quale obbliga e lega l'uomo quando gli è manifestata; ma quando non
gli è fatta nota non lo nega né l'obbliga, perché allora non gli è applicata la legge colla promulgazione, come insegna S. Tomaso con tanti altri teologi, de' quali parte ne abbiamo riferiti di sovra ed altri lasciato di riferire per brevità.
48. Sicché non siamo noi manichei, neppure siamo obbesiani né spinozisti, perché non diciamo noi esser lecito (come voglion farci dire gli avversarj) di fare tutto quel che vogliamo, secondo ci portano gli umani appetiti, come dicea l'empio Hobbes, o di fare tutto ciò a che si stendono le nostre forze naturali. Quello che noi diciamo è che dove qualche precetto non è promulgato all'uomo, quello non l'obbliga. Del resto non lasciamo noi, come dee fare ogni buon cristiano, di pregare il Signore, siccome lo pregava Davide: Da mihi intellectum, et scrubator legem tuam; et custodiam illam in toto corde meo. Signore, fatemi intender la vostra legge, ed io con tutto il cuore la custodirò. E questo appunto è quel che insegna S. Tomaso: che la divina legge è la regola che Dio ci dà per regolar le nostre azioni, ma questa legge non può servirci di regola se non ci è manifestata.
49. Io su questa materia per lo spazio di 30 anni in circa ho letti innumerabili autori, così rigidi come benigni, e continuamente
fra questo tempo ho cercato lume a Dio per fissare il sistema che io dovea tenere per non errare. Finalmente, come ho dichiarato a principio di questa operetta, ho fissato il mio sistema, appoggiato non al mio discernimento ma alle dottrine de' teologi e specialmente del principe de' teologi S. Tomaso d'Aquino, stimato qual maestro da tutte le scuole e da tutte le università cattoliche ed universalmente da tutti i teologi più celebri della Chiesa; ma quel che più fa peso è l'essere stato dichiarato dottore dalla Chiesa. Se dunque io errassi, errerei con questo santo Dottore, il quale in tanti luoghi troppo chiaramente insegna che la legge divina non obbliga se non dopo ch'è manifestata; e chi volesse negare che questa sentenza non sia di S. Tomaso, bisogna che neghi la luce al sole. E perciò io soggiungo: siasi vera, verissima, come vogliono, questa legge che nasce per sé stessa dalle nature degli enti ragionevoli, indipendentemente dalla legge eterna, io dimando: acciocché questa natura si faccia ubbidire, ha da far conoscere o no a' suoi subbietti questa sua legge, precisa e distinta dalla legge divina? o pure, dove tutte le altre leggi umane e divine debbon esser necessariamente promulgate per obbligare, questa natura vuole esser ubbidita da' suoi sudditi senza
ch'essi abbian cognizion della legge? Sicché, secondo questo discorso, al quale pare che non vi sia che rispondere, questa legge nata dalla natura, se non è conosciuta, non obbliga; e così ecco che saremo d'accordo, mentre altro io non dico se non che, per esser l'uomo tenuto ad osservar la legge, dee conoscerla con essergli promulgata.
50. Io mi protesto che quanto ho scritto su questa materia non l'ho scritto per acquistar nome di letterato, ma solo per la gloria di Dio e per la salute delle anime. Ho scritto contro gli autori troppo benigni (da' quali ho ricevuti lamenti e disprezzi) per non veder la morale cristiana allargata alla smoderata libertà di opinare, chiamata da Alessandro VII modus opinandi alienus omnino ab evangelica simplicitate; poiché sebbene il Signore desidera la salute delle anime, nondimeno vuole che sieno osservate le sue leggi. Ho scritto ancora contro gli autori troppo rigidi, per non vedere illaqueate le coscienze e poste le anime in pericolo di perdersi per lo smoderato rigore, secondo quel che scrive monsignor di S. Ponts vescovo della Francia in un suo libro scritto in questi ultimi tempi, dove saggiamente dice: «Son cessati i maestri della morale rilassata (de' quali per altro abbondava il secolo passato), ma adesso son succeduti nuovi
maestri, le massime de' quali sono molto più insoffribili, ponendo gli uomini nella disperazione. Altro esse far non potrebbero che introdurre la corruzione de' costumi. Il numero di coloro che scusano il lor cattivo costume con quel rigorismo il quale oggi regna e dà addosso alla morale, il numero (dico) di costoro è molto maggiore del numero di coloro che han preteso di scusarsi coll'autorità della morale rilassata. »
51. Mi fa ridere il vedere che questi autori austeri che si vantano di essere i difensori del vangelo e della sana morale credono farsi ragione con quel testo di Davide, che mettono sempre avanti: Tu mandasti mandata tua custodiri nimis. Come dice il testo? mandata tua custodiri. Chi lo nega che quando la divina legge è conosciuta, si dee custodire con tutta l'esattezza, e che debbonsi fuggir anche le occasioni di trasgredirla? Ma altro è essere obbligato a custodire una legge conosciuta, altro è l'obbligo di osservare una legge strettamente ed affatto dubbia, circa la quale non si sa se vi sia o non vi sia. Ho detto strettamente dubbia; perché quando fosse la legge dubbia con dubbio largo, com'è quando l'opinione meno tuta è anche meno probabile, allora (come dissi da principio), per ragion della maggior probabilità che assiste a favor dell'opinione
più tuta, la legge si dee tenere per moralmente promulgata, e quella opinione dee seguirsi. Ma quando l'opinione per la libertà è di peso eguale, allora l'opinione più tuta non può certamente dirsi promulgata; dubbietà e promulgazione sono fra loro affatto diverse: e perciò diciamo che quando la legge è veramente dubbia non obbliga né lega, perché allora le manca la promulgazione, che l'è necessaria affinché abbia la virtù di obbligare, come apparisce chiaro dalle dottrine e ragioni rapportate di sovra. Onde la mia sentenza mi sembra incontrastabile: e dico che in tanto i fautori della rigida sentenza possono lecitamente operare coll'opinione più probabile o sia probabilissima (ch'è lo stesso presso di essi) a favor della libertà; come in ciò sono tutti d'accordo, in quanto si avvagliono della nostra sentenza, che allora la legge è dubbia e non promulgata; perché altrimenti, se dicessero che la legge obbliga, quantunque sia dubbia, ed all'incontro volessero sostenere quell'altra loro opinione, che non è mai lecito di mettersi a pericolo di offendere neppure materialmente la legge, niuno (siccome ho dimostrato in altra mia opera) niuno, dico, potrebbe in pratica con coscienza sicura operare neppur colla probabilissima per la libertà, sempre che l'opinione che sta per la legge fosse
anche dubbiamente probabile, perché sempre dovrebbe operar con timore e con pericolo di offender la legge. Onde l'unica via che possono aver questi grandi zelatori della rigidezza per operare con coscienza quieta, servendosi dell'opinione probabilissima a favor della libertà, è l'appigliarsi alla nostra sentenza, che la legge non ha virtù di obbligare se non è promulgata, e che perciò la legge dubbia non obbliga.
52. Del resto io non so capire poi come debba solamente farsi scrupolo d'insegnar le sentenze troppo benigne e non anche le troppo rigorose che illaqueano le coscienze de' penitenti e, come parla S. Antonino, ædificant ad gehennam, cioè per lo smoderato rigore son causa della dannazione di molti, che, credendosi obbligati a seguire tali sentenze, non seguendole poi, miseramente si perdono. Quante eresie e quante opinioni per lo troppo rigore sono state condannate dalla Chiesa! Quanto è bella la massima di S. Giovan Grisostomo: Circa vitam tuam esto austerus, circa alienam benignus!
53. Prego il mio benevolo lettore a dare un'occhiata alle lettere che io ho trascritte nel mio libro dell'Uso moderato ec.; e veda quanti vescovi, abati, superiori di religioni ed uomini dotti mi hanno scritto che la sentenza ne' termini da me difesa non può
contrastarsi se non da coloro che stanno colla mente pregiudicata; poiché (come dicono) è incontrastabile ed è abbracciato da tutti il principio di S. Tomaso sovra cui la sentenza sta fondata, cioè che la legge per obbligare dee essere bastevolmente manifestata, e perciò quando è affatto dubbia non obbliga. Ecco ciò che fra gli altri mi scrisse il fu abate D. Prospero dell'Aquila verginiano, che ha date fuori molte opere erudite; mi scrisse così: « Il principio sul quale ella ha fondata la sua sentenza è incontrastabile, ammesso da tutti e due i patiti de' probabilisti e de' probabilioristi. Quando la legge non è certa non può certamente indurre obbligo certo. Ed ella ha così ben dimostrato tal principio colle autorità de' canoni, Padri e teologi di primo ordine che non vi ha cosa meglio dimostrata; ed io ne farò tutto il buon uso nell'articolo che sto già stendendo dell'opinione probabile nel tomo III del Dizionario teologico ec.» Ed in effetto nel foglio già stampato del detto Dizionario (benché poi non uscì fuori perché il revisore, seguace della rigida sentenza, non volle che uscisse) alla parola Probabile io co' proprj occhi ho lette le seguenti parole:« Io propongo a leggersi la dotta dissertazione del vescovo di S. Agata D. Alfonso De Liguori. Ivi sostiene che, essendo le due
opinioni opposte ugualmente probabili, sia lecito seguire la meno sicura (ma io non dico potersi allora seguire l'opinione meno tuta perché è probabile, ma che in tal caso la legge, non essendo abbastanza promulgata, per esser dubbia, non obbliga), e fa vedere che questa è la sentenza più approvata da' dottori così antichi che moderni. Ripete egli da' suoi principj una questione tanto clamorosa nelle scuole e, dopo di averla posta nel suo lume colle autorità de' Padri più rispettabili della nostra chiesa, la conferma poi colla decisione de' migliori teologi. E non ostante i raggiri de' moralisti, che han renduta la questione intricata, pure la tratta con tanta nitidezza, che non ho letta cosa più chiara in tal materia; e mi sembra per verità la sua decisione senza replica. Ho stimato di così ragionare di sì fatta dissertazione, sembrandomi un capo d'opera in tal genere.» E sappiasi che il nominato autore, come io ho letto in altre sue opere anteriori, prima di leggere la mia scrittura era di contrario sentimento. Potrei qui trascrivere i sentimenti consimili di molti altri vescovi e personaggi di molta stima, ma questi già stanno riferiti nel mentovato mio libro; voglio qui solo trascrivere una lettera, che mi giunse dopo la stampa del libro, del p. Agostino Magliani, il quale mi scrisse trovandosi
provinciale degli Agostiniani, dopo essere egli stato lettore di teologia in Napoli per più anni. Io gli mandai il detto mio libro e lo pregai che lo facesse leggere anche agli altri maestri della sua religione e che poi mi scrivesse il suo sentimento e quello degli altri. Egli mi rispose così: «Ho ricevuto il suo libro e son restato ammirato in leggerlo. Per verità non avevo sinora lette tante ragioni così chiare e forti per la sua sentenza. Ho tardato a scrivere per esprimerle questi sinceri miei sentimenti, perché ho voluto sapere il sentimento degli altri, in mano de' quali avevo passato il libro; tutti han detto lo stesso ed hanno ammirata la profondità del suo raziocinio in materia così intrigata. Iddio le conceda lunga vita affin di promuovere sempre più la sua gloria e il profitto de' popoli. E con ogni rispetto ec.»
54. Termino replicando quel che ho scritto di sovra, cioè che in questa mia sentenza io non intendo seguire altra dottrina che quella di S. Tomaso: onde se mai taluno non intende le dottrine di S. Tomaso da me rapportate, come io le ho intese, mi dichiaro che altro io non intendo dire se non quel che dice S. Tomaso. Chi poi volesse di nuovo impugnar questa mia sentenza, non creda di avermi persuaso con quel che scriverà per non vedere alcuna mia risposta;
perché su questa materia io non intendo più di scrivere, basta quanto ne ho scritto. Del resto, se io restassi persuaso da qualche nuova ragione che mi si opponesse, sappia che da ora son pronto a rivocarmi, ed allora lo farò volentieri con pubblica scrittura.
55. Ma non so come potrà persuadermi a rivocar la mia sentenza, la quale, lasciando da parte tutto ciò che ne ho scritto in questa operetta e negli altri miei libri distesamente, parmi che un solo argomento basta a renderla certa come una dimostrazione. L'argomento è questo: 1° la legge non abbastanza promulgata, non obbliga; 2° la legge dubbia non è abbastanza promulgata; 3° dunque la legge dubbia non obbliga. » La maggiore, che la legge non abbastanza promulgata non obbliga, non ha bisogno di prova, perché questo è un principio abbracciato da tutti i teologi e canonisti, che la promulgazione è di essenza alla legge o almeno (come dicono altri) è affatto assolutamente per obbligare. E sinora non ho letto alcun autore che neghi ciò o lo ponga in dubbio. La minorei, che la legge dubbia non è abbastanza promulgata, anche è certa; perché nel concorso di due probabili opinioni eguali, una per la libertà e l'altra per la legge, non è promulgata abbastanza la legge; è promulgata abbastanza la questione, il
dubbio, se la legge vi sia o non vi sia, ma non può asserirsi promulgata la legge. Né vale il dire che in tal caso, se la legge non è certamente promulgata, almeno è promulgata probabilmente; non vale (dico), perché quando le due sentenze hanno egual peso di ragioni, niuna di loro ha peso di probabilità, poiché allora l'una elide l'altra e toglie all'altra la sua forza. Così insegnano comunemente i teologi con S. Tomaso, il quale nel luogo citato dal p. Patuzzi scrive: Inter æqualitatem etiam rationum et argumentorum solî dubio est locus. Lo stesso dice il p. Gio. Lorenzo Berti portando l'esempio della bilancia, ove quando i pesi posti nelle coppe sono eguali, è come non vi fosse peso né per l'una né per l'altra parte: In æquilibrio manet lanx, sive nullum neutrî parti, sive utrîque æquale onus imponatur. Theol. tom. 2, l. 21, c. 14, prop. 3. Lo stesso dicono il p. Gonet, man. tom. 3 tr. 3, c. 16, q. 9, ed altri; e lo stesso scrisse il mio stesso oppositore il p. Patuzzi nel suo libro - La causa del probab. ec. pag. 48 -, dove dice: «Essendo evidente che due opinioni contraddittorie egualmente probabili non possono se non generare il dubbio.» Sicché da una legge probabilmente promulgata e probabilmente non promulgata non ne risulta che un mero dubbio della promulgazione di tal legge.
56. Inoltre, posto che la promulgazione, se non è di essenza alla legge, almeno è un requisito necessario acciocché la legge abbia virtù di obbligare, come scrive lo stesso p. Patuzzi, dicendo: Consentiunt quidem omnes promulgationem esse omnino necessariam ut lex virtutem obligandi obtineat, Theol. mor. de leg., c. 1, n. 7, dimando: questo requisito ha da esser certamente verificato? Diranno, basta che sia probabilmente verificato. No, perché, siccome si è dimostrato di sovra, nel concorso delle due probabili non ne risulta il dubbio; onde in tal caso non può dirsi il requisito della promulgazione probabilmente verificato, ma solo dubbiamente verificato. Ma si conceda esser probabile che sia verificato; è probabile ugualmente ancora che non sia verificato? Ed in questo caso come può dirsi certamente verificato? Oltreché, essendo certo l'obbligo che impone la legge, la stessa ragione richiede che la legge sia certa per obbligare. Si aggiunge quel che dice S. Tomaso, che la legge è data all'uomo per regola e misura: e come può regolarsi o misurarsi l'uomo con una regola o misura dubbia? Non mancherà alcuno de' miei contrarj di affaticarsi con più raggiri ed intrecci di parole per oscurare queste mie ragioni sì chiare; ma (secondo a me pare) egli non giungerà mai a formare una risposta adequata che l'oscuri.