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S. Alfonso Maria de Liguori
Apologia contro Adelfo Dositeo (Difesa...)

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Introduzione

Un sapiente moralista domenicano, Vincenzo Patuzzi (1700-1769), deciso a fare a pezzi il "lassismo", che imputava ad Alfonso, accumulava 200 pagine contro la Breve dissertazione liguoriana del 1762, circa l'uso moderato dell'opinione probabile. In essa Alfonso, finalmente in possesso del suo sistema morale, aveva messo a punto il suo "equiprobabilismo" con questa affermazione fondamentale: essendo l'uomo creato libero, una legge incerta non poteva indurre un'obbligazione certa.

Nascosto dietro uno pseudonimo, "il molto reverendo professore Adelfo Dositeo", Patuzzi esaltava il sapiente autore del recente Trattato della regola prossima delle azioni umane (cioè se stesso) e prendeva dall'alto i quattro fogli del vescovo di S. Agata che pretendevano porsi da contrappeso ai volumi massicci e invincibili dei rigoristi.

Patuzzi Accusava Alfonso di non capire né il problema, né le obiezioni... e di mostrarsi sicuro di sé: una ignoranza colpevole, uno scandalo da riparare ritrattando. La sua argomentazione: prima dell'uomo v'era il Legislatore sovrano, quindi prima della nostra libertà la sua legge. Per questo in ogni dubbio tra legge e libertà, bisognava sempre andare sul più sicuro (tuziorismo) optando per la legge, altrimenti si accettava la possibilità di infrangerla.

L'editore di Patuzzi era... Remondini. Gli editori non facevano del lassismo o del rigorismo, ma libri che si vendevano. Però, man mano che tirava le bozze di Patuzzi, lo stampatore ne inviava segretamente i fogli a Liguori, che così poteva pesare, accogliere o già respingere il suo assalitore.

A Remondini aveva scritto Alfonso con lealtà: "Io ho promesso di rivocarmi, anche per pubblica scrittura, subito che resterò persuaso della sentenza contraria. Del resto, sopra questo punto io ho consultato molti uomini dotti e spassionati, e della stessa Religione del P. Patuzzi e P. Berti i quali, avendo letta senza passione la mia Dissertazione, mi han risposto che quel che io dico è chiaro, anzi che la mia non è opinione, ma dimostrazione; e più di un dotto, che prima era di sentenza contraria leggendo la mia Dissertazione, si è rivocato dicendo che non v'è che rispondere.

Quando taluno, per altro, vuole rispondere solamente per rispondere, non gli mancherà che dire, appigliandosi a certe cose non sostanziali. Ma io ho scritto, nella mia Dichiarazione..., che voglio esser capacitato ne' punti sostanziali; altrimenti, certamente non posso rivocarmi in coscienza, e se bisogna, di nuovo risponderò. Io molto stimo il P. Patuzzi e P. Berti; perché sono uomini veramente dotti, ma solamente Iddio e la Chiesa sono infallibili.

Il dire poi che io ho scritto per passione o per seguitare i Gesuiti, è un caricarmi d'un errore troppo grande; in volere dire che io conosco la verità, e per non lasciare i Gesuiti o il mio impegno, sono ostinato a difendere una sentenza falsa.

Questa sentenza io la difendo: perché questa tengo doversi seguire in coscienza; e tengo che non istà in buona coscienza chi vuole obbligare i penitenti a seguitare l'opinione più tuta, quando il penitente ha confessati i suoi peccati ed all'incontro le opinioni sono ugualmente probabili. Ed a questi tali che tenessero la rigida sentenza, io non mi fiderei, senza scrupolo di coscienza, dar loro la facoltà di sentir le confessioni. E questa è la verità che confesso avanti a Dio. Del resto, dicano quel che vogliano... ".

Pertanto Alfonso, pur non allontanandosi da una cortesia punteggiata a volte da un sorriso amaro, non lasciò il campo ai tuzioristi, essendo troppo connessa con il dibattito la salvezza delle anime. A Patuzzi, ecco Alfonso rispondere con le sue 199 pagine dell'Apologia contro "un molto rev. P. Lettore, che si nomina Adelfo Dositeo" nel 1764.

Quest'ultimo rispose e Alfonso nel 1765 aggiunse all'Apologia un'Appendice, la cui parte più interessante è per noi oggi questa solenne affermazione: "Dicano poi quel che vogliono, ch'io parlo per impegno, e per passione. Io non so, donde ha da venirmi questa passione. Io da questo mondo non posso sperare più niente. L'età così avanzata, e le infermità che di continuo mi assaltano, mi annunziano già vicina la morte; onde troppo grande sarebbe la mia pazzia, se forse per mendicare applausi da taluni, o per acquistar nome, io persistessi a sostenere questa mia sentenza. Quel che ho scritto, l'ho scritto perché così la sento avanti a Dio, che presto mi ha da giudicare; ed avrei scrupolo grave a dire il contrario".

Cf. Th. ReyMermet,

Il Santo del secolo dei lumi

Città Nuova 1982, pp. 706-707

 

 




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