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S. Alfonso Maria de Liguori Apologia contro Adelfo Dositeo (Difesa...) IntraText CT - Lettura del testo |
§ V. - Si risponde ad alcune dottrine di S. Tomaso, che irragionevolmente ci si oppongono; e si espone più ampiamente un altro testo del Santo, già prima nella dissertazione riferito, cioè che non siamo noi tenuti a conformare la nostra volontà con quella volontà di Dio che da noi non è conosciuta.
Il mio oppositore vuol confutare la nostra sentenza con alcune autorità del Maestro angelico, alle quali per altro già si è risposto mille volte e distesamente da me e da altri; ma per soddisfazione de' lettori si risponde qui brevemente. In primo luogo adduce la dottrina che il Santo scrive nella qu. 3 de malo, art. 7, ove dice: Non est absque praesumptione quod aliquis de ignoratis sententiam fert. Primieramente potremmo dire che questa dottrina è contro il p. lettore, mentre egli de ignoratis sententiam fert. Ma vediamo che cosa da questa autorità esso ne deduce: «Se taluno (dice) vuol celebrare un contratto il quale è probabile che sia proibito, e probabile che non sia proibito, come mai, non sapendo già che quello certamente sia lecito, può decidere che certamente è lecito? Per
rispondere bisogna tornare di nuovo a ripetere quel che tante volte si è replicato di sopra. Bisogna distinguere il giudizio speculativo dal pratico. Speculativamente parlando, quel contratto sarà probabilmente ingiusto e probabilmente giusto; ma, per la sola probabilità che sia giusto, il contratto non può lecitamente celebrarsi. In pratica però, posto che il contratto è probabilmente giusto, può lecitamente farsi, non già per la sola probabilità della giustizia, ma per lo principio certo riflesso che in tal caso non v'è legge che obblighi a non celebrarlo; mentre, essendo ella dubbia, non è promulgata a segno che basti ad obbligare. Sicché allora non già decide il contraente, come dice il p. lettore, che quel contratto certamente non è proibito dalla legge, ma sapendo che probabilmente non è proibito, sta sicuro che allora la legge (se mai vi fosse) certamente non obbliga, e così lecitamente lo celebra.
In secondo luogo adduce la dottrina che scrive S. Tomaso nel quodlib. 8, all'artic. 13, ove, parlando della questione se sia lecito avere più prebende, dice che quando taluno non habet conscientiam de contrario, sed tamen in quandam dubitationem inducitur a contrarietate opinionum et sic, si, manente tali dubitatione, plures praebendas habet, periculo se committit, et sic procul
dubio peccat: aut ex contrariis opinionibus in nullam dubitationem adducitur, et sic non committit se discrimini nec peccat. Questo testo che si adduce dal p. lettore non può intendersi come gli lo spiega, dicendo che S. Tomaso qui, parlando di colui che non è in pericolo di peccare, parla di chi non è entrato mai in alcuna dubitazione; perché il Santo chiaramente dà ad intendere che parla di chi già ha dubitato dell'onestà di poter avere più prebende, col dire: non habet conscientiam de contrario, sed tamen in quandam dubitationem inducitur ex contrarietate opinionum et sic, si, manente tali dubitatione etc., con quel che seguita, come di sopra. Dicendo poi: aut ex contrariis opinionibus in nullam dubitationem adducitur etc., suppone certamente che il chierico dal dubbio speculativo che prima avea è passato ad aver la certezza morale, per cui in pratica si forma il dettame certo di poter possedere più prebende. Onde bisogna intendere il testo dell'Angelico, come lo spiegano gli altri con Cristiano Lupo. Dice il Santo: Manente tali dubitatione, periculo se committit, et sic procul dubio peccat. Chi opera col dubbio pratico, senza aver motivo certo da poterlo deporre, certamente pecca, perché si espone al pericolo di peccare. Siccome dello stesso dubbio
pratico parla S. Tomaso in quell'altro testo, riferito dal p. lettore: Qui aliquid committit vel omittit in quo dubitat esse peccatum mortale, peccat mortaliter, discrimini se committens. 4 sent., dist. 2, q. 2, a. 3 ad 3. Ma se poi, dice il Santo nel primo testo addotto, ex contrariis opinionibus in nullam dubitationem adducitur, in modo che si formi il dettame certo in coscienza di poter tenere lecitamente più prebende, allora non si espone ad alcun pericolo né pecca. Quindi giustamente il p. fra Giovanni di S. Tomaso, vide in 1, 2, q. 90, adduce appunto questo testo dell'Angelico in favore della nostra sentenza. Ed in verità non può in altra maniera intendersi come chi dubita in mezzo a due opinioni contrarie possa formarsi il dettame certo di poter seguire l'opinione men sicura, se non col giudizio riflesso che gli rende certa l'onestà dell'azione.
In terzo luogo oppone il p. lettore un altro testo di S. Tomaso, ove, parlando il Santo delle leggi umane, dice che non può operarsi contro le parole della legge, se non quando manifestum est per evidentiam nocumenti legislatorem aliud intendisse. Si enim dubium sit, debet vel secundum verba legis agere vel superiorem consulere, 1, 2, q. 96, art. 6 ad 2. E così va certamente, che quando le parole della legge sono espresse
non può operarsi in contrario di quelle, se non è manifesto che in qualche caso il legislatore abbia inteso altrimenti di quel che ha espresso nella sua legge. Che se poi si dubita di questa intenzione diversa, allora o dee osservarsi la legge, o dee ricorrersi al superiore per sapere il suo sentimento: poiché quando le parole della legge son chiare ed espresse, dice il Santo che al solo superiore sta l'interpretar la legge. Ma che ha da fare questo caso col nostro, dove non si tratta di operare contro le parole espresse della legge, ma solo contro l'opinione che vi sia la legge, ossia contro una legge dubbia, la quale, non essendo abbastanza espressa e promulgata, certamente non obbliga? Rapporta ancora ivi il p. lettore in conferma del suo dire un passo del p. Suarez, de legib., lib. 6, cap. 8, n. 10. In quanto alla dottrina del p. Suarez, avrei già la risposta chiara, ma, per non farla lunga dico solo: come mai il p. Suarez può essere a suo favore, mentre il Suarez in altro luogo scrive chiaramente quel che noi difendiamo? Dicendo: Quamdiu est judicium probabile quod nulla lex sit prohibens actionem, talis lex non est sufficienter proposita homini; unde, cum obligatio legis sit ex se onerosa, non urget donec certius de illa constet. De consc. prob., d. 12, sect. 6.
In quarto luogo adduce un altro celebre testo di S. Tomaso nel quodlib. 9, all'art. 15, ove dice: Error quo non creditur esse mortale quod est mortale conscientiam non excusat a toto, licet a tanto. Questo testo già fu da me riferito ed esaminato nella mia dissertazione, ed ivi già notai come spiega S. Antonino quelle parole non excusat a toto; dice il santo Arcivescovo: Sane intelligendum quando erraret ex crassa ignorantia; secus si ex probabili, cioè quando si controverte tra' savi se un contratto sia o no usurario; del quale caso parla appunto ivi S. Antonino, soggiungendo ivi: cum sapientes contraria sibi invicem sentiant. Par. 2, tit. 1, c. 11, §28. Poiché allora, dice il Santo, vi è l'ignoranza quasi invincibilis, quae excusat a toto. Ed è chiaro dal contesto che S. Antonino di due opinioni probabili scusa, in quanto allora v'è l'ignoranza invincibile della certezza della legge; e perciò, essendo ella incerta, non induce obbligazione certa. Lo stesso poi che dice S. Antonino spiegando il testo dell'Angelico- non excusat a toto- ho trovato che lo dice ancora il p. Gonet: Loquitur (S. Thomas) de errore crasso aut vincibili, qui oritur ex negligentia addiscendi. Man. to 4, tract. 6, de leg., §4. E così necessariamente dee intendersi: poiché (come
abbiam veduto di sovra al § II) il santo Dottore in tanti luoghi insegna darsi senza dubbio l'ignoranza invincibile anche de' precetti divini, parlando di quelli che son rimoti da' primi principi.
Così rispondo ai testi di S. Tomaso che nel suo libro mi oppone il p. lettore; e credo che le risposte non sono inette e deridevoli, com'egli facilmente si degnerà di nominarle tutte. Ma vorrei che mi rispondesse adequatamente a quell'altro rifugio da disperati, dico a quell'altro testo del santo Dottore, che io ho addotto già per la mia sentenza nella dissertazione, ed egli già vi ha risposto, ma la risposta non mi pare adequata. Il testo è questo: S. Tomaso, 1, 2, q. 19, a. 10, fa il quesito: Utrum necessarium sit voluntatem humanam conformari voluntati divinae in volito, ad hoc ut sit bona; e dice che l'uomo è tenuto a conformarsi alla divina volontà nel volito formale, cioè, come spiega il Santo, in volito boni communis (perché noi non possiamo lecitamente volere se non ciò ch'è buono), ma non già nel volito materiale. Questo volito materiale comprende, siccome l'intendono così S. Tomaso come tutti gli altri teologi e lo stesso mio oppositore, comprende (dico) cinque sorte di cose: precetti, proibizioni, permissioni, consigli e disposizioni divine. Il Santo poi
(ad primum) si fa l'opposizione: Videtur quod voluntas hominis non debeat semper conformari divinae voluntati in volito; non enim possumus velle quod ignoramus.... Sed quid velit Deus, ignoramus in pluribus; ergo non potest humana voluntas divinae voluntati conformari in volito. E risponde: Ad primum dicendum quod volitum divinum, secundum rationem communem, quale sit scire possumus; scimus enim quod Deus quicquid vult, vult sub ratione boni. Et ideo quicunque vult aliquid sub quacunque ratione boni, habet voluntatem conformem voluntati divinae, quantum ad rationem voliti, ch'è il volito formale o sia comune. Soggiunge poi: Sed in particulari nescimus quid Deus velit (parlando del volito materiale); et quantum ad hoc non tenemur conformare voluntatem nostram divinae voluntati. Dunque (io scrissi nella dissertazione) non è tenuto l'uomo di conformarsi alla divina volontà in particolare (anche a rispetto de' divini precetti), ove questa volontà di Dio non gli è manifestata, siccome più distintamente dichiara il p. Gonet: Homo non tenetur conformari voluntati divinae in volito materiali, nisi quando voluntas divina nobis praecepto vel prohibitione manifestatur. Clyp. to. 3, d. 6, art. 2, n. 37 in fin.
Or udiamo la risposta che mi dà il p.
lettore. Eccola: «Non potreste credere abbastanza, monsignore, qual sentimento di compassione provi in me medesimo verso la riverita (si vede dagli onori che mi fa) vostra persona in riferire questo passo. Sapete quello che devo dirvi in risposta? e vel dirò con tutto quel rispetto che il grado vostro si merita (Per carità, ditelo presto, e lasciamo tante cerimonie da parte. Che mi avete da dire?): che studiate meglio le questioni e le dottrine di S. Tomaso e de' teologi prima di registrare sulla carta i sentimenti vostri, per non avervi a trarre addosso gli scherni degl'intendenti (obbligato a tante grazie).» Così scrive il mio oppositore, ma non intendo poi, quale sia l'errore, ch'egli mi nota in quel che ho scritto nella mia dissertazione. Ma passiamo avanti. Indi riferisce in succinto l'articolo di S. Tomaso nella maniera come io l'ho esposto; e poi soggiunge: «Quanto poi al volito che materiale si appella, di cinque sorte ne distinguono i teologi: precetto, proibizione, permissione, consiglio e operazione di Dio, ch'è a dire, ciò che vien fatto o disposto da lui. Riguardo al precetto e proibizione sempre dobbiamo conformarci alla volontà divina, eziando quanto al volito materiale: mentre ci ha dati i suoi precetti affinché gli osserviamo; e questi già sono notificati bastevolmente
nelle sue leggi. (Ma dimando: quando poi queste leggi non fossero bastevolmente notificate?) Ma questo istesso debito non abbiamo in riguardo alle cose che Dio permette, consiglia ovvero opera nel mondo; mentre su queste non ci ha imposto comando, e neppure della maggior parte sappiamo qual sia la divina volontà: siccome per esempio noi non sappiamo se sia volontà di Dio che muoia quella persona ch'è ammalata, che perdiam quella lite di cui si tratta, che incorriamo quella disgrazia che ci sovrasta: onde v'ha luogo alla preghiera e all'uso di tutti i mezzi umani per impedire quei mali che temiamo e procurarci quei beni che desideriamo.
«E questo è, monsignore, il senso legittimo e chiaro delle parole di S. Tomaso addotte da voi. Si era egli opposto nel primo argomento: Videtur quod voluntas hominis etc.» E qui trascrive il testo che già noi abbiam trascritto di sopra dell'opposizione che si fa il Santo e della risposta che dà. Indi soggiunge il p. lettore: «Può essere più manifesto l'abuso da voi fatto dell'autorità di S. Tomaso? Perché noi ignoriamo qual sia in particolare la divina volontà in pluribus che permette o che opera in questo mondo, e perciò non siamo tenuti a conformarci ad essa in tutte le cose che succedono
se non quanto alla ragione universale; per questo non saremo ancora tenuti a conformarci in tutto ciò che ci proibisce o comanda? Non ci ha fatta Iddio su questo abbastanza nota la sua volontà colla legge che ci ha intimata perché l'osservassimo? E se pure alle volte, pel contrasto delle opinioni, questa legge ci è oscura e non la ravvisiamo con certezza, possiamo noi dire di non averne almeno una cognizione probabile (dovea dire notizia dubbia)? E tanto non ci deve bastare per osservarla e non esporsi ad un grave pericolo di operare contro la volontà di Dio, non facendone quel conto che merita?» Ho voluto registrare qui tutto il suo discorso, acciocché il lettore lo consideri, e poi consideri la mia risposta.
Dunque il p. lettore vuol dire che quell'ignoramus in pluribus che scrive S. Tomaso s'intende solo di ciò che Dio permette o che opera in questo mondo, e non già di ciò che Dio comanda o proibisce. Ma io dimando al p. lettore: non dice egli stesso che il volito materiale comprende ancora i precetti e le proibizioni? e S. Tomaso non parla egli generalmente di tutto il volito materiale, che comprende ancora i precetti e le proibizioni? Come ora vuole il p. lettore che il volito materiale comprenda solamente quel che Dio permette o che opera in questo
mondo, sicché solamente in quel che Dio permette o che opera non siam tenuti noi a conformarci alla divina volontà quando ella non ci è manifesta, ma riguardo (come esso dice) al precetto e proibizione sempre dobbiamo conformarci alla volontà di Dio, eziandio quanto al volito materiale? Si signore (rispondo ancor io), ben siamo tenuti a conformarci alla volontà di Dio in quanto a' precetti e proibizioni quando il precetto è certo; ma quando il precetto è dubbio, essendo probabile che quello vi sia e probabile che non vi sia, come sappiamo allora che v'è il precetto? Quando sono probabili ambedue le opinioni contrarie circa del precetto, allora (come di sovra vedemmo nel § II) lo stesso mio oppositore concede che da ciò non si deduce che un mero dubbio del precetto: onde allora solamente può dirsi che dubitiamo del precetto, ma non può mai dirsi che lo sappiamo; anzi allora propriamente dobbiam dire che non lo sappiamo; e quindi secondo S. Tomaso non siamo obbligati a conformarci in quel volito materiale che non sappiamo. Che poi le contrarie opinioni non formino che il mero dubbio, lo confessa il medesimo p. lettore nella pag. 48, ove dice: «Troppo è evidente che due opinioni contraddittorie egualmente probabili non possono se non generare il
dubbio.» E poco avanti avea detto: «Le ragioni che convincono a suo favore (cioè a favor della legge) essendo gravemente probabili, inducono per necessità il dubbio.» Inducono dunque per necessità il dubbio, ma non già la cognizione della legge.
Né vale a dire che nel conflitto di due probabili l'uomo se non sa certamente la legge, almeno la sa probabilmente: poiché si risponde, come si disse già prima in altro luogo, che ciò solamente può aver luogo, quando la probabilità fosse solo per l'esistenza della legge, ma quando insieme è probabile che la legge non esiste, allora è certo che la legge è dubbia, e per conseguenza è certo che ci è ignota la legge. Onde non dice bene il p. lettore, dicendo che la cognizione probabile della legge ci dee bastare per osservarla e non esporsi ad un grave pericolo di operare contro la volontà di Dio, non facendone quel conto che merita: perché non basta a farci aver cognizione della legge la notizia probabile che la legge vi sia quando all'incontro anche è probabile la notizia che non vi sia; poiché allora non v'è cognizione della legge, ma solamente v'è cognizione del dubbio se la legge vi è o no; onde affatto non può dirsi in tal caso che la legge sia nota. E per conseguenza quando non è nota la legge neppure vi è
pericolo di peccare con operare contro la divina volontà: giacché, come dice S. Tomaso, il Signore bensì ci comanda che noi ubbidiamo alla sua volontà conosciuta, ma non già a quella sua volontà che noi non conosciamo.
Or tutto questo che abbiam detto, cioè che nel volito materiale si comprendono principalmente i divini precetti, ed inoltre che Iddio non ci obbliga a seguire la sua volontà se non dopo che ella ci è manifestata per mezzo de' suoi precetti, tutto chiaramente lo conferma S. Tomaso in altro luogo, 2, 2, qu. 104, art. 4 ad 3, dove propone il quesito: Utrum in omnibus Deo sit obediendum. Il Santo dice di sì; ma poi si fa l'obiezione ad 3 così: Quicunque obedit Deo, uniformat voluntatem suam voluntati divinae etiam in volito: sed non quantum ad omnia tenemur conformare voluntatem nostram voluntati divinae, ut supra habitum est; 1, 2, qu. 19, a. 10 (questo è il luogo già riferito di sovra del volito materiale). Ergo non in omnibus tenetur homo Deo obedire. E risponde così: Ad tertium dicendum quod etsi non semper teneatur homo velle quod Deus vult, semper tamen tenetur velle quod Deus vult eum velle et homini praecipue innotescit per praecepta divina. Ecco che qui S. Tomaso già spiega di che parlava nel primo
luogo riferito di sovra quando disse: in pluribus ignoramus, cioè che in pluribus del volito materiale noi ignoriamo non solo quel che Dio opera, consiglia o permette, ma anche quel che proibisce o comanda. Spiega inoltre che, per esser noi tenuti a questi divini precetti, debbon questi essere a noi manifestati. Sicché l'uomo dee ubbidire a Dio e conformarsi alla di lui volontà non già in tutte le cose che Dio vuole, ma solamente in quelle che vuole Iddio che noi vogliamo: Quod Deus vult nos velle. Ma come sapremo noi quel che Dio non solo vuole ma vuole che ancora noi vogliamo? Lo sapremo, dice S. Tomaso, quando ci sarà fatto ciò noto per li suoi divini precetti: Et homini praecipue innotescit per praecepta divina. Non basta dunque la notizia dubbia del precetto per obbligarci ad osservarlo, come volere di Dio, ma è necessaria la notizia certa e manifestata: tanto significa certamente la parola innotescit.
Or io dimando, per concludere: quando questa volontà di Dio, circa l'osservanza de' suoi precetti particolari non ci è manifestata siamo noi tenuti di conformarci a quella? No, dice l'Angelico nel luogo di sovra riferito e che bisogna qui di nuovo ripeterlo: Sed in particulari nescimus quid Deus velit (e qui certamente il Santo parla di tutto ciò
ch'è compreso nel volito materiale): et quantum ad hoc non tenemur conformare voluntatem nostram divinae voluntati. E questo appunto è quello ch'io dicea, cioè che nel volito materiale non siamo noi tenuti a conformarci a quei divini precetti e proibizioni che non sono a noi manifestati. E questo appunto è quel che ancora conferma il p. Gonet, dicendo: Homo non tenetur conformari voluntati divinae in volito materiali, nisi quando voluntas divina nobis praecepto vel prohibitione manifestatur. Poteva dunque il mio oppositore esimersi da tanta pena che egli ha patita per la compassione avuta di me sopra questo punto in vedermi fatto oggetto di scherni.
Io per me penso che questo solo testo di S. Tomaso basta a far certo il principio che la legge incerta non può indurre un obbligo certo; mentre insegna il Santo che non siamo noi obbligati ad ubbidire a quella volontà di Dio o sia a quel precetto che a noi non è palese, essendo cosa incontrastabile che pel conflitto di due probabili non è palese il precetto ma solamente il dubbio del precetto.
Ma per tutto quel che ho detto in questa mia apologia, ognuno vede che S. Tomaso è stato sempre conforme in ammaestrarci che la legge dee esser certa per obbligare: ed in tutti i luoghi dove il Santo ha parlato di
questa materia sempre ha usati termini precisi, che fan conoscere tal essere la sua mente. Egli ha detto che la legge, per legare, dee esser applicata e promulgata colla di lei cognizione, 1, 2, q. 90, a. 4; e che la promulgazione della legge naturale allora si fa agli uomini quando essi per mezzo del lume naturale ne hanno la cognizione, quod Deus eam mentibus hominum inseruit naturaliter cognoscendam. Ibid. ad 1. Dice inseruit eam: dunque la legge divina allora vien promulgata ed allora obbliga quando vien inserita nella mente dell'uomo essa legge, non già il solo dubbio della legge. Dice naturaliter cognoscendam: dunque l'uomo allora resta obbligato alla legge quando egli conosce la legge. Ma basta la notizia probabile. Non signore, non basta: basterebbe se vi fosse la probabilità solo per parte della legge; ma quando vi è probabilità eguale dall'una e dall'altra parte, allora quella notizia è assolutamente dubbia: onde allora non si giunge a conoscer la legge, ma solo si conosce il dubbio, la questione se vi sia o no la legge. Ha detto di più S. Tomaso che questa cognizione della legge (chiamata dal Santo misura perché con quella dee misurare l'uomo le sue azioni) dee essere certissima: mensura debet esse certissima. 1, 2,
qu. 19, art. 4, ad 3. Ha detto che siccome la fune non lega se non è applicata col contatto vero e sensibile, così il precetto non lega se non per mezzo della scienza del medesimo; e poi ha soggiunto che niuno vien legato dal precetto, se non per mezzo della scienza di quel precetto: Unde nullus ligatur per praeceptum, nisi mediante scientia illius praecepti. De verit. q. 17, a. 3. Ha detto che l'uomo allora solamente è tenuto ubbidire alla divina volontà, quando questa divina volontà gli è manifestata per mezzo de' precetti: et homini praecipue innotescit per praecepta divina. T. 2, q. 10, a. 10.
Ciò non ostante, il p. lettore spiega S. Tomaso tutto al contrario, e poi dice: «Questa è la mente di S. Tomaso»; com'egli fosse un interprete infallibile di S. Tomaso. Indi conclude in breve che i testi del Santo da me rapportati «sono o inutili o fuor di proposito o malamente intesi e spiegati.» Ma ciò non bastava dirlo, dovea provarlo: altrimenti tutti seguiranno a credere, secondo i vocabolari che corrono, che queste espressioni di S. Tomaso, cioè che la legge, per obbligare, dee esser conosciuta, che niuno è legato dal precetto se non per la scienza del precetto, che la legge dee esser certissima, che non siam tenuti a conformarci alla divina volontà se non quando ella ci è manifestata per
mezzo de' precetti e simili, non possono altro significare tranne che la legge non obbliga se non quando è conosciuta, se non quando è certissima, se non quando se ne ha la scienza e se non quando è manifestata. Io tengo per certo che il p. lettore può scordarsi di confutar la nostra sentenza, se prima non confuta S. Tomaso e dimostra che il Santo quante cose ha dette su questo punto, le ha dette a caso e senza ragione. Se non dimostra ciò, ha perduta la causa.
Lascio di rispondere ad alcune altre opposizioni che dal p. lettore stanno buttate dentro del suo libro; mentre giudico che o a quelle già è stato da me risposto nella mia dissertazione, o che non richiedono risposta particolare: mi contento di aver risposto a quelle cose che con maggior apparato e calore ha procurato egli di oppormi. Si lamenta il p. lettore ch'io nella dissertazione ho tralasciato di rispondere a tutti i motivi che esso ha scritti nel libro della Regola prossima ec., in cui si pretende di abolire l'uso d'ogni sentenza probabile, permettendosi quelle sole che non hanno in contrario altro che semplici scrupoli irragionevoli ed imprudenti. Ma a torto di ciò si lamenta: perché così in quella dissertazione come in questa apologia, il mio intento non è stato di rispondere a tutte le obiezioni che si fanno
contro l'uso del probabile, ma solamente ho inteso di provare il principio che la legge dubbia non obbliga e di rispondere a quelle opposizioni che direttamente impugnano un tal principio; il quale se è vero (come io lo tengo), tutte le altre opposizioni vanno a terra.
Egli poi in questo suo libro tante volte m'inculca a ritrattare quel che ho scritto, e me lo dice in modo come io, per sostenere il punto, voglia più presto mettere a rischio la mia salute eterna che cedere all'impegno. Lo ringrazio di questo buon concetto che ha di me. Dunque io ho lasciato il mondo, mi son privato della mia libertà entrando nella mia congregazione, dove si fa voto di stretta povertà e di perpetua perseveranza, mi sono ridotto in somma a vivere da povero missionario in una cella (benché poi da quella mi ha cacciato l'ubbidienza), e perché? Per morire dannato, a cagion di non voler ritrattarmi da questa mia sentenza, dopo aver conosciuta la verità (come si va immaginando il p. lettore, ) per non cedere all'impegno? Ma che pazzia sarebbe questa per me! Tanto più che il rivocarmi non mi sarebbe di disonore, ma più presto di lode in faccia a tutto il mondo. Direi, rivocandomi, che sinora sono stato in buona fede; ma perché son uomo soggetto ad errare, avendomi il Signore
appresso illuminato, non ho voluto resistere a questo lume divino. È certo che tutti, anche quelli che sono della mia sentenza, mi scuserebbero e mi loderebbero come uomo di retta coscienza. Gli antiprobabilisti poi quali elogi non mi darebbero da per tutto, s'io mi facessi del lor partito! Quando che all'incontro reso ora presso il p. lettore e presso altri tuzioristi moderni suoi compagni nel vile concetto di cervello storto, di lassista, di ridicolo e di ostinato e, per compimento, d'uomo di mala coscienza. Ma mi consola che il giudizio della mia eterna salute nella morte (che mi sta vicina per l'età avanzata e per le infermità che patisco) non si ha da fare dal p. lettore, ma da Gesù Cristo, il quale vede il fondo de' cuori. Replico quel che dissi a principio: io tremo del giudizio per causa de' peccati fatti, ma non certamente per questa sentenza che difendo; mentr'ella mi sembra così certa che, secondo mi pare, solo la santa Chiesa potrà farmi cambiar sentimento col condannarla; ed in tal caso io sottoporrò il mio giudizio alla di lei autorità infallibile e dirò che mi bisogna ubbidire, benché siami ignoto il perché. E se mai dopo la mia morte la santa Chiesa dichiarasse in avvenire il contrario di ciò che ho scritto, da ora mi protesto che intendo tutto di ritrattarlo e rivocarlo. Io non ho lo
spirito di profezia; nondimeno ho questo sentimento che non mai la Chiesa dichiarerà per vera la sentenza del mio oppositore, cioè che non sia lecito far uso d'altre sentenze se non di quelle che sono moralmente certe con giudizio diretto. E dico ciò appoggiato non alle mie sole riflessioni ed al mio debole talento, ma a quel che hanno scritto tanti teologi e specialmente il Maestro angelico, uomo così illuminato da Dio e dichiarato già dottore della Chiesa.
Io già penso che la risposta che farà il p. lettore a questa mia apologia sarà forse più voluminosa della prima; dove non lascerà di scrivere mille altre spieghe a modo suo sopra le autorità da me addotte, e mille altre sottigliezze ed equivoci, rampicandosi alle frasche, ove vedrà venirgli meno il piede, come ha fatto in questo suo libro; ma le frasche, sempre son frasche. Quante volte penso che avrà da replicarmi: Ma che cosa mai potrete voi, monsignore, rispondere a queste verità così evidenti? e farmi simili altre interrogazioni a lui tanto familiari, come dicesse cose che veramente fossero evidenti, quando a quelle vi saranno pronte e chiare le risposte, secondo i tanti esempi che già abbiamo esaminati di sovra, dov'egli asserisce più cose, come non ammettessero risposta, quando avrebbe potuto ognuno facilmente
rispondervi. Ma replico quel che dissi da principio: ch'io più non risponderò, per quante nuove cose egli affaccerà, se non mi vedrò convinto dalle ragioni o dalle dottrine che addurrà; ed allora non lascerò di ritrattarmi con pubblica scrittura: ma non avendole egli sinora trovate queste ragioni, o queste dottrine, stimo che difficilmente le ritroverà appresso. Intendo del trovarle tali che possano convincere me e gli altri che le leggeranno. Quindi, s'io non rispondo, prego chi legge a non credere ch'io sia rimasto convinto o almeno posto in dubbio della mia sentenza, finché non vedrà data alle stampe la mia ritrattazione.
Aggiungo. Si ristampa ora in Napoli il libro del mio oppositore per opera di quello stesso soggetto (per quanto so) che ha spinto il mio oppositore a scrivere contro la mia dissertazione. Mi è occorso di leggere l'approvazione fatta al libro da un certo sacerdote secolare a cui n'è stata commessa la revisione. Il revisore primieramente ivi dice non avervi trovata cosa contraria a' buoni costumi. Dunque è cosa conforme al buon costume l'ingiuriare che fa l'autore con tanti improperi chi non tiene la sua sentenza? Ma non dicono così i pontefici nelle loro bolle, come riferimmo alle pag. 142 e 143. Indi il reverendo revisore dice che ha ammirata la
dottrina e la saviezza dell'autore nel confutare coloro che combattono la sana morale di Gesù Cristo. Povero me, dove sono arrivato! senza saperlo sono arrivato a combattere la sana morale di Gesù Cristo! Egli ammira la dottrina e la saviezza del mio oppositore. Ed io ammiro lo spirito e stile uniforme che hanno tutti questi signori tuzioristi moderni, chiamati tuzioristi miti: essi per altro non seguitano i tuzioristi più antichi chiamati rigidi in tener la proposizione condannata che riprova l'uso anche dell'opinione probabilissima (benché tra le due sentenze de' miti e de' rigidi è tanto picciola la differenza che vi bisogna molto studio a saperla discernere); ma possono ben darsi il vanto i nostri tuzioristi miti, che nel maltrattare chi non tiene la loro sentenza non solamente imitano i rigidi, ma di molto forse gli avanzano. Dunque io nel difendere l'eque-probabile combatto la sana morale di Gesù Cristo? Ringrazio il signor revisore di questo bell'onore che mi fa. Vorrei sapere però che peggio potea dirmi, se la sentenza che con tanti altri di me più dotti io difendo fosse stata già condannata dalla Chiesa? Dunque la sana morale di Gesù Cristo esige che tutti gli uomini sieno obbligati per precetto a non ammettere altre sentenze, se non quelle che sono moralmente certe? Ma dove mai ed in
qual vangelo ha insegnato ciò Gesù Cristo? Ma quale inganno è questo che oggidì corre presso di alcuni! Col farsi partigiani del rigido sistema credono di dimostrare zelo per le divine leggi; senza riflettere che siccome Iddio vuol che si osservino esattamente quelle cose che sono di precetto, così per contrario non vuole e proibisce che si astringano gli altri ad osservar sotto colpa quelle cose che non sono di precetto.
Vorrei sapere ancora dal signor revisore s'egli crede che il p. lettore col suo libro veramente mi ha convinto e confutato. E se ciò crede, vorrei sapere con quale forte ragione o autorità egli mi ha convinto e confutato. Vorrei che per carità me lo facesse sapere: ne lo prego; mentre io, per quanto ho letto e riletto il libro, non ho trovata cosa che mi convinca, ma ho trovato che tutte le di lui opposizioni, apparendo così frivole e deboli, mi hanno molto più confermato nella mia sentenza. Io non so che forma di approvazione è questa, l'approvare un libro con asserire che la sentenza a quello contraria, difesa già da tanti autori e tenuta da tanti personaggi rispettabili per dottrina e dignità, combatte la sana morale di Gesù Cristo! Meglio avrebbe detto esso col suo tanto encomiato autore che la sana morale di Gesù Cristo insegna che per consiglio
conviene attenersi ne' dubbi al più sicuro, ma non per precetto; poiché certamente Iddio non ha imposto mai agli uomini un tal precetto di osservare tutte le leggi che son dubbie. Dico certamente, per ragione delle prove che ne ho addotte di sovra, le quali a me sembrano più chiare del sole, e tali ancor sembreranno a chi vuol giudicarle senza passione.