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S. Alfonso Maria de Liguori
Istruzione e pratica pei confessori

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Punto I. Della coscienza retta, erronea, perplessa, e scrupolosa.

3. Della coscienza retta.

4. Dell'erronea.

5. Se diasi ignoranza de' precetti naturali.

6. Chi stima che 'l desiderio malo non sia peccato.

7. Della coscienza perplessa.

8. ad II. Della coscienza scrupolosa.

3. La coscienza retta è quella che detta una cosa vera, contra cui chi opera, certamente pecca.

4. La coscienza erronea è quella che detta una cosa falsa. Questa coscienza erronea poi si divide in invincibile, e vincibile, o sia colpevole. La invincibile è quando non occorre alla mente alcun dubbio, o memoria dell'errore; e secondo questa siamo allora obbligati ad operare, essendo ella la regola prossima (come abbiam detto già di sopra), secondo il cui dettame dobbiamo fare le nostre azioni. La vincibile poi è quando occorre già alla mente il dubbio di errare, e l'obbligo di vincerlo, e si tralascia di usare la dovuta ordinaria (non già massima) diligenza per indagar la verità. Chi opera con tal coscienza, sempre pecca, o sia che operi contra la legge, o contra la coscienza.

5. Si domanda qui, se possa darsi ignoranza invincibile de' precetti naturali. Quando l'ignoranza è invincibile


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è ancora incolpabile, com'è certo dalla propos. 2. di Michele Baio dannata da Alessandro VIII. la quale diceva: Tametsi detur ignorantia invincibilis iuris naturae, haec in statu naturae lapsae non excusata a peccato formali. E lo stesso che Baio, ha detto m Nicolio1, sotto nome di Wendrochio, dicendo che tale ignoranza era pena del peccato originale: ma ciò è stato già condannato in Baio. Resta dunque solo a vedere, se diasi vera ignoranza invincibile circa i precetti di natura. Si risponde colla sentenza comune (contra Sinnichio ed altri pochi) insegnata da s. Antonino, Soto, Maldonato, Suarez, Azorio, Sanchez, Gammacheo, Duvallio, Wigandt, Gonet (il quale giustamente chiama la contraria singolare ed improbabile), e da altri molti col dottissimo cardinale Gotti2. Bisogna distinguere i primi principii e le conclusioni immediate dalle conclusioni mediate. E posto ciò, diciamo colla detta sentenza, che circa i primi principii, o sieno i precetti principalissimi della legge naturale, che sono per sé noti, e dettati dalla sinderesi, come di sopra abbiam detto: Deus est colendus: quod tibi non vis, etc.: circa questi certamente non può darsi ignoranza invincibile. Circa poi le conclusioni immediate, o sieno prossime a' primi principii, quali sono i precetti del decalogo, neppure si ignoranza invincibile, se non in alcuni rozzi, e rari, e per breve tempo; o pure se non v 'intercedesse qualche circostanza apparentemente coonestante. Circa finalmente le conclusioni mediate, o sieno rimote, dedotte per discorso da' precetti del decalogo, come sono le proibizioni delle usure, degli scandali, e simili, circa queste diciamo, che ben può darsi ignoranza invincibile ed incolpabile, allorché colla conveniente comun diligenza (come di sovra s'è detto) non può superarsi il dubbio; si osservi la nostra Morale3, dove ciò sta provato; e specialmente si prova coll'autorità di s. Tommaso4, il quale dice in questo luogo citato, poter avvenire, che l'ignoranza non iscusi totalmente dal peccato in due modi, e per parte della cosa ignorata, e per parte della stessa ignoranza. Per parte della cosa ignorata può esser colpevole l'ignoranza (e parla qui dell'ignoranza di fatto), quando taluno per esempio percuote un altro, ma non sa che quegli è suo padre; allora, dice, l'ignoranza lo scusa dal peccato contra la pietà, ma non già dal peccato contra la carità. In altro modo l'ignoranza può essere colpevole per parte della stessa ignoranza, per esser ella volontaria: i direttamente, come quando alcuno vuol essere ignorante per peccare più liberamente; o indirettamente, quando trascura di saper ciò che dee sapere, o per isfuggir la fatica d'informarsene, o per non lasciare altre sue occupazioni; allora questa sua negligenza rende l'ignoranza volontaria e peccaminosa. E poi soggiunge, che se l'ignoranza non è volontaria, o perché è invincibile, o perché è di cosa che colui non è tenuto a sapere, allora ella è immune da ogni colpa. Ecco le sue parole: Alio modo potest hoc contingere ex parte ipsius ignorantiae, quia scilicet ipsa ignorantia est voluntaria: vel directe, sicut cum aliquis studiose vult nescire aliqua, ut liberius peccet: vel indirecte, sicut cum aliquis propter laborem, vel propter alias occupationes negligit addiscere id, per quod a peccato retraheretur. Talis enim negligentia facit, ignorantiam ipsam esse voluntariam, et peccatum, dummodo sit eorum quae quis scire tenetur, et potest; et ideo talis ignorantia non totaliter excusat a peccato. Si vero sit talis ignorantia, quae omnino sit involuntaria, sive quia (nota) est invincibilis, sive quia est eius, quod quis scire non tenetur, talis ignorantia omnino excusat a peccato. Dicendo dunque l'angelico, che l'ignoranza scusa in tutto, o quando ella è invincibile, o quando è di cosa che alcuno


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non è tenuto a sapere, per certe due dottrine; la prima, che diasi ignoranza invincibile anche di ciò che l'uomo dee sapere: la seconda, che questa ignoranza invincibile scusa affatto dal peccato. E il p. La-Croix lo conferma coll'autorità di s. Bonaventura e di Alberto Magno. E ciò si conferma dalla stessa propos. 2. dannata di Baio, riferita di sopra, dove si scorge, che la chiesa o sente, o almeno ha per molto probabile, che si dia l'ignoranza invincibile anche circa le cose della legge naturale; poiché se tenesse, non darsi ignoranza ne' precetti naturali, non avrebbe dichiarato, che l'ignoranza invincibile scusa l'uomo dal peccato, come cosa d'impossibile evento.

6. Alcuni dottori scusano dal peccato mortale chi stimasse che la sola opera è colpa, e non già il desiderio del peccato; ma a questa opinione io non ho potuto mai accordarmi, non potendo mai intendere, come alcuno il quale già sa, che qualche opera (per esempio la fornicazione) è peccato, possa poi non peccare desiderando deliberatamente di eseguirla. A me pare impossibile, che uno possa credere di non peccare, quando deliberatamente vuol commetter quell'opera che già intende essere offesa di Dio1.

7. La coscienza perplessa è quando alcuno si trova costituito in mezzo a due precetti, per esempio di salvar la vita al prossimo, e di non giurare il falso, ed egli non sa che risolvere. Che dee fare allora? Per 1. dee consigliarsi co' savi, se può. Per 2. se non può, dee eleggere il minor male, evitando v. g. più presto la trasgressione del precetto naturale, che dell'umano, o positivo divino. Per 3. se non sa finalmente distinguere il minor male, egli non pecca, a qualunque parte si appigli, poiché allora gli manca la libertà necessaria per il peccato formale.

8. La coscienza scrupolosa è quella che senza giusta ragione, ma per vana apprensione (come si definisce lo scrupolo, teme spesso di peccare dove non v'è peccato. Molte regole assegnano i dottori per gli scrupolosi, ma è certo, che per costoro, dopo l'orazione, il rimedio maggiore (anzi l'unico, come ben dice il p. Segneri) per guarirli è l'ubbidienza al direttore. Onde prima di tutto procuri il confessore di persuadere ad un penitente di tal fatta due massime principali: la prima, ch'egli va sicuro innanzi a Dio nell'ubbidire al p. spirituale, dove non v'è evidente peccato, poiché allora non ubbidisce all'uomo, ma a Dio stesso, il quale ha detto: Qui vos audit, me audit. Così insegnano tutti i dottori e maestri di spirito con s. Bernardo, s. Antonino, s. Francesco di Sales, s. Filippo Neri, s. Teresa, s. Giovanni della croce, s. Ignazio di Loyola, il b. Dionisio Cartusiano, il b. Umberto, il v. p. maestro Avila, il gran Gersone ecc. La seconda, che il maggiore scrupolo che dee egli fare, è di non ubbidire, per ragione del gran pericolo a cui s'espone di perdere non solamente la pace, la divozione e l'avanzo nelle virtù, ma ben anche il cervello, la salute, ed ancora l'anima; poiché potrebbero talmente avanzarsi gli scrupoli che lo riducessero a disperarsi con darsi la morte, com'è succeduto a molti, o a rilasciarsi ne' vizi. Di più insinui il confessore al penitente scrupoloso, come ben dice il dotto autore dell'istruzione per li novelli confessori2, che con Dio non si dee pretendere di fare i conti, come suol dirsi colla penna; il Signore vuole per nostro bene, che noi viviamo incerti della nostra salute; onde usando noi una moral diligenza per non offenderlo, dobbiamo abbandonarci nella sua misericordia; e confessando, che non possiamo salvarci se non per la sua grazia, questa dobbiamo cercargli sempre con perseveranza, confidenza, e pace. Il meglio è, dicea s. Francesco di Sales3, camminare alla cieca sotto la divina provvidenza, fra le tenebre e perplessità in questa vita. Conviene contentarsi in saper dal padre spirituale, che si cammina bene senza cercarne la cognizione. Non s'è mai perduto un ubbidiente.


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S. Filippo Neri1 asseriva, che chi ubbidisce al confessore, si assicura di non render conto a Dio delle azioni che fa. Ed all'incontro s. Giovanni della croce dicea: Il non appagarsi di ciò che dice il confessore, è superbia, o mancamento di fede2.

9. Dopo ciò il confessore procuri per 1. di parlare spesso ad un tal penitente della confidenza grande che dobbiamo avere in Gesù Cristo, il quale è morto per salvarci; e nella sua santissima Madre, ch'è tanto potente e pietosa con chi se le raccomanda: onde l'esorti a viver sicuro, sempre che ricorre a Gesù ed a Maria, che certamente esaudiscono chi gl'invoca. Per 2. gli proibisca di legger libri che svegliano scrupoli, e di conversare con persone scrupolose; e ad alcuno molto angustiato gli vieti anche di sentir prediche di terrore, e di esaminar la coscienza in quelle cose dove fa scrupolo consiste nel timore di acconsentire a mali pensieri (per esempio contro la fede, la purità, o la carità); sia libero e franco il confessore nel disprezzarli, ed in dirgli, che a lui questi pensieri son pene, ma non consensi ne' peccati. Ed in ciò precisamente s'avvalga il confessore di quella gran regola che danno i dottori3, che quando la persona è di timorata coscienza, se non è più che certo il peccato mortale, deve giudicarsi non esservi stato; poiché (come dice il p.. Alvarez) un tal mostro non è possibile che entri in un'anima che l'abborrisce senza conoscerlo chiaramente. Onde giova agli scrupolosi ben anche alle volte imporre, che di tali pensieri non se ne accusino affatto, se non sanno certo, e possono giurare di avervi acconsentito. E qui notisi, che gli scrupolosi non si han da guidare con dar loro le regole particolari, ma generali; poiché colle particolari gli scrupolosi non mai arrivano a potersi risolvere, dubitando sempre se quella regola vale per lo caso presente, che sempre gli parrà differente dal caso inteso dal confessore.

10. Per 4., per coloro che fanno scrupolo circa le confessioni passate, cioè che non abbiano in quelle spiegati tutti i peccati, o le loro circostanze, o che non v'abbiano avuto il dolor necessario, il confessore, quando vede, che questi tali o si han fatta la confession generale, o pure per qualche tempo notabile sono andati ripetendo le cose passate, a costoro dee imporre, che non vi pensino più deliberatamente, e che non parlino più de' peccati della vita passata, se non quando posso giurare, che sieno stati certi peccati mortali, e di più che certamente non se gli abbiano mai confessati; mentre insegnano i dottori4, che gli scrupolosi, ancorché avessero lasciato per inavvertenza qualche peccato grave, non sono obbligati (almeno quando non ne sono certi) con tanto incomodo e pericolo all'integrità della confessione, dalla quale minore incomodo di questo già può scusare5. In ciò sia forte il confessore in farsi ubbidire; e se 'l penitente non ubbidisce, lo sgridi, gli tolga la comunione, e lo mortifichi quanto può. Gli scrupolosi debbono trattarsi con dolcezza; ma quando mancano nell'ubbidienza, debbono trattarsi con gran rigore: poiché se perdono quest'ancora dell'ubbidienza, essi son perduti; perché o diventano pazzi, o si danno ad una vita rilasciata.

11. Per 5. Alcuni altri poi temono di peccare in ogni azione che fanno: a costoro bisogna imporre, che operino liberamente e che vincano, anzi che sono tenuti a vincere lo scrupolo, sempreché non vedono evidentemente, che quell'azione è peccato. Così col p. Segneri insegnano i dottori6. E non importa, che operino coll'attuale timore (senza depor lo scrupolo, il che è quasi impossibile sperare dagli scrupolosi); poiché tal timore non è vero dettame


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di coscienza, o sia coscienza formata, come ben distingue Gersone1, né vero dubbio pratico, né toglie il giudizio prima fatto, il quale (virtualmente persevera, benché allora non s'avverta per l'impeto del timore), cioè che, facendo qualunque azione che non conoscono certamente per male, essi non peccano; mentre allora non operano contra la coscienza, ma contro quel vano timore2. Ingiunga dunque il confessore ad un tal penitente per ubbidienza, che disprezzi e vinca lo scrupolo, con fare liberamente ciò che lo scrupolo gl'impedisce; e di più gl'imponga che appresso affatto non se ne confessi.




1 In diss. de probab. ad fin. epist. 5. Montaltii ap. Cont. Tourn. tom. 1. p. 12. in fin.



2 Tom. 2. tr. 4. q. 1. dub. 4. n. 17. ex d. Th. 1. 2. q. 19. a. 6. Adde Tourn. mor. tom. 1. p. 14. qui citat d. Th. et d. Aug.



3 Lib. 1. n. 170.



4 S. Th. 1. 2. q. 76. a. 3.



1 Lib. 1. n. 9.



2 P. 1. n. 76.



3 In vita circa fin. Massima 26.



1 Vita lib. 1. cap. 20.



2 Tratt. delle spine coll. 4. §. 1. n. 8.



3 Lib. 6. n. 476.



4 Lib. 1. n. 16.



5 Lib. 6. ex n. 476.



6 Lib. 1. n. 17. et p. Segneri penit. istr. c. ult.



1 Vide loc. cit.



2 Lib. 1. n. 18. et 19.






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