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S. Alfonso Maria de Liguori Istruzione e pratica pei confessori IntraText CT - Lettura del testo |
Capo V - Avvertenze sul trattato del secondo precetto.
1. Quando si commette la bestemmia.
2. Della maledizione delle creature.
3. ad 11. Della maledizione de' morti.
1. La bestemmia si commette, o quando si attribuisce alla creatura qualche attributo divino, come chiamando il demonio santo, ec., o quando si dice qualche ingiuria verso Dio, o verso i santi, o le cose, o i giorni santi, come sarebbe: Maledetto, o mannaggia santo N., o la chiesa, la messa, o pasqua, o sabbato santo, ec. È anche bestemmia il dire: A dispetto di Dio, sangue di Cristo (con ira verso il Signore), Dio non fa le cose giuste. E quest'ultima sarebbe inoltre bestemmia ereticale, sicché quando è detta seriamente, chi la sente è obbligato a denunciarla fra un mese. Si bestemmia anche col fatto, come sputando in cielo, calpestando le corone, o le immagini sacre4.
2. Il dire poi atta di santo N. non è bestemmia; e neppure potta, perché questa parola significa solamente nel nostro idioma un'aspirazione d'impazienza. Né anch'è bestemmia il dire, mannaggia Santagata, quando s'intende il paese, e non la santa. E così né
anche il maledire le creature, come il fuoco, il vento, la pioggia, ec., se non vi si aggiunge la parola di Dio: o pure non fossero creature, che abbiano special relazione a Dio, in cui risplenda con modo particolare la divina potenza, come sono l'anima, il cielo, ec. E lo stesso dico della maledizione del mondo, purché non s'intendesse del mondo cattivo, come l'intendeva Gesù Cristo: Si odit vos mundus: ego vici mundum.
3. Il maledire la fede d'alcuno, per sé non è bestemmia, se non si dicesse la fede di Cristo, o la fede santa: perché del resto per fede si può intendere anche la fede umana di colui. Neppure è bestemmia il maledire i morti, se non s'intendessero specificamente le anime del purgatorio, o non si dicesse morti santi, o morti di Cristo. Di questo punto ne ho parlato già nell'opera1: ma perché egli è un punto da altri autori non discusso, giova qui porlo in maggior chiarezza, specialmente per rispondere ad un certo anonimo, che in una sua lettera mi si è posto, facendomi alcune obbiezioni.
4. Io dico in somma, che il maledire i morti, parlando di sua natura, ella non è bestemmia, né per sé, né per relazione di coloro che la pronunciano. Per prima non è bestemmia per sé, mentre la parola morti propriamente è termine privativo, il quale significa uomini privati di vita, che più non esistono al presente, ed in tal supposto la voce morti non importa né anima, né corpo. Sicché parlando con rigor filosofico, chi maledice i morti, a niuno fa ingiuria, mentre maledice una cosa che non ha più esistenza.
5. Dirà taluno: ma qui la parola morti si prende, non come termine privativo, ma come termine analogo, cioè, che può riferirsi così al corpo, come all'anima del defunto. Rispondo primieramente, che chi parla così, parla già di relazione della mente; ma io parlo di quel che importa in sé la voce morti. Ma via, anche prendendolo come termine analogo, rispondo in secondo luogo, che sotto la voce morti principalmente ed in recto, come parlano i filosofi, viene il solo corpo, che solamente può dirsi morto, non già l'anima può venire intesa in obliquo, cioè l'anima del morto, per ragione, che un tempo è stata forma del corpo di quella persona, al quale ha data la vita. Ma supposto, che la voce morto principalmente riguarda il corpo, e meno principalmente, o per meglio dire impropriamente l'anima; quando alcuno nomina i morti, per sé parlando, non s'intende delle loro anime, ma de' corpi; per intendersi delle anime, bisogna, che colui o intenda specialmente nella sua mente di parlare delle anime, o pure, che almeno dinotino le anime l'altre parole del discorso; com'è ciò che sta scritto ne' Maccabei: Sancta et salubris est cogitatio, pro defunctis exorare2 Qui la parola exorare già dinota parlarsi dell'anime de' morti.
6. Dunque, per sé parlando, la maledizione de' morti non è bestemmia, perché non riguarda l'anima. Vediamo ora, se sia bestemmia per relazione almeno mentale di coloro che la dicono. E diciamo in secondo luogo, che neppure, perché quei che maledicono i morti odinariamente prescindono dal considerare le loro anime. Or qui mi carica l'autore della lettera, e mi rimprovera, ch'io non so distinguere il termine astratto dal concreto. L'astratto, mi va ammaestrando, è quello che significa la forma precisa dal soggetto, come bellezza, bianchezza, ec. Il concreto poi significa il soggetto unito alla forma, uomo bello, carta bianca, ec. Quindi dice, che la voce morto significa un uomo, che un tempo costava d'anima e corpo uniti, ma ora importa anima e corpo separati. Da ciò conclude, che chi maledice i morti d'alcuna persona, non solamente viene a maledire i loro corpi, ma anche le anime.
7. Rispondo: io non dico, che chi maledice i morti gli considera come astratti, cioè come forme senza soggetto; ma dico, che prescinde dal considerare nel
morto l'anima che di lui esiste. Altro è l'astrarre, ch'è il considerare una forma senza soggetto; altro il prescindere, ch'è il considerare un soggetto preciso da alcuna qualità o circostanza, con cui può riguardarsi. È certo, che gli uomini morti al presente non sono quelli ch'erano in vita. Allora erano tante persone composte d'anima e corpo uniti; ma al presente esistono bensì le loro anime e corpi, ma sono sostanze separate. Sicché maledicendosi al presente gli uomini morti, non perciò vengon necessariamente maledette le loro anime, se non quando vengon elleno specialmente espresse, o intese.
8. Ma via, concediamo ancora all'autor della lettera quel ch'egli vuol sostenere, cioè, che il maledire i morti sia lo stesso che maledirli, come fossero vivi. Io dimando: dunque chi maledice un uomo vivente, fa sempre peccato mortale? Tutti i dottori, Gaetano, Soto, Molina, Prado, Azorio, de Lugo, ed altri appresso i Salmaticesi1 con s. Tommaso2 dicono, che allora la maledizione contro del prossimo è peccato mortale, quando ella è formale, cioè (come spiega Gaetano), quando si desidera al prossimo il male (e male grave) che gli s'impreca; ma non già quando la maledizione è solamente materiale, cioè detta senz'animo malevolo; e pure nel vivo v'è certamente l'anima e il corpo. E perché non è peccato mortale? perché chi maledice, non sempre intende di maledire l'anima del prossimo, e di recare ingiuria a quella sostanza in cui risplende l'immagine di Dio, ma prescinde dal riguardare l'anima, e così non pecca mortalmente. Chi maledice le creature irragionevoli (insegna lo stesso s. Tommaso nel luogo citato all'articolo 2, e tutti), se le riguarda come creature di Dio, pecca mortalmente, e commette vera bestemmia, ma non già se prescinde dal considerarle come tali, e le maledice solamente come creature in sé considerare: e pure tutte elle son creature di Dio. Ecco che s. Tommaso ammette già questa precisione. Così parimente, chi maledice i morti, se li maledice in quanto all'anima, pecca mortalmente; ma non già se prescinde maledicendoli senza avere uno special riflesso alle loro anime.
9. Il dire poi, che tutti quei che maledicono i morti, tutti intendono già di maledire anche le loro anime, io per me e tanti altri confessori per l'esperienza che abbiamo, interrogando i penitenti, abbiamo trovato il contrario. Tanto più, che ordinariamente costoro che maledicono i morti, non già intendono di offender quelli, ma i vivi, a cui dirigono tali maledizioni a modo d'ingiurie. Ma questa è materia di fatto; il confessore in ciò può chiarirsi, e torsi di dubbio, con usar diligenza in interrogarne diligentemente i penitenti.
10. Il dire poi, che quantunque alcuno intenda maledire i soli corpi de' morti, neppure può scusarsi da colpa grave, per ragione del rispetto ch'usa la chiesa ai corpi de' defunti, incensandoli, aspergendoli coll'acqua benedetta, e seppellendoli con pompa; io non so se per questa ragione poss'alcuno persuadersi mai, che il maledire i morti sia peccato mortale. Rispondo in breve, e dico, che le suddette funzioni non sono già onori di culto sagro, ma bensì di culto religioso, perché sono atti di religione; e sono per altro certe cerimonie, che usa la chiesa ancora verso de' viventi. Se dunque l'onore di quello che si fa a' vivi, neppure l'ingiuria sarà maggiore. Ma perché, soggiunge l'autor della lettera, le leggi puniscono più gravemente chi incrudelisce contro de' cadaveri? Rispondo; puniscono non per ragion dell'ingiuria, ma dell'animo iniquo, che in tale azione si manifesta, e che si castiga anche negli uccisori degl'infedeli, e degli eretici. Altrimenti, se ciò fosse in sé grave contumelia de' corpi de' defunti, sarebbono rei dello stesso delitto ancora quelli che gl'incidono, e fanno a pezzi per l'uso della notomia. Del resto quel
che io concludo si è, che la maledizione de' morti per sé non è bestemmia, né peccato mortale. E trovo, che tre autori (citati nell'opera, i quali solamente hanno scritto di questo punto) sono stati dello stesso mio sentimento. Di più, io per maggior mia sicurezza ne scrissi in Napoli a più uomini dotti, ed anche alle tre congregazioni de' preti missionari, dov'è il fiore del clero napolitano, dette del p. Pavone, dell'arcivescovato, e di s. Giorgio, e tutti mi risposero lo stesso. Ed il p. Sabatino, al presente degnissimo arcivescovo dell'Aquila, mi scrisse, ch'esso e tutti i pp. pii operari, antichi e moderni, sentivano lo stesso. Di più ho saputo con certezza, che 'l nunzio di Napoli, uscite che furono così la mia lettera che stampai su questo punto, come la lettera del mio contraddittore, le mandò al n. s. p. Benedetto XIV., il quale diè l'incombenza di discifrare la controversia al r. p. d. Tommaso Sergio pio operario, consultore del s. officio in Roma (al presente defunto), e che il medesimo espose al papa il suo sentimento, che la maledizione de' morti non fosse vera bestemmia; e mi si assicura da un padre pio operario al presente vivente, che ancora il papa, avendo considerato il punto e 'l parere del p. Sergio, si spiegò, esser egli dello stesso sentimento.
11. Or posto tutto ciò, io non so capire come taluni possano almeno non dubitare, e tenere per certo, ed anche pubblicare dal pulpito senza scrupolo di coscienza, che il maledire i morti, generalmente parlando, ed in sé, sia certo peccato mortale, e vera bestemmia; quando che tutt'i dottori, anche quei della più rigida sentenza, come il p. Concina, ed altri, insegnano, non doversi condannar di peccato grave ciò che o alcun testo certo di scrittura, o qualche evidente ragione non lo persuada. S. Raimondo scrisse1: Unum tamen consulo, quod non sis nimis pronus iudicare mortalia peccata, ubi tibi non constat per certam scripturam. E s. Antonino2 disse: Nisi habeatur auctoritas expressa sacrae scripturae, aut canonis, seu determinationis ecclesiae, vel evidens ratio, nonnisi periculosissime determinatur; nam si determinetur, quod sit ibi mortale, et non sit, mortaliter peccabit contra faciens, quia omne quod est contra conscientiam, aedificat ad gehennam, etc.
Lettera di risposta contra la lettera apologetica scritta in difesa della dissertazione sopra l'abuso di maledire i morti.
Bisogna qui permetter la notizia, che contro di ciò ch'io aveva scritto su questo punto, uscì prima una dissertazione, alla quale io brevemente risposi, e dissi, che ritrovandomi già risposto due altre volte alle opposizioni fattemi, non intendeva di rispondervi di nuovo, sì per non andare in infinito in far risposte, e contrarisposte; sì per non replicare le stesse cose già scritte: ma che solamente io voleva rispondere (come già feci) a due dottrine di s. Tommaso, che nuovamente mi si opponevano. E mi dichiarai, che per l'avvenire non intendeva di voler più scrivere su questa controversia (essendo stata già ella dichiarata abbastanza), se non quando mi fossi veduto persuaso dal mio contraddittore, e che allora non avrei avuta difficoltà di ritrattarmi con altra scrittura pubblica, come non ho avuta già ripugnanza di farlo in altre mie opinioni da me rivocate.
Nulladimeno dopo questa mia risposta è uscita un'altra lettera apologetica in difesa della mentovata dissertazione: alla quale lettera, non ostante il mio contrario proposito, mi ha bisognato rispondere con un'altra lettera, e questa solamente qui soggiungo, poiché in essa vi è compresa la risposta così alla dissertazione, come alla lettera fatta in difesa di quella.
Reverendiss. padre, sig. e padrone colendiss.
Dopo la dissertazione sulla maledizione de' morti, e dopo la mia breve risposta, ultimamente è uscita un'altra
ben lunga lettera apologetica in difesa della dissertazione. Avendo io letta la nominata lettera, sono stato in forse, se doveva, o no, rispondere di nuovo. Da una parte avrei voluto mantenere il mio proposito di più non rispondere, come già scrissi in quella risposta, per non andare in infinito. Dall'altra mi parrebbe spediente ora di nuovo rispondere, come vogliono gli amici; sì per aver io preso nella suddetta risposta un certo abbaglio (di cui par bene ch'io mi ritratti) in una proposizione a me scappata, la quale per altro non fa alla sostanza del punto, com'ella vedrà da questa seconda risposta; sì anche perché nella mentovata lettera apologetica si affacciano dal mio contraddittore certe nuove riflessioni, a cui par necessario di rispondere, per toglier alcuni equivoci. Per tanto le invio questa seconda risposta, che ho fatta, e la priego di due cose: la prima di leggerla con riflessione, con togliervi, aggiungervi, e correggere tutto ciò che le pare: la seconda, di darmi il suo parere, se stima bene, ch'io la dia alle stampe: mentre da una parte mi dispiace far vedere, ch'io me la prenda contra un soggetto ed altri suoi compagni d'una religione ch'io tanto venero; benché so, che vi sono altri di loro, forse non meno dotti, i quali sono della mia sentenza. Dall'altra parte, il togliere all'anime l'apprensione, che la consaputa maledizione sia peccato mortale, quando non è tale, giudico, che molto conferisca alla gloria di Dio, il quale stima gloria sua la salute dell'anime.
Compatisca poi, se in questo foglio leggerà replicate molte cose, che stavano già poste nella prima risposta. Ciò l'ho stimato necessario, acciocché il lettore abbia tutto avanti gli occhi, nel leggere le nuove riflessioni, che mi oppone il mio dotto contraddittore nella lettera. E perciò bisogna rivangare le cose. Nella dissertazione egl'imprese a provare, che la maledizione de' morti è colpa grave, ed è vera bestemmia, per due motivi: 1. perché i corpi de' fedeli defunti son cose sacre: 2. perché la detta maledizione non può prescindere dall'ordine all'anime de' medesimi. Io risposi nella risposta prima fatta alla dissertazione, che già mi ritrovava aver risposto due altre volte a simili opposizioni fattemi, onde non intendeva di rispondere a tutte le obbiezioni che mi si facevano in quella, per non replicare le stesse cose già scritte. Tuttavolta dissi, che non potea lasciar di rispondere a due luoghi di s. Tommaso che mi si opponevano. Il primo luogo è nella 3. part. qu. 8. art. 2., dove dice il santo, che Gesù Cristo influisce ne' corpi de' fedeli il diritto di risorgere per l'abitazione dello Spirito santo. E questo medesimo dritto intende poi l'autore della dissertazione di provarlo per altra via, cioè, per ragione della comunione sagramentale che i fedeli ricevono in vita: e quindi da questi due motivi n'inferisce, che i corpi de' defunti restino annoverati tra le cose sagre, sicch'essi debbano venerarsi con culto sagro in virtù di religione. Ma se queste ragioni (io rispondo) provassero, che i cadaveri di tutti i fedeli debban computarsi tra le cose sagre, proverebbero ancora necessariamente, che anche i corpi de' cristiani dannati dovrebbero aversi per sagri; poiché anche in essi un tempo abitò lo Spirito santo, ed entrò Gesù Cristo nel sagramento dell'altare. Ma dirà, che le suddette qualità, che rendono sagri i corpi, si perdono poi per lo peccato. Dunque, io ripiglio, sempreché la chiesa non mi dichiara autenticamente, che l'anima d. quel corpo si salva, e non elevi il rispetto, che gli si deve, a culto sagro, come appresso spiegheremo, io non debbo e non posso trattare quel corpo come sagro. Oltreché se i corpi de' defunti sono sagri per la comunione e per l'inabilitazione dello Spirito santo; bisogna dire, che anche i corpi de' vivi dovrebbonsi trattar come sagri, talmente, che ogn'ingiuria, o maledizione fatta al corpo di un fedele vivente si avrebbe da tenere per peccato grave contro la religione: ma ciò è contro l'espressa dottrina del medesimo s. Tommaso,
come da qui a poco vedremo. Il dire poi, che sieno sagri i cadaveri de' fedeli, per ragione de' riti che usa la chiesa verso di loro, di sepoltura in luogo sagro, di processioni, d'incensazioni, e di benedizioni, ed anche per ragion di rito antico (come dice il mio contraddittore), che prima usavasi di riporre l'eucaristia sul petto de' cadaveri: io non so come questi atti possano dirsi atti di culto sacro, essendoché, in quanto alla sepoltura, è noto, che anticamente i corpi de' fedeli, anche in tempo nel quale godea pace la chiesa, si seppellivano nelle campagne, e nelle vie, secondo riferiscono il Tommasino e 'l Calmet: anzi più concili proibirono di seppellirsi i cadaveri in chiesa. Che se dopo si usò di seppellirli in luogo sagro, ciò (come dice s. Gregorio) fu per eccitare la memoria de' prossimi colla vista de' loro sepolcri a raccomandarli più spesso a Dio. Hoc prodesse mortuis (son le parole del santo), si in ecclesia sepeliantur; quod eorum proximi, ipso tumulorum conspectu admoniti, pro illis frequentius exorent1. E lo stesso disse s. Agostino2. Le benedizioni poi coll'acqua lustrale, dicono Gavanto e Durando, che si danno a' cadaveri, sono per liberarli dalle infestazioni de' demoni. E per lo stesso fine si dà loro l'incenso, come scrive Innocenzo III.3. E per lo stesso fine anche anticamente si mettea loro sul petto la ss. eucaristia, come dice il medesimo s. Gregorio4. Benché ciò fu poi riprovato da più concili nel IV. VI. VII. secolo, come riferisce il p. Vestrini nelle sue lettere teologiche5. Siccome anche fu proibito il collocare l'eucaristia nelle pietre fondamentali delle chiese, o d'accostarla sopra gli energumeni, e sopra le piaghe degl'infermi, come ancora l'ungersi col sangue consagrato la fronte, gli occhi, ecc., cose che soleano fare gli antichi fedeli, come rapportano s. Cirillo, e s. Gio. Grisostomo: e cose, che fan conoscere, che tali atti pii (introdotti più dalla semplicità, che dalla religione) non dinotavano, che fossero cose sagre quelle dov'elleno s'adoperavano, ma che solamente si usavano per li buoni effetti che ne speravano i fedeli con adoperarli.
Ma parlando de' riti, che oggidì pratica la chiesa comunemente sovra i defunti ecco quel che ne dice lo Spondano6: Quanta namque sit vis crucis qua signantur et ornantur, et aquae benedictae qua asperguntur, et thuris quo suffiuntur, tum ad alia plurima arcenda mala, tum maxime ad fugandos daemones, eorumdemque ac magorum praestigia dissolvenda, pronum mihi esset, quam plurimis patrum testimoniis et exemplis testatissimum reddere. E in altro luogo7: Fit suffitus ad corpora fidelium defunctorum, quoniam qui pie moriuntur, sunt Christi bonus odor, et ut insuper significetur, defunctos reliquisse odores bonorum operum, etc. Per incensum, ut iudicetur, eosdem credidisse, se per mortem ire ad immortalitatem. Di più dice Stefano Durando8. Porro thurificatio fit ad reverentiam loci, et divini officii, etc. Di più Giovanni Beletto9 dice: Cadaver ponitur in sepulchrum, et aqua apponitur benedicta, ne ad corpus daemones accedant. Thus, propter corporis foetorem removendum. Prunae ad designandum, quod terra illa in usus comunes redigi nequeat. Di più Guglielmo Durando10: Aqua benedicta ponitur, ne daemones ad corpus accedant. Thus propter foetorem removendum, seu ut defunctus Creatori suo acceptabilem bonorum operum odorem iudicetur obtulisse, seu ad ostendendum, quod defunctis prosit auxilium orationis. Dal che si vede, che tutti i suddetti riti che usa la chiesa sopra i defunti, non sono culto sagro verso i cadaveri, ma sono cerimonie misteriose. E si noti di più, che la chiesa le nega poi a coloro che muoiono scomunicati, o interdetti: ancorché i medesimi fossero morti
con segni certi di penitenza. Dunque la chiesa non usa tali riti co' defunti, per ragione, che li suppone tempii dello Spirito santo, ma perché vuole, che si conservi la comunione così tra' fedeli viventi come tra' defunti.
L'altro luogo di s. Tommaso, che mi oppone, è nella stessa 3. part. qu. 25. art. 6., dove dice l'angelico, che le reliquie de' santi si debbono venerare, perché furono templi ed organo dello Spirito santo che in essi abitò ed operò: ed ancora perché dovranno i medesimi un giorno configurarsi al corpo di Gesù Cristo, per la gloriosa resurrezione. Da ciò ne deduce il mio contraddittore, che la maledizione verso i corpi de' morti sia vera bestemmia, per essere stati eglino ancora un tempo templi ed organi dello Spirito santo. Ma se questa ragione valesse per li corpi de' defunti, torno similmente a dire, che tanto più dovrebbe valere per li corpi de' fedeli viventi: anzi maggiormente per questi, poiché i viventi sono attualmente (se stanno in grazia, come debbe piamente presumersi) vivi templi ed organi dello Spirito santo. Ma s. Tommaso1, colla comune de' teologi che lo seguitano, Gaetano, Soto, Azorio, Prado, Serra, Mol., Lugo, Laym., Trull. e tutti dicono che la maledizione, o sia imprecazione contro gli uomini, non è più che colpa veniale, quando la maledizione non è formale, ma solo materiale, cioè senza l'affetto pravo. Riferiamo tutto il testo del santo, acciocché non ci s'imputi la taccia di averlo troncato: Maledictio est, per quam pronuntiatur malum contra aliquem (si noti), vel imperando, vel optando. Velle autem, vel imperio movere ad malum alterius, secundum suum genus est peccatum mortale; et tanto gravius, quanto personam, cui maledicimus, magis amare et reveri tenemur. Unde dicitur2: Qui maledixerit patri suo, et matri, morte moriatur. Contingit tamen verbum maledictionis prolatum esse veniale, vel propter parvitatem mali, quod quis alteri imprecatur, vel etiam propter affectum proferentis, dum ex levi motu, vel ex luao, aut ex subreptione talia verba proferuntur; quia peccata verborum maxime ex affectu pensantur. Qui mi carica il mio contraddittore, e ripetendomi le parole dell'angelico, Secundum suum genus est peccatum mortale, mi dice: Intende, o non intende? Mi mare ch'io l'intendo, e stimo, che non possa intendersi altrimenti il testo citato di s. Tommaso, cioè, che il maledire gli uomini allora è peccato mortale, quando la maledizione è formale, in quanto con pravo animo si desidera loro il male che s'impreca, o pure quando s'inducono gli altri a far loro il male, secondo l'angelico spiega antecedentemente nell'art. 1., coll'esempio del giudice che ingiustamente muove i ministri di giustizia ad eseguire la pena sopra del reo. E ciò, dice il santo esser in sé peccato mortale, per ragione che ciò secundum se (come parla) repugnat charitati, qua diligimus proximum, volentes bonum ipsius. Siccome la carità c'impone di volere il bene del prossimo, così ci vieta volere il di lui male, ed il muovere gli altri a fargli danno. Parlando poi s. Tommaso della maledizione verbale (della quale solamente parliamo nel presente caso), dice, che quella non eccede il peccato veniale, o quando il male che s'impreca è leggiero, o quando manca l'affetto pravo (ch'è la maledizione materiale), proferendosi la maledizione o per giuoco, o senza piena deliberazione. E ciò lo conferma finalmente colla ragione: Quia peccata verborum maxime ex affectu pensantur. Questo stesso insegna il Gaetano sulla citata qu. 76. all'art. 1. dicendo: Nota ex 1. artic., quid sit proprie maledictio, scil. dicere malum, in quantum malum, alicui ex intentione. Et ex hoc eruitur, quod maledictio distinguitur in maledictionem formaliter et materialiter: et quod quandoque est peccatum mortale, quandoque veniale; nam maledictio formaliter est ex suo genere mortale ut patet: maledictio autem si fit optative, non est mortale, si vero fieret imperative, posset esse mortale. Et ratio diversitatis
est, quia praeter intentionem optative maledicens neminem laedit: quia nec ex intentione, nec ex opere. Imperative autem quandoque laedit ex opere ministri obsequentis, quamvis non ex propria intentione. Dixi autem, ex suo genere, quia propter imperfectionem actus sive ex parte obiecti, ut si parvum malum optet, vel imperet, sive ex parte operantis, ut si ex ira (vel ex ludo aggiunge s. Tommaso) maledicat, quamvis affectus tendat in malum, quia non ex consensu rationis in malum tendit, deficit a perfecta ratione peccati, et per hoc non est mortale. Dunque così s. Tommaso, come Gaetano, allora dicono, che la maledizione contro gli uomini è di genere suo mortale, quando ella è formale; cioè detta con animo pravo, imperando, vel optando: e non altro ho io inteso dire nella mia morale1 cogli altri dd. comunemente, come ivi chiaramente apparisce. Onde a torto vuole il mio contraddittore, ch'io malamente ho scritto, che il maledire i vivi (cioè il pronunziar la maledizione contro gli uomini, ch'è la pura materiale) secondo la sentenza comune non è stimata più che colpa veniale; ma ch'io dovea dire, che di genere suo è mortale, e sol per accidente in certi casi è veniale. Ecco come dice nella sua dissertazione2: Doveva egli stabilir prima, come universalmente vero, che maledire i vivi secondo il genere suo è peccato mortale, e poi senza rifugiarsi a precisioni stravolte, imitare l'angelico maestro, con assegnare solo quegli ordinari casi particolari, né quali la maledizione è colpa veniale, cioè quando il male è leggiero, e non vi è piena deliberazione. Ma s. Tommaso, Gaetano, e tutti gli altri dicono espressamente il contrario a ciò che volea farmi dire l'avversario, mentre dicono, che la sola maledizione formale, informata dal mal animo, imperando, vel optando, è di genere suo peccato mortale. Del resto si vede, che così s. Tommaso come il Gaetano non han per vero, che sempreché si maledice un fedele vivente, o morto, sia in sé peccato mortale, per ragion che il corpo di lui è tempio dello Spirito santo; perché se avessero ciò per vero, non potrebbero dire, che quando si maledice una persona per giuoco, o senz'animo pravo, è peccato veniale, giacché il maledire i santi, o le cose sagre, ancorché non vi sia animo pravo, ed anche per giuoco, non può scusarsi da colpa grave, com'è certo. Da ciò si deduce con evidenza, come (secondo l'angelico e la comune de' dd.) ben può considerarsi la persona del fedele precisa dall'esser tempio dello Spirito santo. E si deduce inoltre (contro quel che ancora affaccia il mio contraddittore), che siccome non è colpa grave contro la carità, e contro la pietà, il maledire il corpo di un fedele vivo senza affetto pravo, così non è grave contro la carità e la pietà il maledire senza pravo animo il corpo d'un fedele defunto: giacché, secondo lo stesso s. Tommaso, la carità che deesi verso i morti che sono passati all'altra vita in grazia, non è altro che una estensione di quella carità che dobbiamo verso i vivi: Caritas (dice il santo) quae est vinculum ecclesiae membra uniens, non solum ad vivos se extendit, sed etiam ad mortuos qui in caritate decedunt.
Ma dice il mio contraddittore, che v'è gran differenza tra maledire il vivo, e 'l defunto, perché il vivo sta soggetto al fomite e in conseguenza al pericolo di peccare, al che non è soggetto chi è morto in grazia; ond'è, che la maledizione verso il vivo può esser veniale, poiché essendo peccato contro la carità, non può esser grave quando vi manca il pravo affetto; ma la maledizione contro il defunto, essendo peccato contro la religione, anche senza pravo affetto è sempre grave per l'ingiuria che si fa alla religione, maledicendosi un corpo sagro. Ma per rispondere, rivanghiamo il suo principio, per cui egli vuole, che sien sagri i corpi de' fedeli defunti. Egli ha detto, che secondo la dottrina di s. Tommaso il maledir i morti è colpa grave, perché i loro corpi sono stati organi dello Spirito
santo, e perché han ricevuta la comunione sagramentale. Rispondo dunque: in quanto al doversi tener per sagro il corpo del defunto per ragion della comunione, e per essere stato tempio dello Spirito santo, già ho detto di sopra, che per questa ragione tanto il corpo del defunto, quanto del vivo dovrebbe tenersi per sagro, perché il vivo anch'è tempio dello Spirito santo. Membra vestra templum sunt Spiritus sancti1. Ma nel vivo (replicherà) vi è il fomite, che rende la persona soggetta a peccare. Rispondo. Dunque il corpo di Adamo prima di peccare era sagro? In oltre, la possibilità di peccare non fa mutare la specie della santità del corpo. Di più, né il fomite, né il pericolo di peccare fa che hic et nunc il vivo non sia tempio dello Spirito santo. Tanto più che questo fomite non porta all'anima alcun reato o macchia, poiché la grazia della redenzione ne' battezzati sana tutti i danni del peccati, anzi soprabbondantemente il risarcisce. Copiosa apud eum redemtio2. Ubi autem abundavit delictum, superabundavit gratia3. Ego veni, ut vitam habeant, et abundantius habeant4. Onde definì il Tridentino5, che il battesimo rende l'anime immacolate, e che il fomite niente nuoce, anzi giova per ricevere maggior premio a chi non vi consente: In renatis enim nihil odit Deus... innocentes, immaculati, puri, ac Deo dilecti effecti sunt, etc. Manere autem in baptizatis concupiscentiam, vel fomitem, haec sancta synodus fatetur et sentit: quae cum ad agonem relicta sit, nocere non consentientibus non valet, quinimo, qui legitime certaverit, coronabitur. Sicché la ragione d'esser organo dello Spirito santo non fa, che 'l corpo d'un fedele o vivo o morto sia sagro; altrimente il maledire i vivi, anche senza mal animo, sarebbe sempre colpa grave; ed è certo il contrario, come lo stesso mio oppositore ammette. Onde bisogna ricorrere ad altra religione (se mai l'avversario la trovi) per provare, che i corpi de' defunti sian sagri. Né vale a dire, che maledicendo il vivo può prescindersi, non riguardandolo come tempio dello Spirito santo, ma avendo mira ad altri motivi particolari, v. g. all'ingiurie da colui ricevute, ecc. Ed io ripiglio: e perché non può farsi questa precisione anche a rispetto de' morti, maledicendoli per qualche aggravio da essi avuto, ma senza animo pravo? Oltreché tali maledizioni (come scrivemmo nella prima nostra lettera) ordinariamente più si dicono affin d'ingiuriare i vivi, che i morti. No (dice), perché i corpi de' defunti son sagri; ma qui siam da capo alla questione, perché questo è il punto della controversia, in cui noi diciamo, che niun corpo di defunto è sagro, se non quando la chiesa lo dichiara santo, ed impone di venerarlo come sagro, elevando la venerazione dall'ordine umano al soprannaturale e divino, come da qui a poco proveremo coll'autorità di s. Tommaso.
Ma mi replicherà l'autore, che, secondo lo stesso s. Tommaso6, le reliquie de' santi son degne di venerazione, perché le anime di tali corpi attualmente godono Dio; e che perciò i corpi de' defunti (come dice) sebbene non possono venerarsi con culto di dulia, non possono però disprezzarsi, essendo cose sagre, dovendosi piamente credere, che le loro anime sieno salve. Dunque, rispondo, essendo i corpi de' defunti cose sagre, si dee loro culto sagro? Ma qui vorrei intendere, quale culto sagro loro si debba. Il contraddittore confessa, che non si dee già ad essi culto di dulia; ma io non trovo, che la chiesa, o i dottori assegnino, né so intendere, che possa assegnarsi altra sorta di culto sagro, fuorché di latria, iperdulia, e dulia. Ma a qual sorta di culto (mi dice) si riduce il culto che si dà agli altari, vasi, e vesti sagre? Rispondo, si riduce al culto di latria, poiché a queste cose non si dee il culto per sé, mentre allorché sono dissagrate, non meritano più culto sagro, ma
relative, o sia reductive; onde il loro culto si riduce a culto di latria, per ragione del sacrificio a cui sono ordinate. E perciò dico, che non potendosi venerare tutti i corpi de' defunti con culto di dulia, né altro sagro, non debbono annoverarsi tra le cose sagre. Il p. Suarez1, parlando della venerazione dovuta alle reliquie de' santi, e degli altri defunti, dice: Imo insuper addo, hanc ipsam consuetudinem (cioè di venerar come sacre le reliquie de' santi), ostendere longe altiori modo ecclesiam de sanctorum reliquiis sentire, quam vulgarium hominum mortua corpora soleant reputari. Trovo anche, che san Gregorio Nisseno, parlando de' corpi de' santi, e de' fedeli defunti con morte volgare, dice, che non vi è paragone tra il rispetto che deesi agli uni ed agli altri; poiché soggiunge, che i corpi degli altri defunti apportano orrore, e son fuggiti; ma a' corpi de' santi, perché son sagri, ognuno cerca d'accostarsi, e crede di santificarsi con toccarli: ecco come dice, parlando del corpo di s. Teodoro2: Corpus s. Theodori ad alia corpora, quae communi et vulgari morte dissoluta sunt, nec comparandum quidem est... nam caeterae quidem reliquiae abominabiles plerisque sunt, ac nemo lubenter sepulcrum praeterit, aut si ex inopitato apertum offendit, praetercurrit. At si venerit in aliquem locum similem huic, ubi hodie noster conventus habetur, ubi memoria iusti, sanctaeque reliquiae sunt, primum quidem earum rerum quas videt magnificentia oblectatur... cupit deinceps ipsi conditorio appropinquare, sanctificationem ac benedictionem contrectationem eius esse credens. Si noti da ciò, quanto sia differente la venerazione che si usa dalla chiesa e da' fedeli verso i corpi de' santi, e verso i corpi degli altri defunti.
In quanto poi alla venerazione dovuta a' corpi, perché le loro anime godono Dio; rispondiamo, che la ragione di s. Tommaso non può correre che per li soli santi dichiarati dalla chiesa, de' quali solamente parla l'angelico; poiché s. Tommaso dalla ragione, che le anime de' santi godono Dio, prende a dimostrare, che debbonsi adorare anche i loro corpi. Per intendere dunque il sentimento del s. dottore, e la verità, dobbiamo distinguere due sorta di cognizioni, per cui sappiamo o crediamo, che l'anima d'una persona goda Dio, una umana, l'altra sovrumana e divina, per la dichiarazione della chiesa. Ora è certo, che quel rispetto dovuto a' corpi de' santi, di cui parla s. Tommaso, non può correre, che solamente per que' corpi, delle cui anime abbiamo cognizione rivelata, comunicataci dalla chiesa, la quale eleva il rispetto che loro si dee dall'ordine umano all'ordine sovrumano.
Ond'è, che non basta a noi il tener per salvo un defunto, anche con certezza morale, per dovere o poter venerare il suo corpo con culto sagro; ma bisogna, che la chiesa ci assicuri autenticamente con certezza a lei comunicata per lume divino, che l'anima di quel corpo già gode Dio. Udiamo come parla s. Tommaso3. All'opposizione che premette di non potersi venerare i santi, perché non può aversi vera certezza della loro salvazione, il santo dottore4 risponde così: Dicendum, quod pontifex, cuius est sanctos canonizare, potest certificari de statu alicuius per inquisitionem vitae, et attestationem miraculorum; et praecipue (si noti) per instinctum Spiritus sancti, qui omnia scrutatur profunda Dei. E soggiunge5: Providentia Dei praeservat ecclesiam, ne in talibus per fallibile testimonium hominum fallatur. Sicché per qualunque certezza morale, ma umana e naturale, noi non dobbiamo né possiamo tener per sagri i corpi de' fedeli defunti, né dar loro culto sagro, se non quando la chiesa li canonizza; poiché allora la chiesa con quella notizia sovrannaturale che ha per istinto dello Spirito santo, secondo dice l'angelico, trasferisce la venerazione
verso quel corpo dall'ordine umano all'ordine sovrumano e divino. Lo stesso apparisce espresso ne' decreti di Urbano VIII., appartenenti al culto de' servi di Dio, non anche canonizzati, o beatificati1; ne' quali specialmente si ordinò, che nello scrivere le vite o fatti di tali servi di Dio, si premettesse la seguente protesta dell'autore: Profiteor me haud alio sensu, quidquid in hoc libro refero, accipere, aut accipi ab ullo velle, quam quo ea solent quae humana dumtaxat auctoritate, non autem divina catholicae romanae ecclesiae, aut sanctae sedis apostolicae, nituntur. Si notino le parole, Quae humana auctoritate, non divina ecclesiae, etc. Sicché le cose de' servi di Dio non hanno altra fede e venerazione, che umana, ma quando la chiesa li dichiara santi, allora la venerazione passa da umana ad esser divina, per ragione della divina autorità della chiesa. Ond'è che per dare ad un defunto un culto sagro, ch'è sovrumano, è necessario, che s'abbia un principio ed una cognizione sovrumana della santità dell'oggetto per mezzo del lume divino comunicato alla chiesa. E perciò quando i santi son dichiarati dalla chiesa, diventano sagre non solamente le loro ossa, ma anche le vesti, le lettere, e l'altre cose da loro usate; e sarebbe irriverenza grave e sacrilegio il servirsene per uso temporale senza un'assoluta necessità: il che all'incontro certamente non è vietato circa le vesti de' morti non canonizzati, per qualunque certezza morale che avessimo della loro salvezza.
Possiamo sì bene tener con venerazione le reliquie di taluno defunto in concetto di santità, invocarlo, dipingere la sua immagine, e far cose simili, perché queste cose non sono culto sagro, ma son solamente atti religiosi (non già civili), i quali, come dice il p. Giovanni a s. Thoma (la cui autorità mi oppone il contraddittore), e come insegnano il Bellarmino2, e Benedetto XIV.3, possono adoperarsi così verso i defunti, come i viventi. Anzi da ciò il Bellarmino ricava esser leciti i suddetti atti verso i defunti, perché son leciti verso de' vivi: Si licet (così egli conclude) honorare viventes, quos credimus sanctos, cur non mortuos? Ed essendo stata al Bellarmino criticata questa venerazione, ch'egli concedeva a' santi non canonizzati, esso così si difese, dicendo ch'egli non concedeva altro culto, se non quello che davasi a' vivi4. Ho detto, atti di religione, perché altro è l'atto di religione, altro il culto sagro: il baciar le mani a' servi di Dio, il raccomandarsi alle loro orazioni, il lavar loro i piedi, e simili, questi sono atti di religione, perché dalla religione procedono; ma non sono culto sagro, poiché non si adoperano circa cose sagre. E così il seppellire i morti in luogo sagro, l'incensarli, il baciare loro i piedi, il venerare le loro reliquie, sono sì bene cerimonie sagre, ed atti di religione, ma non culto sagro.
Ben si dicono, e sono cerimonie sagre, perché elle riguardano se stesse, che sono sagre come ordinate dalla s. chiesa; ma non possono dirsi culto sagro, perché il culto riguarda l'oggetto verso cui s'adoperano, e perciò non può mai dirsi culto sagro, quando l'oggetto non è sagro. In oltre, sono ben anche atti di religione (e qui confesso, che nella mia prima risposta io presi abbaglio, ma non so come, poiché in vece di dire, che le incensazioni, o benedizioni, ed altre cerimonie, che si usano co' defunti, non sono culto sagro, dissi, che non erano atti di religione): sì signore, non dubito, che sieno atti di religione, ma non sono culto sagro, e per conseguenza non è, che per ragion de' suddetti atti che si fanno verso i defunti debbano i loro corpi aversi per sagri e possa darsi loro culto sagro. E perciò Alessandro III.5 proibì assolutamente il venerare per santo alcuno senza l'autorità della chiesa: Cum etiam si per eum miracule fierent,
non liceret vobis ipsum pro sancto absque auctoritate ecclesiae romanae venerari. E quantunque anticamente veneravansi per santi alcuni senza la dichiarazione della chiesa, ma solo per consuetudine de' popoli; nulladimeno risponde il Bellarmino nel luogo citato1, che ciò era lecito per la tacita approvazione del papa: Sicut consuetudines aliae vim habent legis ex tacito consensu principis; ita sancti alicuius cultus, ex consuetudine introductus, vim habet ex approbatione tacita vel expressa summi pontificis.
Replico dunque, io non dubito, che i riti, che usa la chiesa verso i defunti, sieno cerimonie sagre, ed atti di religione, ma non culto sagro; siccome in fatti il rituale romano, parlando dell'esequie, i riti, che si usano nella seppellizione de' defunti, non già li chiama culto sagro, ma solamente misteri della religione, e segni di pietà cristiana, dicendo così: Sacras caeremonias, ac ritus, quibus mater ecclesia in filiorum suorum exequiis uti solet, tamquam vera religionis mysteria, christianaque pietatis signa etc. Io vi aggiungo due altre riflessioni, che fanno ciò chiaro. Per prima, se un tal culto fosse sagro, sarebbe anche culto pubblico, giacché egli vien dato da' sacerdoti come ministri della chiesa; e ciò è certo che non può essere, mentre la stessa chiesa vieta di darsi culto pubblico a chiunque non è da lei dichiarato santo o beato. In oltre dice s. Francesco di Sales, che il culto sagro a' defunti non si dà, se non in protestazione della loro eccellente virtù, e la cognizione di questa eccellenza deve essere certa. Or come potrà mai dirsi, che i riti, che si usano co' defunti, sieno culto sagro, quando de' morti (comunemente parlando) non si ha questa cognizione della loro eccellente virtù? Anzi si sa, che tra' fedeli defunti molti se ne dannano, e frattanto questi riti si praticano indifferentemente con tutti dunque deve dirsi, che la chiesa non tiene tali riti per culto sagro.
Prevengo un argomento, che forse potrebbe oppormisi, dicendo così: se dunque mi si concede, che il venerare i morti è atto di religione, dunque il maledirli è atto contro la religione. Rispondo preventivamente: se valesse questo argomento per li morti, varrebbe anche per li vivi, poiché il venerare i servi di Dio viventi cogli atti di sopra nominati, come abbiam dimostrato, anche è atto di religione, o sia culto religioso; onde il maledire un tal servo di Dio, anche senza animo pravo, pure sarebbe sacrilegio grave; ma ciò niuno lo dice. Ma la risposta diretta è questa. Bisogna distinguere, e vedere da qual motivo provenga l'atto di religione: se proviene dal motivo dello stesso oggetto, perché è sagro, allora il disprezzo verso l'oggetto è peccato contro la religione, ed è sacrilegio; ma se l'atto d'ossequio procede dalla pietà religiosa del fedele, allora ben sarà atto religioso, perché procede da motivo di religione, ma la maledizione contro l'oggetto non sarà atto contro la religione, perché non è atto, che vada a riferirsi ad oggetto sagro.
Si maraviglia poi l'autore della dissertazione, e chiama chiaramente imprudenti (per non dire temerari) coloro, che dicono dal confessionario, o dal pulpito, non essere per se stessa colpa grave la maledizione de' morti. Ma io con altri molto più ci ammiriamo di coloro, che non si fanno scrupolo di predicare assolutamente, che questa maledizione sia per sé peccato mortale, e bestemmia. Per poter dire, che un'azione non sia colpa grave, basta secondo tutti l'averne una vera probabilità: intendo quella che ha fondamento, non tenue, ma tale, che sicuramente (secondo la sentenza comune, precisa la questione della probabiliore, e meno probabile) possa tenersi, ed insegnarsi. E poco fanno al caso le due dottrine che mi oppone il mio contraddittore, di s. Agostino: Graviter peccaret in rebus ad salutem animae pertinentibus, vel eo solo quod certis incerta
paeponeret1 Ed altrove2: Si incertum est esse peccatum, quis dubitat certum esse peccatum? Mentre ivi il s. dottore parla di chi opera in dubbio circa le cose appartenenti alla necessità della salute, dove ognuno deve abbracciare il certo. Oltrecché parla il santo d'un donatista, il quale era certo, che nella chiesa cattolica si riceve rettamente il battesimo, ed all'incontro era dubbio di riceverlo rettamente nella sua setta; ecco l'intiero testo del santo: Si dubium haberet, non illic recte accipi, qu od in ecclesia catholica recte accipi certum haberet, graviter peccaret in rebus ad salutem animae pertinentibus, vel eo solo quod certis incerta praeponeret. Ed indi: Accipere itaque in parte Donati, si incertum est esse peccatum, quis dubitat certum esse peccatum, non ibi potius accipere, ubi certum est non esse peccatum? Chi dubita, che questo donatista in tal caso certamente peccava? Ma non dicea sant'Agostino, che pecca chi opera con vera e soda probabilità, quando il dubbio non è circa le cose spettanti alla necessità della salute, com'è il battesimo, e quando l'azione non è certamente illecita; poiché la legge dubbia non impone obbligo certo, secondo quel che dice l'angelico3: Nullus ligatur per praeceptum aliquod, nisi mediante scientia illius praecepti. E lo stesso si prova dal cap. Cum iure 31? de offic. et pot. iud. del.: Nisi de mandato certus extiteris, exequi non cogeris quod mandatur. lo stesso nel can. Sicut quaedam, dist. 13., dove dice s. Leone: In his quae vel dubia fuerint, vel obscura, id noverimus sequendum, quod nec praeceptis evangelicis contrarium, nec decretis ss. patrum inveniatur adversum. Si legga ciò che si è posto al capo I. dal n. 33. Ciò corre in quanto al potere asserire, che un'azione non sia gravemente illecita. Ma per asserire assolutamente, che una cosa sia peccato mortale, non basta l'opinione probabile, e neppure la più probabile, quando è poco più probabile; poiché la più probabile non esclude il timor ragionevole di errare, onde non fa, che la legge non resti dubbia, e che l'opinione contraria non possa esser vera, se veramente è probabile; che perciò trattandosi di sagramenti, non è lecito di seguire la più probabile, quando l'opposta è la più sicura, benché meno probabile. Per asserire dunque, che un'azione sia gravemente illecita, si ricerca la moral certezza, come insegnano tutti con s. Raimondo, il quale4 scrisse: Non sis nimis pronus iudicare mortalia peccata, ubi tibi non constat per certam scripturam. Sicché il santo consiglia a non giudicare, che un'azione sia peccato mortale, dove non costa, che sia tale; e dicendo il santo, ubi non constat, viene sempre a riprovar come eccesso l'asserire una cosa per colpa grave, quando non consta della sua gravezza. Sant'Antonino parimente disse5, che non può determinarsi senza gran pericolo di peccare, essere un'azione colpa grave, se non v'è espressa scrittura, o definizione della chiesa, o pur ragione evidente. Ecco le parole: Quaestio in qua agitur de aliquo actu, utrum sit peccatum mortale, vel non, nisi ad hoc habeatur auctoritas expressa scripturae, aut canonis ecclesiae, vel evidens ratio, periculosissime determinatur. Perché (come soggiunge) chi determina senza alcuno di tali fondamenti, aedificat ad gehennam, mette l'anime in pericolo di dannarsi. Quindi sapientissimamente Benedetto XIV. nella sua opera De synodo non fa altro che insinuare a' vescovi di non condannare mai di colpa grave quelle opinioni che probabilmente son difese da' dottori dall'una e dall'altra parte.
Il mio contraddittore per altro giunge a chiamare la sua opinione conclusione teologica: io non voglio entrare a decidere, se l'opinione sua abbia peso, e qual peso di probabilità; ma non so come possa chiamarla conclusione teologica, quando non ha per sé né
scrittura manifesta, né definizione della chiesa, né ragione evidente, né autorità comune de' dottori, anzi neppure un solo io ho potuto trovare, che abbia scritto secondo la sua opinione. Egli porta un passo di sant'Isidoro Pelusiota1 così: Vivi incessunt etiam mortuos; et hostes foedus ineunt. Cur igitur et naturae leges, et inimicitiarum superas terminos, vita functos maledicens? Videris enim in cinerem ac favillam linguam acuere; sed primo violas sanctimoniam, cui omnes mortales studeant oportet: deinde immortalem habet animam, cuius vindex est oculus Dei pervigil. Ma io nel mio libro della edizione fatta in Roma 1729, trovo, che 'l passo (nella pag. 370) dice così: Vivi solent calumniis incessi, cum iam defunctis etiam hostes conciliantur, et foedus ineunt. Cur igitur ipse et naturae, et inimicitiarum terminos transgrederis, dum vita iam functum calumniaris et lacessis? nam putas quidem te solum adversus cinerem et pulverem linguam stringere; sed heus! primum ipsum sacrosanctum sepulturae ius violas, quod tamen nemo non ambit, et habere studet: deinde habet is animam immortalem, cuius oculus ille pervigil, et semper excubans vindex est. Vedano ora gli altri, se quest'autorità confermi niente l'opinione del mio oppositore, che vuole, doversi venerare per sagri tutti i corpi de' fedeli defunti; s. Isidoro chiama sagro il ius della sepoltura, ma non già il corpo del defunto. Ma inoltre l'oppositore si vanta di aver tutto per sé, scritture, definizione della chiesa, autorità comune de' dottori, e ragioni evidenti. Le scritture sono: Neque maledici regnum Dei possidebunt (Maledici commenta Calmet, id est qui obtrectant, quei che mormorano). La definizione della chiesa dice, ch'è la disciplina che usa la medesima nella sepoltura de' fedeli. Tiene ancora l'autorità comune de' dottori, dicendo, che i moralisti intanto non hanno scritta questa sua sentenza, perché secondo le loro regole l'han tenuta per certa. Tiene finalmente ragioni evidenti, che sono quelle appunto ch'egli ha scritte nella sua dissertazione. Se queste cose persuadono, io non lo voglio decidere, lo decidano i savi.
Del resto parlando della mia sentenza, come di sopra ho riferito negli antecedenti miei fogli, oltre li tre autori ivi citati che l'hanno scritta, io ho fatto esaminar il punto da molti dotti, e specialmente da tutte le congregazioni de' missionari di Napoli, nelle quali, perché di missionari, si fa special professione di teologia morale, e vi sta (come ognuno sa) il fiore del clero napolitano, e tutti concordemente sono stati del mio sentimento. Qui mi sputa una parola il mio contraddittore con un passo di Socrate, volendomi dire, che non tutti son maestri atti a decidere simili questioni. Concedo, non tutti son maestri; ma essendomi stato risposto dalle suddette congregazioni in nome di tutto il corpo, dee supporsi, che la risoluzione non siasi presa da' soggetti meno savi, ma da' più periti. La suddetta questione, come prima anche ho scritto, è stata ancora esaminata in Roma per ordine del papa Benedetto XIV., e secondo il sentimento dello stesso pontefice (che per altro non ho preteso mai di dire, che sia stata qualche definizione ex cathedra), il punto si decise, che non fosse peccato mortale. Ma qui scrive il mio contraddittore, che egli non è obbligato a credere né a questo esame, né a questa risoluzione fatta in Roma. Io non ho preteso d'obbligarlo a crederlo; ma l'ho scritto, perché io ho avuto sufficiente motivo a crederlo; mentre me l'ha attestato come testimonio di propria scienza, e di viso (poich'egli stesso ha veduto il biglietto del papa), un sacerdote, religioso, dotto, e non appassionato in questa controversia; e perciò ho stimato, che altri spassionati ragionevolmente potessero ancora crederlo. Per altro in quanto a me io l'ho creduto con tanta certezza, che non ho avuta difficoltà di scriverlo nella stessa opera morale, che ho dedicata e presentata
al medesimo pontefice. Del resto, se il mio contraddittore ha scritto con buon fine, io ancora tengo per certo d'avere scritto, non già per passione, o per impegno (sarebbe un bello impegno, dopo che ho lasciato il mondo per salvarmi l'anima, perderla, perché? per aver la gloria vana, diciamo meglio, per aver il vituperio di difendere un'opinione falsa!), ma con buon fine, per liberare da tanti peccati mortali molte persone che hanno l'abito a maledire i morti, e che non ostante il credere (erroneamente, secondo me), che fosse colpa grave, siccome era stato loro detto da taluno, seguivano tuttavia a pronunziarla. Che poi il mio oppositore abbia voluto chiamarmi ostinato, e spinto da falso zelo, a ciò rispondo altro che, Qui iudicat me, Dominus est1.
Soggiungo qui la risposta inviatami dal reverendiss. abbate di Marco Basiliano (a cui ho mandata a riveder questa mia) soggetto molto stimato per la sua dottrina, non solo dalla sua religione che l'ha onorato delle maggiori cariche, ma anche da per tutto in Napoli, ed in Roma, maestro di teologia, insegnata da lui per più anni, ed esercitato per 30. e 40. anni nel ministero di prender le confessioni. Io stava in dubbio, se doveva o no registrar qui la seguente sua lettera; ma sono stato consigliato a farlo per due motivi; 1. per far vedere, ch'io su questa controversia, affin di andar più cautelato, e di non farmi sorprendere da qualche proprio impegno, siccome già par che vogliamo sorpreso il mio contraddittore, ho cercato sempre di prenderne consiglio da altri uomini dotti. 2. Per palesare il concetto che tengono anche gli altri valenti uomini così della mia sentenza, come della contraria. La lettera è questa.
Reverendiss. padre, sig. e padr. colendiss.
Da molto tempo fa ebbi la consolazione di leggere la sua erudita dissertazione sopra l'imprecazione de' morti, sostenendo, che non sia colpa grave il maledirli, siccome tal è il sentimento mio e delle persone più sagge, colle quali su di ciò ne ho tenuto spesso discorso. Ora per sua bontà mi manda la risposta fatta ad un suo contraddittore, nella quale ho ammirata la sua dottrina, ed aggiungendo ragioni a ragioni l'ha resa quasi dimostrativa, né saprei con qual fondamento il suo contraddittore difenda, che sia colpa grave, sembrandomi i motivi addotti da lui di niun momento, conforme li lessi in un libretto mandato dal medesimo alle stampe, e che v. s. reverendiss. gli ha sodamente confutati, e presentemente li confuta. Certamente io non comprendo, come possa esser peccato mortale il maledire i morti. Lodo la sua moderatezza in chiamar probabile questa sentenza, che dice non esser colpa grave la bestemmia de' morti; dovea più tosto chiamarla moralmente certa, e per conseguenza l'opposta, che si difende dal suo contraddittore, moralmente falsa, e di debole e tenue probabilità.
Io dunque non ho avuto né che togliere, né che aggiungere, né che mutare della sua dotta scrittura; e prego il Signore, che illumini la mente del suo contraddittore, e di alcuni pochi compagni, che fan pompa di trovar la colpa in ogni piccola azione. V. S. reverendiss. intanto non si arretri di mandar alla luce l'accennata apologetica risposta, che ne sarà applaudita, come ne fu in tutte l'altre sue opere. Mi raccomando alle sue orazioni, e facendole riverenza con ogni rispetto le bacio le mani.
Di V. S. Reverendissima
Umiliss. servitore obbligatiss. e devotiss.
Bartolomeo di Marco abbate.
Soggiungo una parola. Il suddetto abbate reverendissimo, come scrive, par che supponga, ch'io tenta la mia opinione per solamente probabile. Ciò io non l'ho detto: ho detto solo, che per asserire, non esser colpa grave
un'azione, basta l'esser probabile, che non sia grave. Del resto io non ho voluto dar giudizio, se la mia sentenza sia ella moralmente certa, o no, rimettendo ciò al discernimento de' savi; ma per altro io l'ho tenuta e la tengo per più che probabile.
Avverto qui il mio lettore, che se mai gli è capitato in mano, o gli capiterà a leggere un nuovo libretto sovra la maledizione de' morti, ultimamente uscito, intitolato Lettera ipocritica, ec., dove si prosiegue a voler provare, che tal maledizione è vera bestemmia, contro di ciò ch'io più volte ho scritto su questo punto; non argomenti dal non vedere altra mia risposta, ch'io sia forse rimasto convinto. Il mio oppositore in quest'altra operetta par che voglia costringermi a rispondere; ma io dopo fatta l'ultima risposta, ora voglio in ogni conto tener saldo il mio proposito di più non rispondere in questa materia, se non quando mi vedrò persuaso dall'opinione contraria. Ora dovrei ripetere cose già dette, e ridette. Ognuno che ha senno, e legge quel che sovra tal punto io ho già scritto, può veder le risposte che vi sono a ciò che mi oppone il mio avversario. Ma queste, dice egli, saranno sempre risposte insussistenti; ma io rispondo, che non sembrano insussistenti a me, ed a tanti altri dotti. Scrissi già, e mi giova qui ripeterlo, ch'io non avendo ritrovato questo punto individualmente discusso appresso gli autori (eccettuatone tre, che appena l'han toccato, dicendo per altro, che la suddetta maledizione de' morti non è bestemmia), per mia quiete ne volli il parere delle tre celebri congregazioni di missionari di Napoli, dette del p. Pavone, dell'arcivescovato, e di s. Giorgio, e tutti tre i segretari in nome delle medesime (ed io ebbi già la cura di conservar le lettere), mi risposero, esser quelle del mio sentimento. Lo stesso mi scrisse monsignor Sabatino, al presente degno vescovo dell'Aquila, allora pio operario, avvisandomi, che tutti i padri della sua congregazione non sentivano altrimenti. E mi viene avvisato, che in più diocesi si è tolta la riserva, che prima vi era, sovra la detta maledizione de' morti.
Che poi il mio contraddittore in questa ultima sua lettera abbia voluto seguire ad insultarmi, con ripetere più volte, ch'io voglia ritener la mia opinione per impegno, potea farne di meno, dopo ch'io mi son protestato più volte, che io ho scritto per liberare molti abituati in questa maledizione dal reato di tanti peccati mortali, e per conseguenza dal pericolo della loro dannazione. E quel tanto esagerare che fa, ch'io resista per impegno, non so se giovi alla sua causa poiché molti fondatamente potran giudicare, ch'esso voglia farsi stimar vincitore, non per forza di ragioni, ma col discreditarmi per ostinato, e col far credere agli altri ch'io non mi rivoco per non dichiararmi convinto. Ma quella cortesia ch'io ho usata con lui, dicendo, che ha scritto per buon fine, e ch'egli non usa con me, spero di riceverla dagli altri, che non vogliano giudicare, ch'io per solo impegno voglia dannarmi, col sostenere un'opinione da me già conosciuta per falsa.
Poteva ancora far di meno di prendersi tanto fastidio (spendendovi due pagine) in rimproverarmi una proposizione da me scritta, ch'è la seguente: Trattandosi di sagramenti, non è lecito di seguire la più probabile (opinione) quando l'opposta è probabile, benché meno probabile. Dunque, mi riprende, noi in materia di sagramenti siam tenuti a seguir l'opinione meno probabile contra la più probabile. La proposizione dannata dicea, che trattandosi di valore di sagramenti è lecito seguir l'opinione probabile, lasciando la tuziore: ma voi dite una cosa peggiore, mentre dite, che non solo sia lecito di seguir l'opinione probabile, ma di più che s'abbia da lasciare la più probabile, e seguir l'opposta meno probabile. Rispondo, che in ciò potea bastare al mio avversario di dire, ch'io
non mi fossi in ciò spiegato a bastanza. Ma chi non vede, che il dire, trattandosi di sagramenti, non è lecito di seguir la più probabile, s'intende a favor della libertà, e contra il valor del sagramento? Chi non vede, che l'opinione a favor del valore è lecito di seguirla, ancorché fosse improbabilissima? Io all'incontro già in più libri di morale che ho scritti1, ho detto tante volte, che contra il valor del sagramento non può tenersi l'opinione a favore della libertà, se non è o tuziore, o almeno moralmente certa; e non basta né la probabile, né la più probabile; onde sempreché l'opinione tuziore per lo valore è probabile, quella dee seguirsi.
Del resto ritornando al punto, io ho letta l'ultima lettera a me opposta, l'ho considerata, e non ho trovata cosa che m'abbia persuaso; e per mia quiete a quel che ha scritto il mio oppositore, già mi ho notate le risposte; ma non le do alle stampe, per non esser sempre da capo. Basta l'averci io scritto per cinque volte. Prego qui solamente il mio lettore, che leggendo il di lui nuovo libretto, legga o rilegga quel che in breve ho detto in questa materia; a differenza del mio contraddittore, che ha stimato bene di scrivere diffusamente; ma io all'incontro ho stimato e stimo sempre, che in ogni materia, così a fine che la scrittura facilmente si legga dagli altri, come anche per la migliore intelligenza de' leggitori, giova sempre più (proporzionatamente parlando) il restringersi alle ragioni più principali che fanno al caso, ed alle risposte delle principali opposizioni. Il voler rispondere ad ogni cosa di minor peso, più presto apporta confusione, o almeno tedio a chi legge. Se io volessi rispondere minutamente, come il mio avversario mi sprona a fare, sicché avessi a commentar la sua lettera, com'egli ha fatto con me, vi bisognerebbe un gran volume, e gran tempo; ma questo tempo io stimo meglio di spendere in cose più utili.