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S. Alfonso Maria de Liguori Istruzione e pratica pei confessori IntraText CT - Lettura del testo |
Capo XIII - Avvertenze sui precetti spettanti ad alcuni stati particolari di persone
Punto I. Dello stato religioso.
§. I. Dell'obbligo della professione religiosa.
1. Definizione dello stato religioso, e chi possa approvare le ragioni.
2. Il religioso dee tendere alla perfezione; quando pecchi il prelato, non correggendolo.
3. Età, accettazione, e spontaneità richieste per la professione. Circa le cause di nullità ec.
4. Se i vescovi sian tenuti a' voti ed alle regole. E se i fuggitivi e i discacciati. Cause per discacciare.
1. La religione, parlando secondo lo stato di vita, si definisce: Est status ab ecclesia approbatus fidelium in communi viventium, et ad perfectionem, tendentium per vota paupertatis, castitatis, et obedientiae. Si dice per 1. Ab ecclesia approbatus, perché le religioni prima s'approvano anche da' vescovi, ma dal concilio lateranese fu stabilito, che d'indi in poi si approvassero solamente dalla sede apostolica.
2. Si dice per 2. Ad perfectionem tendentium, perché ogni religioso per la sua professione è obbligato a tendere alla perfezione, mentr'è obbligato ad osservare le cose del suo stato, che sono già di consiglio, non di precetto. Perciò gravemente pecca il religioso contro quest'obbligo 1. se trasgredisce le regole del suo ordine per disprezzo, cioè o perché le stimi vane, o perché non voglia a quelle star sottoposto; del resto come dice s. Tommaso3, il mancare d'altro modo alle regole (anche frequentemente), le quali per sé non obblighino a colpa grave, non eccede la veniale. Ma ancorché le regole non obbligassero a colpa alcuna, non sarà mai scusato dal veniale, chi avvertentemente, e senza giusta causa, le trasgredisce; Laymann, Sanch., Valenza, ed altri dallo stesso s. Tommaso4, 2. Se col suo esempio è causa del rilasciamento delle regole, o almeno di qualche regola più importante, com'è quella del silenzio, dell'orazione, o d'altra simil cosa, con danno grave della comune disciplina5. 3. Se assolutamente determina di non far conto della perfezione. Ma si dimanda, se pecca gravemente chi volesse osservare le sole regole che obbligano a colpa mortale, e non curare dell'altre. Molti lo scusano, molti no. Ma ben dice Sanchez, che costui difficilmente potrà essere scusato dal peccato mortale, almeno per altri capi, cioè per lo pericolo in cui si mette o di mancare poi ai voti, o d'essere causa (come si è detto) del rilasciamento della comunità6. E qui avvertasi, che quantunque i sudditi non peccassero che leggiermente, nondimeno i prelati che trascurano di correggerli, peccano gravemente, quando i difetti son molti, e tali, che possan rilasciare la disciplina, come sono le rotture del silenzio, dell'orazione, de' digiuni ec. E così anche pecca gravemente (come dicono il p. Suarez, ed altri) chi ha l'officio di zelatore, se molto trascura d'avvisare il superiore de' difetti che vede7. In oltre, dice s. Tommaso8, che il prelato (bisognando) può anche bastonare il suddito, e rimproverarlo con villanie, purché non lo faccia per ira, né avanti a' forestieri, o novizi.
3. Si dice per 3. Per vota paupertatis etc., perché l'essenza della religione consiste in detti voti. Qui si noti per 1., che per lo valore della professione religiosa non è necessario che i voti sieno solenni, ma sì bene son necessarie tre cose: 1. che il soggetto abbia 16. anni compiti, ed abbia fatto un anno intiero
di noviziato, e non tenga alcun impedimento sostanziale per quell'ordine, come ha stabilito il trident.1. Ed in quanto alle donne ha dichiarato di più la s. c., che a niuna possa darsi l'abito prima de' 12. anni, contro la sentenza di Sanchez, Villalob., ecc. In oltre, prima di prender l'abito, e prima della professione, deve il vescovo o il suo vicario esplorare la volontà di ciascuna donzella; altrimenti si commetterebbe colpa grave; benché la professione resterebbe valida. E notano i Salmaticesi, che il vescovo può esplorar la volontà delle monacande anche ne' monasteri esenti2. II. È necessaria l'accettazione del prelato, e de' capitolari, secondo gli statuti di ciascun ordine. E l'errore circa la sostanza, così per parte del prelato, come di chi professa, vizia la professione3. Qui si noti, che vale la professione fatta in articolo di morte, come dichiarò Leone IX., o pure Stefano X., secondo riferisce Benedetto XIV.4. Di più si noti che s. Pio V. diè privilegio per comunicazione vale anche per le altre religioni), che fosse valida la loro professione in morte, anche fatta prima di finir l'anno della probazione in mano della badessa, maestra di novizie, o altra superiora. Dichiarò nondimeno la s. c. del concilio, che una tal professione valea solamente a riguardo di guadagnar le indulgenze. Ordinariamente non però, come dicono comunemente i dottori, Laymann, Busemb., Holzmann, ec., la professione dee farsi in mano del superiore regolare, parlando delle monache esenti, giusta il cap. Ad apostolicam, de regul., dove Innocenzo III. avendo inteso, che alcune monache e monaci professavano nell'infermità senza l'anno della probazione, e poi se ne ritornavano al secolo, decise, che fosse valida la professione, sempre che era stata accettata dall'abbate, o da altri per di lui commissione; e lo stesso dice Gonzalez con Peyrin., Tambur.5, Sanch.6. Pertanto, acciocché sia valida la professione, sempre dee farsi in mano del superiore. III. È necessario, ce la professione sia spontanea, e non sia fatta per timore incusso da altri a questo fine, o per timore riverenziale, o per esservi state minacce, o una continuata indignazione de' parenti, o preci importune, e spesso replicate, per cui tema il novizio una grave indignazione, se non professa7. Chi poi avesse fatta la professione nulla, e volesse uscir dalla religione, dee tra cinque anni riclamare, altrimenti non sarà più inteso, secondo il trident.8, perché si presume averla ratificata. E su questo punto giova qui notare più cose stabilite da Benedetto XIV. nella sua bolla, Si datum9; cioè 1. Che 'l superiore non possa discacciar niuno, se non si è fatta prima la causa formalmente. 2. Che le cause di nullità si debbano riconoscere così dal prelato regolare locale, come dall'ordinario del luogo. 3. Che 'l professo, non ostante che non abbia riclamato tra 'l quinquennio, possa nondimeno ottenere la restituzione in integrum dalla sede apostolica. 4. Che 'l professo non possa uscire dopo la prima sentenza, ma debba aspettar la seconda, sempre che ne pende l'appellazione10.
4. Si noti per 2., che i vescovi regolari non restano già assoluti de' voti, se non in quanto la di loro osservanza ripugna all'officio vescovile; così san Tommaso11, e comunemente gli altri dal c. Statutum, n. 18. q. 1. Che perciò il s. dottore vieta a' vescovi regolari il far testamenti12. All'incontro è probabilissima la sentenza, che il vescovo regolare non sia tenuto ad osservar le regole del suo ordine, come si ricava dal canone citato, dove dicesi: Monachus, quem canonica electio a iugo regulae absolvit, etc. E così anche non è tenuto agli altri voti particolari della sua religione13. Il religioso poi
fatto parroco è obbligato così a' voti, come alla regola, secondo la sentenza più probabile; ed a portare anche l'abito1. A tutto ciò sono obbligati anche i religiosi fuggitivi; e notasi, che tutto quello che costoro acquistano, l'uso è di essi, il dominio è del monastero; ed in quanto all'ubbidienza, ed alle regole, come anche all'officio, non sono obbligati, fintanto che non sono di nuovo ricevuti. Essi non però son obbligati a cercar d'esser ricevuti di nuovo; ma i prelati non sono obbligati a riceverli. Le cause per discacciare un religioso sono queste: I. Se a l'esser ammesso ha taciuto qualche impedimento essenziale, o qualche difetto molto nocivo alla comunità, come di lebbra, o di simile morbo. II. Se ha commesso qualche delitto infame, che porti danno a tutta la religione. III. S'è incorrigibile in altri delitti. Anticamente per ogni delitto grave, ancorché commesso una volta, poteano discacciarsi i religiosi; ma Urbano VIII. nel 1644. dichiarò, che niuno (eccetto nella compagnia di Gesù) possa esser discacciato, se non è incorrigibile; ma che possa solamente castigarsi con digiuni e carcere: il che dee farsi sempre colle monache, ancorché incorrigibile2.
5. I. Circa il voto della povertà. De' manoscritti.
6. Del peculio.
7. Quando si pecchi contro la povertà.
8. e 9. Della proibizione de' doni.
10. Quando sia la materia grave, e quando il religioso sia tenuto a restituire.
11. Se basti la licenza presunta.
12. Se ingiustamente vien negata la licenza. Quando il prelato l'avrebbe negata se avesse saputo ec. Se le abbadesse posson donare e dar licenza.
13. Se il religioso spende in usi turpi o vani colla licenza generale.
14. Se il prelato possa dar licenza di esporre al giuoco.
15. II. Circa il voto di castità e circa la clausura.
16. III. Circa il voto d'ubbidienza: quando obbliga, e circa quali cose.
17. Se il capitolo ordina la primiera osservanza. La disubbidienza è doppio peccato. Se in dubbio vi sia obbligo di ubbidire.
18. Se il precetto è di rivelare il segreto.
19. Se sopravviene nuova circostanza.
20. Se l'inferiore dà colla licenza negata dal superiore.
21. A chi son tenute d'ubbidire le monache.
22. Circa l'elezione dell'abbadessa.
5. I. Per lo voto della povertà è proibito a' religiosi il possedere o disporre di qualunque roba stimabile di prezzo. Se n'eccettuano i manoscritti, come ben dicono Lugo, Tournely, Sporer, Salmat., ecc. (contro Henno), perché questi più presto son cosa spirituale, essendo parti della mente. E ciò si prova così da un breve di Bened. XIII., dove si disse, che il religioso promosso al vescovado dee consegnare tutte le sue robe a' superiori, ma non i manoscritti; come da un'altra dichiarazione di Clemente VIII., che i religiosi posson disporre de' loro manoscritti anche senza licenza. Lo stesso dicono i Salmaticesi delle reliquie sagre3.
6. Al voto poi della povertà non ripugna per 1. il possedere beni in comune, come insegna s. Tommaso4, ed è espresso nel trident.5; e nell'Estrav. Ex iis, de verb. sign. Non ripugna per 2. il peculio, o sia vitalizio che tengono i religiosi in molti ordini con licenza de' prelati: perché sebbene secondo il concilio6, par che non possa dubitarsi ciò esser proibito, dicendo il concilio: Nemini liceat bona immobilia vel mobilia... etiam nomine conventus, possidere: nulladimeno per consuetudine, oggidì fatta quasi universale, e tollerata dalla s. sede, ben è lecito avere il peculio con licenza de' superiori per gli usi necessari ed onesti, purché il religioso sia apparecchiato a privarsene ad arbitrio del prelato: essendo che il voto della povertà, quantunque non possa abrogarsi in quanto alla sostanza, può nondimeno (come dicono i dd. comunemente) mutarsi in quanto al modo, secondo la consuetudine: la quale si presume giusta, semprech'è praticata anche da' religiosi timorati, ed è tollerata da' superiori, che ne sono consapevoli,
e potendo facilmente contraddire, non contraddicono. Ma bisogna qui avvertire per 1., che se alcun prelato permettesse senza precisa necessità l'uso del peculio, dove non v'è, io non saprei scusarlo da colpa grave; non già per causa della lesione del voto, ma per rilasciamento che da tal uso ne avverrebbe. Si avverte per 2., che se i superiori in qualche monastero volesser rimettere la vita comune, non possono i sudditi ripugnare, come dicono comunemente Suar., Navar., Less. ed altri; perché sebbene non è contro il voto il non osservare la vita comune, è nondimeno contro il voto il ricusarla sempreché (s'intende) da' prelati bastantemente si provvedesse alla necessità di ciascuno1.
7. È certo poi, che pecca il religioso contro il voto, per 1. se delle cose date a qualche uso se ne serve ad un altro, mentr'egli non può servirsi di quelle se non quando gliel concede il superiore2. Per 2. se le robe date al suo uso le dà ad imprestito. Dicono nonperò Laym., Sanch., Peyrin., ed Alessand. nella sua opera De monialibus, che non peccherebbe gravemente, se fosse sicuro della restituzione3. Per 3. se riceve per uso proprio, o pure consuma, o dona qualche cosa senza licenza del prelato, ed è allora obbligato alla restituzione. Lo stesso se senza licenza riceve danaro a poterne disporre a sua libertà, ancorché in opere pie, mentre il religioso non può avere né la proprietà, né l'uso della roba independentemente dal prelato; vedi il p. Rodriguez4 con Azor. lo stesso, se nasconde alcuna roba, per sottrarla dalla disposizione del superiore. Lo stesso, se rimette a' debitori qualche cosa da lui già acquistata, o pure qualche eredità, o legato a lui fatto; ma non già se non volesse accettare qualche donazione. La ragione si è, perché il dominio de' doni, prima d'essere accettati, non si trasferisce dal donante; ma sull'eredità, o legato lasciato al religioso, morto che sia il testatore, già subito vi acquista ius il monastero. Così dicono comunemente Lugo, Sanchez, Tournely, ec. Potrebbe in ciò peccare solamente contro la carità, impedendo il bene del suo monastero; ma non già contro il voto, il quale obbliga a non alienare l'acquistato, ma non ad acquistare5. Siccome poi il religioso non può donare senza licenza, così non può testare. Dice non però il p. de Alessandro, che se il religioso con licenza lascia qualche cosa ad un altro, seguita la sua morte, e 'l prelato promette d'eseguire la sua volontà, è tenuto il prelato ad attenere la promessa, siccome è tenuto il padrone ad osservar la promessa fatta al servo, secondo dicono Lessio e Sanch.6.
8. Ma parlando specialmente de' doni, è bene qui notare quel che ordinò Clemente VIII. nella sua bolla Religiosae, 28. I. Proibì a' religiosi, sudditi, e superiori, sotto pena di privazione dell'officio, e di voce attiva e passiva, e d'inabilità ipso facto incurrenda, di far qualunque dono, o in nome proprio, o del convento, anche a' suoi religiosi o prelati, se non avessero il consenso del capitolo generale; eccettoché se il dono fosse di soli esculenti, o poculenti; o di cose di divozione di poco prezzo: o pure se si desse per qualche limosina necessaria, o per esercitare l'ospitalità; ma tutto con licenza de' superiori. II. Proibì a' superiori di far conviti contrari alla frugalità religiosa per qualunque persona, o festività. III. Che chiunque riceve doni contro detta bolla, non v'acquisti alcun diritto, ma sia tenuto di restituirli al monastero, e non possa essere assoluto se non dopo la restituzione; e che tal restituzione non possa condonarsi, o concedersi di farsi a' poveri. Ma Urbano VIII. nella bolla Nuper, 158., sebbene confermò e rinnovò la bolla di Clemente, nondimeno vi pose alcune moderazioni. I. In quanto a' doni, permette quelli che si fanno propter actum virtutis et meriti, cioè per rimunerazione o gratitudine, o per
limosina (la quale veramente, come dice La-Croix, non viene sotto nome di munerum); ma anche sempre col consenso del prelato locale, dicendo, che per ciò basta la licenza data a voce. II. In quanto a' conviti, permette quelli che si fanno nel ricevere gli ordinari, e benefattori, purché non ripugnino alla decenza religiosa. III. In quanto alla restituzione de' doni, disse, potersi quella fare anche al convento più vicino, se non si potesse far comodamente al proprio. E qui si noti coll'istruttore de' confessori novelli1, che questo caso del ricevere contro la bolla di Clemente doni da' religiosi, sta riserbato al papa (benché senza censura); mentre ordinò Urbano, che i confessori ordinari non potessero assolvere il suddetto caso dopo l'emanazione della sua bolla; e che se 'l dono fosse più di dieci scudi, non possa essere assoluto il donatario neppure dalla s. penitenzieria, se non fatta già la restituzione del dono; il che è stato ancora confermato da Bened. XIV. nella sua bolla Pastor bonus del 1744.2.
9. Molti dd. appresso i Salmat.3 han detto, che la bolla di Clemente non è stata ricevuta, o almeno è andata in consuetudine, e che perciò non obbliga. Lo stesso han detto poi altri (a cui molto aderiscono i Salmaticesi) della bolla di Urbano, dicendo, che questa, essendo declarativa della bolla di Clemente, e non facendo nuovo ius, siccome non obbliga oggidì quella di Clemente, così neppure obbliga la bolla di Urbano. Ma quest'opinione non so come possa sostenersi, mentre, come ben dice l'istruttore de' confessori novelli4, Urbano non solo dichiarò e moderò la bolla di Clemente, ma ancora la confermò e rinnovò, e condannò ogni uso in contrario sino ad allora introdotto. Dicono non però La-Croix e 'l p. Mazzotta5, ch'essendo state fatte le suddette bolle a fin d'impedire l'ambizione e la dissipazione de' beni, non s'incorrono le pene in esse fulminate con dare due soli scudi, perché a rispetto di dette pene non si riputa grave tale somma. Né si vietano i conviti, e donazioni moderate per giusta causa, v. gr. per affezionare gli animi al monastero, per rimuovere qualche vessazione, o per mera benevolenza, come dice Croix. Quanta sia poi la somma che oggidì sia permessa a' superiori, o a' sudditi, di donare, dicono, che ciò dipende dall'uso approvato, secondo cui in ciascun ordine le suddette bolle sono state ricevute.
10. Restano a discifrarsi molti dubbi in questa materia. Si domanda per 1. Quale quantità spesa dal religioso senza licenza sia grave. Alcuni dicono, che dee farsi lo stesso giudizio de' furti de' religiosi a rispetto del monastero, che de' furti de' figli a rispetto de' padri. Ma giustamente ciò non l'ammettono Sanch. e Lugo, perché i figli posson possedere ma non i religiosi, che i padri ne' furti de' figli. Del resto comunemente dicono i dd., che per esser grave il furto del religioso de' beni del monastero, si richiede maggior materia che negli altri furti. Su ciò vi sono diverse opinioni. Azor., Nav., Castrop., Sanch., ec., assegnano per materia grave quattro scudi: e più per li conventi ricchi; ma questa opinione pare troppo benigna. Soto e Rodriq. assegnano due scudi per grave: e ciò La-Croix6 l'ha per certo. Lugo dice, esser materia grave sei carlini, ed otto se 'l monastero è opulento, e 'l religioso li prende dalla porzione assegnata al suo uso; ma se la roba resta in convento, e la desse ad altri religiosi, del convento, la stende sino a 5. scudi, purché non sieno danari. Ammettono poi Sanch., Bon., Lugo, Salm., ec., non esser colpa grave il prender cose comestibili in più volte, ed in materia leggiera, benché giungessero poi a materia grave, presumendosi, che in ciò i prelati non sieno gravemente inviti; purché (limitano) non sia troppo il danno del convento, e non
sieno cose di prezzo1. Quando poi la materia è grave, se sia tenuto il religioso a restituire, non avendo altro che la sola porzione che 'l monastero gli dà per uso proprio; altri l'affermano, ma altri lo negano, come Pelliz., de Leone, Fagund., Salmat., ec., perché non si presume (come dicono), che 'l prelato voglia obbligare il suo suddito a restituire con tanto incomodo. E ciò non pare improbabile nel caso, che quella porzione è assolutamente necessaria al religioso per gli usi ordinari2.
11. Si domanda per 2. Se per non offendere la povertà, basta la licenza presunta. Non ha dubbio che basti la licenza tacita, o sia presunta de praesenti, come sarebbe se 'l superiore già vedesse quel che prende, o spende il religioso, e potendo facilmente vietarlo, non lo vietasse (quantunque ben dice Tournely, che questa non può esser regola generale); o pure, come dicono Sanch., Castr., Pelliz., Salm., ec. se in quella religione vi fosse qualche consuetudine di spendere, o ricevere alcuna cosa senza licenza, e 'l prelato la tollerasse3; la ragione, perché in tali casi la tacita licenza equivale all'espressa. La maggior difficoltà è, se basta la licenza presunta de futuro, o sia ratiabizione, cioè, che se il religioso la domandasse, il prelato la concederebbe. Questa non l'ammette Sanchez; ma l'ammettono poi Suar., Castrop., Azor., Nav., Tol., Valenz., Holz., Elbel ed altri4; e non improbabilmente, sempre che la presunzione è ragionevole; poiché allora il suddito già procede con dipendenza dalla volontà almeno virtuale del superiore, e questo fa che lo liberi dalla colpa di proprietà. E per questa sentenza è ancora s. Tommaso5, il quale dice, che 'l religioso non può far limosine sine licentia abbatis vel expresse habita, vel probabiliter praesumpta. E che intenda il s. dottore della presunzione, non de praesenti, ma de futuro (ch'è la ratiabizione) lo dichiara in altro luogo6, dove dice: Non esse proprietarium religiosum qui donat aliquid ponens spem in ratihabitione praelati. Del resto tali disposizioni del suddito per licenza presunta, per lo più sono illecite, almeno venialmente; perché i superiori, almeno in quanto al modo, per lo più in ciò sono inviti; e non rare volte anche gravemente, specialmente quando elle sono state espressamente proibite7.
12. Si dimanda per 3. Se negando il prelato indebitamente la licenza, sia scusato il suddito dal voto della povertà. Si risponde, che no; purché (si limita) il pericolo del danno non sia nella dimora, talmenteché il suddito abbia allora diritto alla concessione della licenza, perché in tal caso si presume esservi almeno il consenso del superior maggiore, ed in qualche caso potrà ancor giudicarsi che non obblighi il voto: così comunemente Castrop., Holzmann, de Aless., ed altri con s. Tommaso8, che dice: Si vero subitum periculum, non patiens tantam moram, ut ad superiorem recurri possit, ipsa necessitas dispensationem habet annexam; quia necessitas non subditur legi9. Si dimanda per 4. Se può il suddito dare colla licenza qualche cosa a taluno, il quale se fosse stato noto al prelato, non avrebbe quegli data la licenza. Se si presume, che 'l prelato rivocherebbe la licenza, non può; altrimenti poi, se presumesi, che non la rivocherebbe, se lo sapesse, benché a principio l'avrebbe negata. In dubbio poi, dee richiedersene il prelato; ma in caso che non possa farsi una tal richiesta, la presunzione sta per la licenza data; così Molina e de Alessandro10. Si dimanda per 5. Se le abbadesse possano fare donazioni (s'intende lecite), e dar licenza di farle. Si risponde che sì, sempre che sieno moderate, e ragionevoli, perché le abbadesse ben hanno già l'amministrazione de' beni. Possano ancor elleno delle rendite far limosine, e possono
ancora applicarle alla chiesa, o ad accrescere l'abitazione, o le rendite del monastero1. Quali contratti poi, o remissioni, possa far l'abbadessa, e 'l suo capitolo, vedasi quel che si dice nel libro2.
13. Si dimanda per 6. (e questo punto è di maggior conseguenza), se 'l religioso che ha la licenza generale dal suo prelato di spendere a suo arbitrio qualche somma, e la spende in usi turpi o vani, pecchi contro il voto, e sia tenuto alla restituzione così esso, come chi quella somma riceve. L'afferma la prima sentenza che noi seguiamo, ed ella è comunissima con Castrop., Sanch., Silv., Mol., Salm., Roncaglia, ec., sì perché il prelato, dando la licenza, non intende darla a tali usi illeciti; sì perché, quantunque l'intendesse, la sua licenza sarebbe invalida, essendo il prelato non già padrone, ma semplice amministratore de' beni del monastero. Lo nega all'incontro la seconda sentenza, che sostengono il p. Alessandro, Rebell., Bordone, ed altri. Dicono questi, ch'essendo la licenza illimitata, comprende gli usi così leciti, come illeciti; e sebbene il prelato è semplice amministratore, non si ha però per alcuna legge, che la sua facoltà sia ristretta a dar licenza per li soli usi leciti: onde, benché fosse illecita la licenza, almeno non è invalida. Ma dando il prelato (soggiungono) la licenza generale, non è che voglia concederla anche agli usi illeciti, né che la limiti ai soli leciti, ma toglie di mezzo l'impedimento che avea il suddito di spender quella somma a suo arbitrio per difetto della licenza. Ed ancorché tal licenza del prelato fosse invalida, dicono, che almeno la restituzione della roba si presume rimessa dalla religione, acciocché non patisca la fama o del suddito, o del prelato, o della persona che riceve quella somma. Ma con tutto ciò io non so partirmi dalla prima sentenza, perché non mi si prova abbastanza, che 'l prelato possa mai dare questa licenza, o speciale o generale, agli usi illeciti; mentre sui beni del monastero il prelato non ha altra facoltà, se non quella che i canoni, o la religione gli concedono: ma questa facoltà non gli è concessa da' canoni, né dalla religione, la quale non può presumersi, che voglia dargliela in ruina de' suoi figli. In quanto poi alla restituzione, dicono Sanch., Mol., ed i Salmat., con altri, che basta a chi ha ricevuta la roba, il restituirla al medesimo religioso, purché quegli non sia di nuovo per abusarsene. Ma ciò non s'accorda colla bolla di Urbano notata di sopra, dove s'ordina, che la restituzione si faccia al monastero. Di più dicono Castrop., i Salmat., ec., quod si mulier ob turpem usum rem acceperit a religioso, excusatur a restitutione, si propter ipsam honor religionis vel religiosi periclitetur. Ma questo pericolo mi pare molto difficile ad avvenire. Scusano ancora la donna, se potesse presumersi, che 'l religioso intende donarle quella roba che dovrebbe restituire, per ragione ch'ella è povera: mentre allora già il religioso spende la somma data in uso onesto. Ma a ciò anche ostano le bolle mentovate, ordinandosi ivi, che la restituzione si faccia al convento, e che dal convento non possa condonarsi, né concedersi di farla a' poveri3.
14. Si domanda per 6. Se 'l prelato possa dar licenza al religioso di esporre qualche somma al giuoco. Lo può, se il giuoco è lecito, cioè di ricreazione, e non di mera sorte, e se la somma è picciola, e 'l religioso non sia di religione di stretta osservanza, come dicemmo al capo X. n. 222. E come dicono Azor., Less., Mol. e Salm., in ciò può il religioso servirsi anche della licenza tacita, o presunta. Se poi la somma è grande, o il giuoco per sé è illecito, già abbiamo detto nel numero antecedente, ch'è invalida la licenza, o generalmente, o particolarmente data4.
15. II. In quanto al voto di castità, già si sa, che ogni religioso che l'offende, pecca ancora di sacrilegio; ed in oltre di scandalo, se per lo suo peccato
venisse a patir la fama della religione. Per tutela poi della castità è stata introdotta la clausura, non solo per le monache, ma anche per li religiosi; i quali per la clementina, Nullus, cap. Cherub., non possono uscir dal monastero se non con causa, e col compagno, e con licenza del prelato in ciascuna volta particolare, e non generale. E comunemente dicono i dd., che la trasgressione di tal precetto è grave, se non fosse per una o due volte, ma di giorno (non di notte), e senza scandalo1.
16. III. In quanto al voto d'ubbidienza, debbon notarsi più cose. Si noti per 1., che se 'l prelato non esprime il precetto, dicendo, impongo, comando, ec., non v'è obbligo preciso d'ubbidire, così Suar., Salmat., Pelliz., ec. Ma in ciò aggiungo, che bisogna distinguere l'uso di ciascuno istituto; poiché in alcuni i superiori in vece di dire comando, soglion dire, io prego, si compiaccia, v. r. ec. In qualunque modo nonperò diasi l'ubbidienza, dicono comunemente i dd. Suar., Sanch., Vasq., Medina, ec., non obbliga sotto colpa grave, se non dice, in virtù di santa ubbidienza, o pure in nome di Gesù Cristo, o sotto pena di scomunica ipso facto, e simili2. Si noti per 2., che 'l superiore può comandare tutte le cose che spettano direttamente o indirettamente alla regola, o alla maggior osservanza di quella; ma non già quelle cose che sono contro la regola (purch'egli non vi dispensi), o sopra la regola, se non lo facesse per esercitare l'ubbidienza. Non può imporre poi l'ubbidienza di eseguire certe penitenze, o altre gravezze straordinarie (se non fossero in pena), né di accettare il vescovato, o altro beneficio, o sia curato o semplice; né di andare agl'infedeli con manifesto pericolo di morte o di schiavitù; né di assistere agli appestati estranei, se non fosse per mancanza di chi amministri loro i sacramenti necessari. Si è detto estranei, perché son tenuti poi di ubbidire in assistere a coloro che son dello stesso ordine; Sanch., Gaet., Sporer, ed altri comunemente3. Qui si noti quel che dicesi nel tridentino4: Non licet regularibus a suis conventibus recedere etiam praetextu ad superiores suos accedendi, nisi ab iisdem missi, aut vocati fuerint.
17. Si noti per 3., che non peccano i religiosi, non osservando la primitiva regola, fatto ch'è l'uso in contrario, come dicono Turrecrem., Sanch., Gaet., Salm., ec. Si dubita qui, se peccano non ubbidendo al capitolo generale, che ordinasse la prima osservanza. Lo negano probabilmente Castrop., Laym., Sporer, ec., se non fosse che la religione, se non si riforma, si renderebbe più nociva che utile. Ma altri assolutamente, ed anche probabilmente l'affermano, come Suar., Pelliz., Salmat., de Alessandro ecc.5. Del resto è certo, che sempre il capitolo generale o provinciale può fare qualche nuovo statuto utile alla religione, che non sia difforme alla regola6. Si noti per 4., che 'l religioso che trasgredisce il precetto del superiore, più probabilmente, come dicono Suar., Castrop., Pelliz., Salmat. ec., commette non uno, ma due peccati: uno contro la virtù della religione per ragion del voto, l'altro contro la virtù dell'ubbidienza promessa al prelato, la quale obbliga precisamente al voto7. Si noti per 5., che 'l suddito è obbligato ad ubbidire, sempreché la cosa imposta non è certo peccato; così insegnano tutti, s. Antonino, Silvio Gaet., Cabassuz., Tournely, ed altri con s. Bernardo, s. Bonav. e s. Agost. in c. Si quid culpatur. dist. 23. q. 1., perché il superiore è in possesso della sua podestà di comandare, onde non può esser di quella privato, se non costa, che 'l suo precetto è illecito8; si osservi ciò che si è detto al capo 1. num. 18. E lo stesso dee dirsi nel dubbio, se 'l precetto eccede o no la facoltà del superiore, o se 'l precetto sia sopra la regola, come dicono Azor., Sanch., Val., Salmat., ec.9. Lo stesso
dicesi in dubbio, se chi comanda sia legittimo superiore; stando egli in tal possesso1, sempre allora deve ubbidirsi. Se n'eccettua nondimeno, se l'ubbidienza imposta da una parte fosse molto molesta al suddito, e dall'altra probabilmente illecita, o probabilmente eccedesse la podestà del superiore; o pure se l'ubbidire apportasse al suddito pericolo di grave danno spirituale o temporale; così comunemente Soto, Lessio, Tournely, Sanch., Castrop., Salmat., Holzmann, ec.2.
18. Si dimanda circa il voto d'ubbidienza per 1. Se sia tenuto il suddito ubbidire al prelato, che gl'impone di rivelare il secreto a lui commesso. Si risponde con s. Tommaso3, s. Antonin., Navar., ec., che no, perché prevale il precetto naturale al precetto del superiore. Ma altrimenti corre, se occultando il segreto ne avvenisse danno al monastero, o ad altro innocente, o allo stesso prelato4. Se poi possa taluno rivelare il segreto per evitare il danno proprio, vedi ciò che si è detto al capo XI. n. 9. in fine.
19. Si domanda per 2. Se possa essere scusato il religioso da' voti fatti nella professione quando sopravenisse qualche circostanza, che se fosse stata preveduta, esso non gli avrebbe fatti. Già dicemmo al capo V. n. 23. e 36., ciò esser probabile con s. Tommaso, s. Antonino ed altri, parlando de' voti semplici; eccettuati nonperò il voto di religione, e di castità, come dicono Sanchez, Suar., Ponzio, Castrop., Diana, Salm., ec. contro Bonacina, il quale dice, che sarebbe scusato da essi chi si trovasse in gran pericolo d'incontinenza; ma noi diciamo, che se valesse questa ragione, quasi sempre tali voti rimarrebbero vani. Ma parlando de' voti solenni, che si fanno o nella professione religiosa, o nel prendere gli ordini sacri, niuna circostanza, quantunque nuova e non preveduta, può da quelli mai scusare, come dicono tutti senza contraddizione; perché il professo, o pure l'ordinato in sacris, non si considera come persona particolare, cui giovi più l'essere sciolto dal voto, ma come membro della comunità, al ben della quale dee posporsi il bene privato5. E lo stesso per la stessa ragione corre ne' voti che si fanno (benché non solenni) in alcune congregazioni di uomini, o di donne; e massimamente se vi si aggiunge il voto, o giuramento di perseveranza, perché allora (come dicemmo al capo V. num. 19) v'è il contratto colla congregazione obbligatorio per ambe le parti; sicché siccome non può la congregazione licenziare il soggetto per qualunque nuova circostanza che sopravvenga (s'intende senza sua colpa), così non può il soggetto licenziarsi dalla congregazione6.
20. Si dimanda per 3. Se vaglia la licenza concessa dal prelato inferiore, quando è stata prima negata dal superiore. Si risponde, che sì con Holzmann, Pelliz. e Croix, sempre che 'l superiore non abbia proibita positivamente la cosa richiesta; poiché col negare solamente la licenza, non s'intende, ch'egli irriti la podestà dell'inferiore. Se poi il superiore vietasse all'inferiore di dare una qualche licenza, probabilmente anche dicono gli aa. citati, che la licenza dell'inferiore sarebbe valida (benché illecita), sempreché il superiore non la dichiari affatto nulla7.
21. Si domanda per 4. A chi sono obbligate le monache di ubbidire per ragion del voto. Si risponde: I. Al sommo pontefice. II. Al vescovo, se non sono esenti; se poi sono esenti, al prelato dell'ordine. Ma circa la clausura, anche le esenti son tenute di ubbidire all'ordinario del luogo, per la bolla di Gregorio XV. Inscrutabilis; vedasi ciò che si dirà al capo XX. de' privilegi, al num. 80.. In quanto poi all'ubbidienza generalmente dovuta all'ordinario, si noti, che le monache non son tenute ad ubbidire circa l'elezione delle officiali del monastero, come ha dichiarato
la s. c. Si noti di più, che in tempo della visita sono obbligate le monache di palesar al prelato le religiose inosservanti che trasgrediscono la regola, eccettoché se il delitto fosse emandato, o affatto occulto, o fosse cognito per segreto naturale, e potesse occultarsi senza danno comune; o se dall'altre già sarà palesato: o finalmente se 'l manifestarlo si prevede inutile, o ridondante in danno proprio, e l'occultarlo all'incontro non sia di danno comune1. III. Sono obbligate le monache di ubbidire alla badessa in ciò che spetta all'osservanza. Dicono poi alcuni dd., che la badessa non possa comandare in virtù d'ubbidienza, poich'ella non ha giurisdizione spirituale, ma solo presiede al governo economico del monastero. Ma con molta ragione il p. de Alessandro con Pasqualigo e molti altri sostiene il contrario, essendo che per lo voto d'ubbidienza sono obbligate le monache di ubbidire a tutti i legittimi superiori, e le badesse ben sono riconosciute da' pontefici, allorché approvano l'ordine, per vere superiore2. E per questa ragione della podestà dominativa la badessa, quantunque non possa dispensare i voti particolari delle monache, ben può nondimeno irritarli, come dicono Soto, Nav., Silv., Tamb., e de Aless.3. E può irritarli, ancorché i voti fossero stati fatti di suo consenso; Armil., Silv., Salmat., de Aless. ecc.,4.
22. Qui giova avvertire che secondo il trident.5, non può esser eletta per badessa quella che almeno non ha 40. anni di età ed 8. di professione; e dev'esser corista. Di più si avverta che se le monache son discordi, deve il prelato assegnare il termine, dopo il quale egli deputerà la badessa, secondo il decreto della s. c. Ne' monasteri non esenti il prelato sarà il vescovo; negli esenti poi sarà il superiore regolare che prenderà i voti insieme col vescovo che solo assisterà. Fatta l'elezione, non potrà la badessa esercitare l'officio, se prima non è confermata dal prelato. Altre cose più minute possono osservarsi nell'opera6.
§. III. A chi sia proibito l'entrare in religione.
23. Se possono entrare i figli, lasciando i genitori in necessità. E se i professi sian tenuti ad uscire per soccorrere i genitori.
24. Se possano entrare con dissenso de' genitori. Se si lasciano i figli in necessità; e se i fratelli o sorelle.
25. Chi distoglie dallo stato religioso.
26. Chi trascura la sua vocazione.
27. Se possano entrare i debitori.
28. Se i vescovi.
29. Se i parrochi.
23. Per I. non possono entrare coloro ch'entrando in religione dovrebbero lasciare in necessità i loro genitori, sempreché all'incontro potrebbono sovvenirli restando nel secolo: eccettoché se essi figli nel secolo, come dice s. Tommaso7, restassero in pericolo di cadere in colpa grave, Si vident non posse vivere sine peccato mortali, vel non de facili, sono le parole del santo; e lo stesso dicono Sanch., Castrop., Lez., Peyr., Salmat., ec.8. Per pericolo poi, come dicono i Salmaticesi, s'intende pericolo prossimo. E per necessità s'intende non solo l'estrema, ma anche la grave, come dicono comunemente i dd. con s. Tommaso; il quale dice all'incontro nel luogo citato, che non è obbligato il figlio a restar nel secolo, si (parentes) possunt aliqualiter sustentari, non honorifice9. Si noti non però, che se 'l figlio lasciasse colpevolmente i suoi genitori in grave necessità, non sarebbe invalida la sua professione. E perciò, secondo la sentenza più probabile di s. Antonino, Gaet., Sanch., Bonac., Salmat., Bord., Busemb., ec., se 'l figlio è già professo, non è tenuto ad uscire dalla religione per soccorrere i genitori, che stanno in grave necessità. La ragione si è, perché il professo ha già preso stato, siccome il figlio che fosse ammogliato. E ciò insegna lo stesso dottore Angelico10 dicendo: Professus reputatur mortuus mundo, unde non debet occasione sustentationis parentum exire a claustro. Si è detto necessità
grave, perché nell'estrema ben sarebbe il figlio obbligato ad uscire1.
24. Fuori nondimeno del caso di necessità, dicea Lutero, che peccano i figli entrando in religione senza il consenso de' genitori. Ma il contrario han detto tutti i ss. padri, s. Girolamo, s. Ambrogio, s. Agostino, s. Gio. Grisostomo, il concilio toletano X. c. ult., s. Tommaso, e tutti i cattolici; mentr'è certo, come dice l'angelico2. Che circa l'elezione dello stato i figli sono affatto liberi e sebbene conviene (come dicono i dottori), che i figli non partano senza la benedizione de' genitori, ciò nulladimeno s'intende quando non v'è pericolo, che i parenti gl'impediscano la vocazione; ma perché questo pericolo ordinariamente sempre vi è, perciò s. Tommaso3 assolutamente avverte i figli a non prender consiglio da' parenti, quando si tratta di vocazione religiosa: Ab hoc consilio (dice il santo) amovendi sunt propinqui, propinqui enim in hoc negotio amici non sunt, sed inimici. E s. Cirillo riferito dallo stesso s. Tommaso4, spiegando quel detto di s. Luca: Nemo mittens manum ad aratrum, et respiciens retro, aptus est regno Dei5, dice: Aspicit retro, qui dilationem quaerit cum propinquis conferendi6. I genitori parimente non possono entrare in religione, e lasciare i figli in grave necessità, o senza provederli della conveniente educazione, non proviso qualiter educari possint, dice s. Tommaso nel luogo citato. Ma ciò non s'intende, come dicono Suar., Castrop., Pelliz., Salm., ec. (ordinariamente parlando) de' figli già emancipati7. In quanto poi a' fratelli e sorelle, allora solamente non posson lasciarsi per entrare in religione, quando quelli restassero in necessità estrema; ma se sono solamente in grave, chi ha fatto voto di religione, non può perciò differirlo, almeno per molto tempo, senza dispensa8.
25. Ma prima di passare avanti, è di bene qui avvertire, che i genitori, i quali senza giusta e certa causa distolgono i figli dallo stato religioso in qualunque modo, o con male arti, o con semplici preghiere, o promesse, non possono essere scusati da peccato mortale; così comunemente s. Antonino, Nav., Tournely, Abelly, Salmat., Concina, Spor., Mazzot. ec. E (come dicono) non solo i genitori, ma qualunque persona che distoglie il prossimo dalla chiamata alla religione, pecca gravemente, per lo grave danno che in ciò gli cagiona. I genitori poi peccano doppiamente, contro la carità, e contro la pietà; mentr'essi son tenuti per obbligo di pietà a procurare il maggior profitto spirituale de' figli, come ben avverte Bonacina9.
26. Ma in oltre qui si dimanda, se pecca gravemente chi ha la vocazione religiosa, e la trascura. Risponde Lessio10 che per sé parlando costui non peccherebbe, poiché i divini consigli non obbligano a colpa; nulladimeno soggiunge che non potrebbe essere scusato da peccato chi stimasse di dannarsi restando nel secolo; ecco le parole di Lessio: Si conscientia dictet tibi (quod saepe accidit) te desertum iri a Deo, nisi divinae vocationi obtemperes, et te periturum, si manseris in saeculo, etc., tunc peccatum est non sequi divinam vocationem. Del resto io dico così: Se pecca gravemente (come di sopra si è detto) ognuno che distoglie un altro dalla vocazione religiosa per lo danno che gli fa, come sarà libero da colpa chi si conosce certamente chiamato da Dio alla religione, e vuol restare nel mondo con tanto pericolo della sua eterna salute? Dice il dotto Habert, che chi prende uno stato di vita a cui non è chiamato da Dio quantunque (assolutamente parlando) possa in quella salvarsi nondimeno difficilmente si salverà; poiché (come parla) resterà come un membro smosso dalla sua sede, che difficilmente potrà ben esercitare il suo officio. E così chi vuol restare nel secolo contro la divina chiamata,
difficilmente si salverà, giacché Dio gli negherà nel secolo quegli aiuti abbondanti che gli avea preparati nella religione, e senza tali aiuti potrebbe salvarsi (assolutamente parlando)), ma non si salverà. S. Gregorio scrivendo a Maurizio imperatore, che avea vietato a' soldati di farsi religiosi, disse, che questa era una legge ingiusta, perché a molti chiudeva il paradiso: Nam plerique sunt (parole di s. Gregorio), qui nisi omnia reliquerint, salvari nullatenus possunt. Ora l'esporsi a questo gran pericolo della salute, io non posso, né potrò mai persuadermi, che sia immune da colpa. Se poi questa colpa sia grave o leggiera, lo lascio considerare e decidere a' savi1. Ma torniamo al punto.
27. II. Non possono entrare in religione i debitori, ch'entrando non possono soddisfare, e potrebberlo restando nel secolo, senza gran difficoltà, e tra breve tempo; Così Azor., Navar., Sanch., ec. E benché sia abbastanza probabile la sentenza di s. Tommaso2 (seguito da s. Antonin., Gaetan., Silv., Palud., Arm.), il quale dice, che il debitore non tenetur in seculo manere, ut procuret unde debitum salvat; dicendo, che a costui basterà cedere i beni che tiene, quia (la ragione che adduce) persona liberi hominis superat omnem aestimationem pecuniae. Nulladimeno pare alquanto più probabile la prima sentenza, sempreché non però (come si è detto) possa il debitore soddisfare tra breve tempo, cioè tra due anni; secondo dicono Sanchez e Navarro; e possa soddisfare senza notabile difficoltà, perché (secondo convengono i dd. di detta prima sentenza) se al debitore, col rimanere nel secolo anche per breve tempo, sovrastasse un probabile pericolo di cadere in peccato, o di perdere la vocazione, allora egli può subito entrare. S'intende in oltre, purché i debiti sieno certi, mentre per soddisfare gl'incerti non v'è quest'obbligo di aspettare come insegnano comunemente Castrop., Suar., Lugo, Sanch., Salmat., ec.3. Avvertasi non però, che Sisto V. in una sua bolla del 1587. e Clemente VIII. proibirono di entrare in religione a' debitori di gran somma, che han dilapidati i loro beni, prima di soddisfare; o coloro che debbon rendere i conti, prima di renderli4.
28. III. Non possono farsi religiosi i vescovi, poich'essi non posson lasciare le loro chiese senza giusta causa; e ciò sì per lo voto che fanno in accettarle, com'insegna s. Tommaso5, obbligandosi a servirle perpetuamente; sì per lo coniugio spirituale che 'l vescovo contrae colla sua chiesa, il quale coniugio solo da Dio può sciogliersi, come sta espresso nel cap. Inter corporalia, de translat. episc., dove dice Innocenzo III.: Non enim humana, sed potius divina potestate coniugium spirituale dissolvitur. Dal che giustamente deducono Soto, Sanch., Gaet., Vasq. e Salm. (contro Suar. e Barbos.), che la permutazione de' vescovadi è proibita di legge divina, onde neppure il papa può validamente dispensarvi senza giusta causa. Dico senza giusta causa, inperciocché, come si ha nel cap. Nisi, de renunt., ben può il papa, propter aliquam utilem et honestam causam, dar licenza di rinunziare o permutare il vescovado. Le giuste cause sono, come dicono i dd. I. Per bene della chiesa universale, ed anche particolare (parlando delle permutazioni), se v. gr. a qualche chiesa non vi fosse altro soggetto idoneo da collocarvi. II. Per difetto proprio se 'l vescovo è infermo, o se quell'aria per lui è nociva, o s'è vecchio, o ignorante, o irregolare. III. Per difetto de' sudditi, a rispetto de' quali non possa egli più far profitto, o non possa ben esercitare il suo officio. IV. Per evitare lo scandalo d'altri; ma non s'intende lo scandalo di taluni, che volessero conculcar la giustizia6.
29. Ciò non però che si è detto de' vescovi, non corre per li parrochi; poiché questi possono farsi religiosi anche
contraddicendo il vescovo come dichiarò Urbano II. nel c. Duo sunt, 19. quaest. 2., dicendo: Si quis clericorum in ecclesia sua sub episcopo populum (cioè proprium, come spiega la Glossa) retinet, et seculariter vivit, si afflatus Spiritu sancto in aliquo monasterio, vel regulari canonica salvare se voluerit... etiam episcopo contradicente, eat liber nostra auctoritate. E come dice s. Tommaso1, il parroco, entrando in religione, non ha neppure bisogno della licenza del papa. Ciò sta confermato da Benedetto XIV. nella sua bolla, Ex quo dilectus, del 1747. Dice nondimeno ivi il papa, che 'l parroco, prima d'entrare, deve avvisarne il vescovo; e di più dichiara, che la parrocchia non vaca sino alla di lui professione, sicché a lui spettano i frutti per tutto il tempo del noviziato. E lo stesso corre per gli altri beneficiati, come dicono Suarez e Sanchez; ma questi (come soggiunge Benedetto nella stessa bolla) non peccano, se entrando in religione lasciano di avvisarne il vescovo, per timore d'esserne impediti. Del resto dichiara poi il pontefice, che siccome il prelato regolare può in qualche caso ripetere il suo religioso passato a religione più stretta, così anche può il vescovo ripetere il suo parroco o chierico dalla religione, quando il suo passaggio fosse di grave danno alla chiesa, dov'era ascritto, Si ex transitu suo prima ecclesia gravem sustineret iacturam etc. Sed si ecclesia graviter laederetur, esset revocandus. Le prime parole sono d'Innocenzo IV. Le seconde sono del Panormitano, di cui s'avvale Benedetto nella suddetta bolla, e poi conclude: Et sic satis provisum est episcopo2.