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S. Alfonso Maria de Liguori
Sermoni compendiati

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SERMONE XLV. - PER LA DOMENICA XVI. DOPO PENTECOSTE

 

Dell'impudicizia.

Ecce homo quidam hydropicus erat ante illum. (Luc. 14. 2.)

 

L'impudico è simile all'idropico; l'idropico patisce una tal sete, che quanto più bee più resta sitibondo.


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Tal è il maledetto vizio della disonestà, non sazia mai. Così dice s. Tommaso da Villanova: Sicut hydropicus, quanto magis abundat humore, tanto amplius sitit; sic fluctus carnalium voluptatum. Per tanto, dandoci con ciò motivo il corrente vangelo di parlare del vizio disonesto, voglio oggi farvi intendere

 

Nel punto I. L'inganno di coloro i quali dicono che il peccato disonesto è poco male;

 

Nel punto II. L'inganno di coloro i quali dicono che questo peccato Dio lo compatisce, e non lo castiga.

 

PUNTO I. Inganno di coloro i quali dicono che il peccato disonesto è poco male.

 

Dice dunque il disonesto che questo peccato è poco male: ciò avviene, perché tutti gli altri sentono la puzza ed abborriscono le sue laidezze, egli solo non la sente e non l'abborrisce, fatto simile, secondo scrive s. Pietro, al porco involto nelle sue sozzure, che non gli fanno vedere il male che fa: Sus lota in volutabro luti1. Dimmi tu che parli così, puoi negare che questo peccato sia peccato mortale? Se lo neghi sei eretico, mentre dice s. Paolo: Nolite errare: neque fornicarii, neque adulteri, neque molles etc. regnum Dei possidebunt2. E se è peccato mortale e non è di poco peso, mentre è più grave del furto, della mormorazione, della frazione del digiuno e di altri peccati mortali; come puoi dire che sia poco male? Forse poco male ti pare un peccato mortale? Poco male disprezzare la grazia di Dio, voltargli le spalle, e perdere la sua amicizia per un breve gusto di bestia?

 

Scrive s. Tommaso l'angelico, che il peccato mortale, per essere un disprezzo che si fa di un Dio infinito, contiene una certa infinità di malizia: Peccatum in Deum commissum quamdam infinitatem habet ex infinitate divinae maiestatis3. Un peccato mortale è poco male? Egli è un male così grande, che se tutti gli angeli e tutti i santi, gli apostoli, i martiri e la stessa Madre di Dio offerissero tutti i loro meriti per soddisfare un solo peccato mortale, neppure basterebbero; no, perché quella soddisfazione è finita, ed il debito è infinito a riguardo della maestà infinita di Dio offesa. È troppo grande poi l'odio che Iddio porta al peccato osceno. Se una dama trova un capello nel suo piatto non mangia in quella mattina per la nausea. Or Dio che è la stessa purità, con quale sdegno guarderà quella schifezza commessa contro la sua legge! Egli ama infinitamente la sua purità, e per conseguenza odia immensamente quella sensualità, che chiamano gli uomini poco male. Anche i demonj, che prima in cielo erano più nobili di grado agli altri angeli, sdegnano di tentare gli uomini a' peccati di carne.

 

Dice s. Tommaso4 che Lucifero, il quale si giudica essere stato il demonio che tentò Gesù Cristo nel deserto, lo tentò di altri peccati, ma sdegnò di tentarlo ad offendere la castità. Questo peccato è poco male? È poco male dunque il vedere che un uomo che tiene l'anima ragionevole ed arricchita da Dio di tante grazie si rende con questo peccato simile alle bestie? Scrive s. Girolamo5: Fornicatio et voluptas pervertit sensum,


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et de homine brutum efficit. Nell'impudico più propriamente si avvera il detto di Davide: Homo cum in honore esset comparatus est iumentis et similis factus est illis1. Dicea s. Geronimo, che non vi è cosa più vile e bassa che farsi vincere dalla carne: Nihil vilius, quam vinci a carne. È poco male lo scordarsi di Dio, e discacciarlo dall'anima sua per dare una schifosa soddisfazione al corpo, nella quale, dopo che è passata, la stessa persona se ne vergogna? Di ciò si lamenta il Signore con questi impudici: Dicit Dominus Deus: quia oblita es mei et proiecisti me post corpus tuum2. Dice s. Tommaso3 che per ogni vizio l'uomo si allontana da Dio; massimamente si allontana per il vizio disonesto: Per luxuriam maxime recedit a Deo.

 

Aggiungete che questo peccato per il numero con cui facilmente si moltiplica diventa un male immenso. Un bestemmiatore non bestemmia sempre, ma solo quando si ubbriaca o ha l'occasione di adirarsi. Un ladro non ruba ogni giorno, ma solo quando gli vien fatto. Un assassino, che per mestiere va uccidendo gli altri, al più commetterà otto o dieci omicidj. Ma l'impudico è un continuo torrente di peccati, di pensieri, di parole, di sguardi, di compiacenze, di toccamenti, sì che poi gli si rende impossibile, se va a confessarsi, di spiegarne il numero. A costoro, anche mentre dormono, il demonio rappresenta loro gli oggetti osceni, acciocché nello svegliarsi vi diano il consenso; ed essi fatti schiavi del nemico ubbidiscono e vi consentono. La ragione si è perché in questo peccato è facile a contrarre il mal abito; poiché agli altri vizj di bestemmiare, di togliere la fama, di uccidere l'uomo non vi è inclinato, ma a questo vizio v'inclina la natura. E perciò dice s. Tommaso che non si trova peccatore così pronto a disprezzare Dio, quanto un impudico in ogni occasione che gli si presenta: Nullus ad Dei contemptum promptior. Il peccato disonesto poi per lo più conduce seco il seguito di altri peccati d'infamazioni, di furti, di odj, di vantamenti delle stesse laidezze. Di più ordinariamente apporta scandalo: gli altri peccati, le bestemmie, gli omicidj, gli spergiuri, agli altri recano orrore; ma questo peccato muove e tira gli altri che sono di carne a commetterlo, almeno a commetterlo con minore orrore.

 

Scrive s. Cipriano che il demonio totum hominem agit in triumphum libidinis4: trionfa di tutto l'uomo, del corpo e dell'anima, della memoria facendola ricordare di quei piaceri per compiacersene, dell'intelletto per fargli desiderare le occasioni di peccare, della volontà facendole amare quelle disonestà, come suo ultimo fine, e come non vi fosse più Dio. Dicea Giobbe: Pepigi foedus cum oculis meis, ut ne cogitarem quidem de virgine; quam enim partem haberet in me Deus desuper5? Tremava Giobbe di guardare una donzella, dicendo che se mai vi fosse caduto in qualche mal pensiero, Iddio non avrebbe avuto in lui parte. Dall'impudicizia, scrive s. Gregorio, nasce la cecità, la ruina, l'odio di Dio e la disperazione della vita eterna: De luxuria caecitas mentis, praecipitatio, odium Dei, desperatio futuri


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saeculi generantur1. Poiché, dice s. Agostino che nell'impudico, benché esso invecchi, non invecchia però il vizio. E perciò, dice s. Tommaso che il demonio di niun peccato tanto si compiace, quanto del peccato impuro, per ragione che la natura a niun peccato aderisce tanto quanto a questo, in modo che l'appetito se ne rende insaziabile: Diabolus dicitur gaudere maxime de peccato luxuriae, quia est maximae adhaerentiae; et difficile ab eo homo potest eripi: insatiabilis est enim delectabilis appetitus2. Va e di' ora che il peccato disonesto è poco male. Nel tempo di tua morte non parlerai così; allora ogni peccato di questa materia ti sembrerà un mostro d'inferno: e tanto meno parlerai così avanti il tribunale di Gesù Cristo, il quale ti dirà quel che ha scritto l'apostolo: Omnis fornicator aut immundus... non habet haereditatem in regno Christi3. Non è degno di sedere cogli angeli chi ha voluto vivere da bestia.

 

Dilettissimi, preghiamo sempre Dio che ci liberi da questo vizio, perché se no, le anime nostre saran perdute. Il vizio disonesto porta seco l'accecazione e l'ostinazione. Tutti i vizj rendono ottenebrato l'uomo, ma più di tutti il vizio d'impudicizia: Fornicatio et vinum et ebrietas auferunt cor4. Il vino fa perdere la mente e la ragione, lo stesso fa questo vizio. Quindi dice s. Tommaso che il disonesto non vive secondo la ragione: In nullo procedit secundum iudicium rationis. Or se il disonesto perde la luce e non vede più il male che fa, come può abborrirlo ed emendarsi? Dice il profeta Osea che agli impudici accecati nel loro fango neppure viene il pensiero di tornare a Dio, poiché il loro vizio fa che non conoscano più Dio: Non dabunt cogitationes suas, ut revertantur ad Deum suum, quia spiritus fornicationum in medio eorum, et Dominum non cognoverunt5. Onde scrisse poi s. Lorenzo Giustiniani, che questo peccato ci fa scordare di Dio: Delectationes carnis oblivionem Dei inducunt. E s. Gio. Damasceno disse: Carnalis homo veritatis lumen prospicere nequit. Sicché l'impudico non conosce più che viene a dire grazia di Dio, né giudizio né inferno né eternità: Supercecidit ignis, et non viderunt solem6. Taluni di questi accecati giungono a dire che la fornicazione con donne libere non è peccato per se stesso, giacché non era peccato, dicono, nell'antica legge; e citano Osea, a cui disse Dio: Vade, sume tibi uxorem fornicationum, et fac tibi filios fornicationum7. Ma si risponde che con tali parole Iddio non già permise ad Osea la fornicazione, ma volle che avesse presa per moglie quella donna che prima era stata fornicaria, cioè meretrice: ed in tanto disse: Et fac tibi filios fornicationum, in quanto i figli che da colei dovean nascere, eran figli di una meretrice, come spiega s. Geronimo su detto testo: Idcirco fornicationis appellandi sunt filii, quod sint de meretrice generati. Del resto la fornicazione così nella vecchia, come nella nuova legge è stata sempre peccato mortale, come scrive s. Paolo: Omnis fornicator aut immundus... non habet haereditatem in regno Christi8. Ecco dove arriva l'accecazione di questi


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tali; e da qui nasce poi che ancorché si confessino, le loro confessioni son nulle, perché vi manca il vero dolore: ma come possono aver questo vero dolore, se non conoscono ed abborriscono i loro peccati?

 

Inoltre questo vizio porta seco l'ostinazione. Per non esser vinto dalle tentazioni, specialmente di questo genere, è necessaria una continua orazione, come ci avvisa il Signore: Vigilate et orate, ut non intretis in tentationem1. Ma come il disonesto pregherà Dio a liberarlo dalla tentazione, se esso va cercando di esser tentato? E si astiene talvolta di pregare per timore di non essere esaudito e sanato da quel male, il quale vuole che duri, come confessava di se stesso s. Agostino: Timebam ne me cito exaudires, et cito sanares a morbo concupiscentiae, quem malebam expleri, quam extingui2. S. Pietro chiamò questo peccato un delitto incessabile: Oculos habentes plenos adulterii et incessabilis delicti3, incessabile a riguardo dell'ostinazione, alla quale induce l'impudicizia. Dice quel tale: ma io sempre me lo confesso. Questo è il peggio, perché tornando tu sempre a peccare, queste confessioni ti servono per continuare il peccato con dire: Poi me lo confesso. Se tu conoscessi che questo peccato certamente ti porta all'inferno, difficilmente diresti: io non voglio lasciarlo, e non importa che mi fa danni. Ma il demonio così t'inganna; fallo, perché poi te lo confessi. Ma per esser buona la confessione vi bisogna il pentimento di cuore e il proposito fermo; ma dov'è questo pentimento e questo proposito, se ritorni sempre al vomito? Se l'avessi avuto ed avessi ricevuta la grazia nelle tue confessioni, non saresti ricaduto, almeno ti saresti trattenuto molto tempo a non ricadere: tu fra otto o dieci giorni, e forse più presto, sempre sei ricaduto; che segno è? È segno che sei stato sempre in disgrazia di Dio. Se un infermo vomita subito i rimedj che prende, è segno che il male è incurabile.

 

Scrive s. Girolamo che il vizio disonesto, quando si è fatto abituato in alcuno, allora finisce, quando quel misero sarà gittato al fuoco dell'inferno: O ignis infernalis luxuria, cuius materia gula, cuius scintillae parva colloquia, cuius finis gehenna! Questi tali si rendono simili agli avvoltoj che si contentano di farsi uccidere da' cacciatori, prima che lasciare il fracidume di quei cadaveri di cui si pascono. Così appunto avvenne ad una certa giovane, come narra il p. Segneri4, la quale dopo aver tenuta pratica disonesta con un altro giovine, cadde a letto inferma e parea convertita: ma stando poi in fin di vita, domandò al confessore la licenza di farsi chiamare quel giovane, per esortarlo a mutar vita a vista della sua morte; e il confessore poco accorto le diede tal licenza e le insegnò quel che dovea dire al suo drudo quando veniva. Ma sentite che avvenne: quando la misera se lo vide vicino, si scordò della promessa fatta al confessore e della predica che avea da fare al giovane; e che fece? Si alzò e si sedette nel medesimo letto; stese allora verso di lui le braccia, e poi disse: amico, io ti ho sempre amato, ed ora in fine di mia vita ancora t'amo; vedo già che per causa tua me ne vado all'inferno, ma


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per amor tuo non mi curo di dannarmi. E dopo detto ciò, cadde supina sul letto e spirò l'anima. Oh quanto è difficile che il male abituato in questo vizio si emendi e si converta di cuore a Dio, e che non vada poi a finire nell'inferno, come andò a finire questa disgraziata!

 

PUNTO II. L'inganno di coloro i quali dicono che questo peccato Dio lo compatisce.

 

Così parlano i disonesti, ma non dice così s. Tommaso da Villanova: s. Tommaso dice che nelle sacre scritture niun peccato leggiamo così castigato da Dio, quanto il peccato impudico: Luxuriae facinus prae aliis punitum legimus1. Per questo peccato leggiamo nella scrittura, che una volta scese dal cielo un diluvio di fuoco sopra quattro città, che in un momento bruciò non solo gli uomini, ma anche le pietre: Igitur Dominus pluit super Sodomam et Gomorrham sulphur et ignem a Domino de coleo etc.2. Narra poi s. Pier Damiani, che peccando un uomo con una donna furono trovati ambedue bruciati dal fuoco e neri come tizzoni.

 

Inoltre scrive Salviano, che specialmente per punire l'impudicizia venne il diluvio universale sulla terra, piovendo per 40. giorni e 40. notti, sì che le acque si alzarono per quindici cubiti sopra de' monti più alti; onde otto sole persone volle Dio che si salvassero nell'arca insieme con Noè; e tutti gli altri uomini, de' quali allora era più popolata la terra, che non è al presente, tutti restarono morti in pena del vizio disonesto. Ma notate le espressioni di Dio in tal castigo, che diede al mondo per questo peccato: disse: Non permanebit spiritus meus in homine in aeternum, quia caro est3. Commenta il Lirano: Idest nimis implicatus peccatis carnalibus. Giunse di più a dire il Signore: Poenitet enim me fecisse eos4. Lo sdegno di Dio non è già come il nostro, che offusca la mente e ci fa dare in eccessi; egli è un giudizio tutto giusto e tranquillo, riordinando Iddio colla pena il disordine della colpa. Ma acciocché intendessimo quanto odia egli l'impudicizia, perciò parlò come pentito d'aver creato l'uomo, che tanto l'offendeva con questo vizio. Questo peccato anche oggidì si vede castigato temporalmente sulla terra più di ogni altro peccato. Entrate in qualche pubblico spedale, e udite le grida che mandano tanti poveri giovani: chi è trinciato da rasoj, chi è bruciato da bottoni di fuoco, e perché? In pena di questo peccato: e se non ne muoiono, almeno restano spossati di forze e cruciati per tutta la loro vita, secondo quel che sta minacciato nella scrittura: Proiecisti me post corpus tuum, tu quoque porta scelus tuum et fornicationes tuas5.

 

Scrisse s. Remigio, che eccettuati i fanciulli, degli adulti per il vizio carnale pochi sono quelli che si salvano: Exceptis parvulis, ex adultis propter carnis vitium pauci salvantur6. In uniformità di ciò fu rivelato ad un'anima santa7 che siccome la superbia ha riempito l'inferno di demonj, così l'impudicizia riempie l'inferno di uomini. La ragione fu addotta già da s. Isidoro, perché per niun altro peccato gli uomini si rendono schiavi del demonio, quanto per questo dell'impudicizia:


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Magis per luxuriam humanum genus subditur diabolo, quam per aliquod aliud1. Onde dice poi s. Agostino che in questa specie di peccato Communis est pugna et rara victoria. E da ciò nasce che per questo peccato è pieno di anime l'inferno.

 

Tutto ciò che ho detto, uditori miei, non l'ho detto, se mai tra di voi vi fosse alcuno imbrattato di tal vizio, per vederlo disperato, ma sanato. Veniamo dunque ai rimedj. Due sono i grandi rimedj, l'orazione e la fuga delle occasioni. In quanto all'orazione: Oratio pudicitiae praesidium et tutamen est, scrisse s. Gregorio Nisseno2, e prima lo scrisse Salomone, parlando di se stesso: Et ut scivi, quoniam aliter non possem esse continens, nisi Deus det... adii Dominum, et deprecatus sum illum3. Sicché a questo vizio non si può resistere se Dio non ci aiuta; onde il rimedio è, subito che si affaccia una tentazione di questa materia, ricorrere a Dio, nominando e replicando più volte i nomi santissimi di Gesù e di Maria, che han forza speciale nel discacciare questi mali pensieri. Ho detto subito, senza dare udienza e mettersi a discorrere colla tentazione. Bisogna, quando si affaccia alla mente qualche mal pensiero, subito scuoterlo, come si scuotono subito le scintille che volano dal fuoco, e subito chiamar Gesù e Maria in aiuto.

 

In quanto poi alla fuga delle occasioni, dicea s. Filippo Neri che in questa guerra vincono i poltroni, cioè quelli che fuggono le occasioni; e perciò prima di tutto bisogna tenere a freno gli occhi a non guardare donne giovani; altrimenti, dice s. Tomaso, che questo vizio difficilmente può evitarsi: Luxuria vitari vix potest, nisi vitetur aspectus mulieris pulcrae4. Quindi dicea Giobbe: Pepigi foedus cum oculis meis, ut ne cogitarem quidem de virgine5. Egli temea di guardare le vergini, perché facilmente dagli occhi si passa ai desiderj e dai desiderj alle opere. E dicea a questo proposito s. Francesco di Sales che non tanto nuoce il guardare le donne quanto il riguardarle: allora il demonio, se non ha potuto vincere alla prima, vincerà alla seconda. E se bisogna fuggir la vista delle donne, tanto più la conversazione: In medio mulierum noli commorari6. Dobbiamo persuaderci che in questa materia di senso non vi è cautela che basti: onde bisogna sempre temere e fuggire: Sapiens timet... stultus confidit7. L'uomo saggio teme e fugge; l'uomo stolto confida e cade.

 




1 2. Petr. 2. 22.

2 1. Corinth. 6. 9. et 10.

3 S. Thom. 3. p. qu. 1. a. 2. ad. 2.

4 Lib. 5. de Erud. Princ. c. 51.

5 In Oseam. c. 4.

1 Psal. 48. 13.

2 Ezech. 23. 35.

3 In Iob. c. 31.

4 L. de bono pudic.

5 Iob. 31. 1. et 2.

1 S. Greg. Mor. l. 13.

2 1. 2. quaest. 73. art. 5. ad 2.

3 Ephes. 5. 5.

4 Oseae 4. 11.

5 Oseae 5. 4.

6 Psal. 57. 9.

7 Oseae 1. 2.

8 Ephes. 5. 5.

1 Marc. 24. 38.

2 Conf. l. 8. c. 7.

3 2. Petr. 2. 14.

4 Crist. istr. Rag. 24. n. 10.

1 Serm. 4. in Dom. I. quadrag.

2 Gen. 19. 24.

3 Gen. 6. 3.

4 Gen. 6. 7.

5 Ezech. 23. 35.

6 Apud. s. Cypr. de bono pudic.

7 Colloq. disp. 9. exempl. 192.

1 Lib. 2. c. 39.

2 De Orat.

3 Sap. 8. 21.

4 1. 2. q. 167. a. 2.

5 Iob. 31. 1.

6 Eccl. 42. 12.

7 Prov. 14. 16.




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