Azione della Santa Sede
3. Dall'inizio del suo pontificato, il 2
marzo 1939, Papa Pio XII non mancò di lanciare un appello per la pace, che
tutti erano concordi nel considerare seriamente minacciata. Alcuni giorni prima
dello scoppio delle ostilità, il 24 agosto 1939, egli pronunciò delle parole
premonitrici, l'eco delle quali riecheggia ancora: «Un'ora grave suona nuovamente
per la grande famiglia umana (...). Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo.
Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra» («Nuntius
radiophonicus», die 24 aug. 1939: «AAS 31 [1939] 333-334).
Purtroppo l'avvertimento di quel grande Pontefice non fu
affatto ascoltato e il disastro arrivò. Non avendo potuto contribuire ad
evitare la guerra, la Santa Sede si sforzò - nei limiti dei suoi mezzi - di
circoscriverne l'estensione. Il Papa ed i suoi collaboratori vi lavorarono
incessantemente, sia a livello diplomatico che nell'ambito umanitario, senza
lasciarsi trascinare a schierarsi da una parte o dall'altra, in un conflitto
che opponeva popoli di ideologie e religioni differenti. In questo lavoro la
loro preoccupazione fu anche quella di non aggravare la situazione e di non
compromettere la sicurezza delle popolazioni sottomesse a prove non comuni.
Ascoltiamo ancora Papa Pio XII, quando a proposito di ciò che accadeva in
Polonia, dichiarò: «Noi dovremmo dire parole di fuoco contro simili cose, e la
sola ragione che ce ne dissuade è di sapere che, se parlassimo, renderemmo
ancora più dura la condizione di quegli sfortunati» («Actes et Documenta du
Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale», 1970, vol. I, p. 455).
Alcuni mesi dopo la conferenza di Yalta (4-11 febbraio 1945)
e all'indomani della fine della guerra in Europa, lo stesso Papa,
indirizzandosi - il 2 giugno 1945 - al sacro Collegio, non mancò di rivolgere
la propria attenzione al futuro del mondo e di perorare la vittoria del
diritto: «Le Nazioni, segnatamente quelle medie e piccole, reclamano che sia
loro dato di prendere in mano i propri destini. Esse possono essere condotte a
contrarre, con il loro pieno gradimento, nell'interesse del progresso comune,
vincoli che modifichino i loro diritti sovrani. Ma dopo aver sostenuto la loro
parte, la loro larga parte, di sacrifici per distruggere il sistema della
violenza brutale, esse sono nel diritto di non accettare che venga loro imposto
un nuovo sistema politico o culturale che la grande maggioranza delle loro
popolazioni recisamente respinge (...). Nel fondo della loro coscienza i popoli
sentono che i loro reggitori si screditerebbero se, al folle delirio di
un'egemonia della forza, non facessero seguire la vittoria del diritto» (AAS 37
[1945] 166).
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