IV – Gesù Cristo: la sofferenza vinta dall’amore
14. «Dio infatti ha tanto amato il mondo
che ha dato il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma
abbia la vita eterna»27.
Queste parole, pronunciate da Cristo nel colloquio con
Nicodemo, ci introducono nel centro stesso dell'azione salvifica di Dio. Esse
esprimono anche l'essenza stessa della soteriologia cristiana, cioè della
teologia della salvezza. Salvezza significa liberazione dal male, e per ciò
stesso rimane in stretto rapporto col problema della sofferenza. Secondo le
parole rivolte a Nicodemo, Dio dà il suo Figlio al «mondo» per liberare l'uomo
dal male, che porta in sé la definitiva ed assoluta prospettiva della
sofferenza. Contemporaneamente, la stessa parola «dà»(«ha dato») indica
che questa liberazione deve essere compiuta dal Figlio unigenito mediante la
sua propria sofferenza. E in ciò si manifesta l'amore, l'amore infinito sia di
quel Figlio unigenito, sia del Padre, il quale «dà» per questo il suo Figlio.
Questo è l'amore per l'uomo, l'amore per il «mondo»: è l'amore salvifico.
Ci troviamo qui — occorre rendersene conto chiaramente nella
nostra comune riflessione su questo problema — in una dimensione completamente
nuova del nostro tema. È dimensione diversa da quella che determinava e, in un
certo senso, chiudeva la ricerca del significato della sofferenza entro i
limiti della giustizia. Questa è la dimensione della Redenzione , alla
quale nell'Antico Testamento già sembrano preludere, almeno secondo il testo
della Volgata, le parole del giusto Giobbe: «Io so infatti che il mio Redentore
vive, e che nell'ultimo giorno... vedrò il mio Dio...»28. Mentre finora
la nostra considerazione si è concentrata prima di tutto e, in un certo senso,
esclusivamente sulla sofferenza nella sua molteplice forma temporale (come
anche le sofferenze del giusto Giobbe), invece le parole, ora riportate dal
colloquio di Gesù con Nicodemo, riguardano la sofferenza nel suo senso
fondamentale e definitivo. Dio dà il suo Figlio unigenito, affinché l'uomo
«non muoia», e il significato di questo «non muoia» viene precisato
accuratamente dalle parole successive: «ma abbia la vita eterna».
L'uomo «muore», quando perde «la vita eterna». Il contrario
della salvezza non è, quindi, la sola sofferenza temporale, una qualsiasi
sofferenza, ma la sofferenza definitiva: la perdita della vita eterna, l'essere
respinti da Dio, la dannazione. Il Figlio unigenito è stato dato all'umanità
per proteggere l'uomo, prima di tutto, contro questo male definitivo e contro la
sofferenza definitiva. Nella sua missione salvifica egli deve, dunque,
toccare il male alle sue stesse radici trascendentali, dalle quali esso si
sviluppa nella storia dell'uomo. Tali radici trascendentali del male sono
fissate nel peccato e nella morte: esse, infatti, si trovano alla base della
perdita della vita eterna. La missione del Figlio unigenito consiste nel vincere
il peccato e la morte. Egli vince il peccato con la sua obbedienza fino
alla morte, e vince la morte con la sua risurrezione.
15. Quando si dice che Cristo con la sua
missione tocca il male alle sue stesse radici, noi abbiamo in mente non solo il
male e la sofferenza definitiva, escatologica (perché l'uomo «non muoia, ma
abbia la vita eterna»), ma anche — almeno indirettamente — il male e la
sofferenza nella loro dimensione temporale e storica. Il
male, infatti, rimane legato al peccato e alla morte. E anche se con grande
cautela si deve giudicare la sofferenza dell'uomo come conseguenza di peccati
concreti (ciò indica proprio l'esempio del giusto Giobbe), tuttavia essa non
può essere distaccata dal peccato delle origini, da ciò che in san Giovanni è
chiamato «il peccato del mondo»29, dallo sfondo peccaminoso delle
azioni personali e dei processi sociali nella storia dell'uomo. Se non è lecito
applicare qui il criterio ristretto della diretta dipendenza (come facevano i
tre amici di Giobbe), tuttavia non si può neanche rinunciare al criterio che,
alla base delle umane sofferenze, vi è un multiforme coinvolgimento nel
peccato.
Similmente avviene quando si tratta della morte. Molte
volte essa è attesa persino come una liberazione dalle sofferenze di questa
vita. Al tempo stesso, non è possibile lasciarsi sfuggire che essa costituisce
quasi una definitiva sintesi della loro opera distruttiva sia nell'organismo
corporeo che nella psiche. Ma, prima di tutto la morte comporta la dissociazione
dell'intera personalità psicofisica dell'uomo. L'anima sopravvive e
sussiste separata dal corpo, mentre il corpo viene sottoposto ad una graduale
decomposizione secondo le parole del Signore Dio, pronunciate dopo il peccato
commesso dall'uomo agli inizi della sua storia terrena: «Tu sei polvere e in
polvere ritornerai»30. Anche se dunque la morte non è una sofferenza
nel senso temporale della parola, anche se in un certo modo si trova al
di là di tutte le sofferenze, contemporaneamente il male, che l'essere
umano sperimenta in essa, ha un caratere definitivo e totalizzante. Con la sua
opera salvifica il Figlio unigenito libera l'uomo dal peccato e dalla morte.
Prima di tutto egli cancella dalla storia dell'uomo il dominio del
peccato, che si è radicato sotto l'influsso dello Spirito maligno,
iniziando dal peccato originale, e dà poi all'uomo la possibilità di vivere
nella Grazia santificante. Sulla scia della vittoria sul peccato egli toglie
anche il dominio della morte, dando, con la sua risurrezione, l'avvio
alla futura risurrezione dei corpi. L'una e l'altra sono condizione essenziale
della «vita eterna», cioè della definitiva felicità dell'uomo in unione con
Dio; ciò vuol dire, per i salvati, che nella prospettiva escatologica la sofferenza
è totalmente cancellata.
In conseguenza dell'opera salvifica di Cristo l'uomo esiste
sulla terra con la speranza della vita e della santità eterne. E anche
se la vittoria sul peccato e sulla morte, riportata da Cristo con la sua croce
e risurrezione, non abolisce le sofferenze temporali dalla vita umana, né
libera dalla sofferenza l'intera dimensione storica dell'esistenza umana,
tuttavia su tutta questa dimensione e su ogni sofferenza essa getta una luce
nuova, che è la luce della salvezza. È questa la luce del Vangelo, cioè
della Buona Novella. Al centro di questa luce si trova la verità enunciata nel
colloquio con Nicodemo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo
Figlio unigenito»31. Questa verità cambia dalle sue fondamenta il quadro
della storia dell'uomo e della sua situazione terrena: nonostante il peccato
che si è radicato in questa storia e come eredità originale e come «peccato del
mondo» e come somma dei peccati personali, Dio Padre ha amato il Figlio
unigenito, cioè lo ama in modo durevole; nel tempo poi, proprio per quest'amore
che supera tutto, egli «dà» questo Figlio, affinché tocchi le radici stesse del
male umano e così si avvicini in modo salvifico all'intero mondo della
sofferenza, di cui l'uomo è partecipe.
16. Nella sua attività messianica in mezzo
a Israele Cristo si è avvicinato incessantemente al mondo dell'umana
sofferenza. «Passò facendo del bene»32, e questo suo operare
riguardava, prima di tutto, i sofferenti e coloro che attendevano aiuto. Egli
guariva gli ammalati, consolava gli afflitti, nutriva gli affamati, liberava
gli uomini dalla sordità, dalla cecità, dalla lebbra, dal demonio e da diverse
minorazioni fisiche, tre volte restituì ai morti la vita. Era sensibile a ogni
umana sofferenza, sia a quella del corpo che a quella dell'anima. E al tempo
stesso ammaestrava, ponendo al centro del suo insegnamento le otto
beatitudini, che sono indirizzate agli uomini provati da svariate
sofferenze nella vita temporale. Essi sono «i poveri in spirito» e «gli
afflitti», e «quelli che hanno fame e sete della giustizia» e «i perseguitati
per causa della giustizia», quando li insultano, li perseguitano e mentendo,
dicono ogni sorta di male contro di loro per causa di Cristo33... Così
secondo Matteo; Luca menziona esplicitamente coloro «che ora hanno
fame»34.
Ad ogni modo Cristo si è avvicinato soprattutto al mondo
dell'umana sofferenza per il fatto di aver assunto egli stesso questa
sofferenza su di sé. Durante la sua attività pubblica provò non solo la
fatica, la mancanza di una casa, l'incomprensione persino da parte dei più
vicini, ma, più di ogni cosa, venne sempre più ermeticamente circondato da un
cerchio di ostilità e divennero sempre più chiari i preparativi per toglierlo
di mezzo dai viventi. Cristo è consapevole di ciò, e molte volte parla ai suoi
discepoli delle sofferenze e della morte che lo attendono: «Ecco, noi saliamo a
Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e
agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo
scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma
dopo tre giorni risusciterà»35. Cristo va incontro alla sua passione e
morte con tutta la consapevolezza della missione che ha da compiere proprio in
questo modo. Proprio per mezzo di questa sua sofferenza egli deve far sì
«che l'uomo non muoia, ma abbia la vita eterna». Proprio per mezzo della sua
Croce deve toccare le radici del male, piantate nella storia dell'uomo e nelle
anime umane. Proprio per mezzo della sua Croce deve compiere l'opera della
salvezza. Quest'opera, nel disegno dell'eterno Amore, ha un carattere
redentivo.
E perciò Cristo rimprovera severamente Pietro, quando vuole
fargli abbandonare i pensieri sulla sofferenza e sulla morte di
Croce36. E quando, durante la cattura nel Getsemani, lo stesso Pietro
tenta di difenderlo con la spada, Cristo gli dice: «Rimetti la spada nel
fodero... Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali
così deve avvenire?»37. Ed inoltre dice: «Non devo forse bere il calice
che il Padre mi ha dato?»38. Questa risposta — come altre che
ritornano in diversi punti del Vangelo — mostra quanto profondamente Cristo
fosse penetrato dal pensiero che già aveva espresso nel colloquio con Nicodemo:
«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché
chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna»39. Cristo
s'incammina verso la propria sofferenza, consapevole della sua forza salvifica,
va obbediente al Padre, ma prima di tutto è unito al Padre in quest'amore, col
quale Egli ha amato il mondo e l'uomo nel mondo. E per questo San Paolo
scriverà di Cristo: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me»40.
17. Le Scritture dovevano adempiersi.
Erano molti i testi messianici dell'Antico Testamento che preludevano alle
sofferenze del futuro Unto di Dio. Tra tutti particolarmente toccante è quello
che di solito è chiamato il quarto Carme del Servo di Jahvé, contenuto
nel Libro di Isaia. Il profeta, che giustamente viene chiamato «il quinto
evangelista», presenta in questo Carme l'immagine delle sofferenze del Servo
con un realismo così acuto quasi le vedesse con i propri occhi: con gli occhi
del corpo e dello spirito. La passione di Cristo diventa, alla luce dei
versetti di Isaia, quasi ancora più espressiva e toccante che non nelle
descrizioni degli stessi evangelisti. Ecco, si presenta davanti a noi il vero
Uomo dei dolori:
«Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi...
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure, egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori,
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l'iniquità di noi tutti»41.
Il Carme del Servo sofferente contiene una descrizione nella
quale si possono, in un certo senso, identificare i momenti della passione di
Cristo in vari loro particolari: l'arresto, l'umiliazione, gli schiaffi, gli
sputi, il vilipendio della dignità stessa del prigioniero, l'ingiusto giudizio,
e poi la flagellazione, la coronazione di spine e lo scherno, il cammino con la
croce, la crocifissione, l'agonia.
Più ancora di questa descrizione della passione ci colpisce
nelle parole del profeta la profondità del sacrificio di Cristo. Ecco,
egli, benché innocente, si addossa le sofferenze di tutti gli uomini, perché si
addossa i peccati di tutti. «Il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di
tutti»: tutto il peccato dell'uomo nella sua estensione e profondità diventa la
vera causa della sofferenza del Redentore. Se la sofferenza «viene misurata»
col male sofferto, allora le parole del profeta ci permettono di comprendere la
misura di questo male e di questa sofferenza, di cui Cristo si è caricato.
Si può dire che questa è sofferenza «sostitutiva»; soprattutto, però, essa è
«redentiva». L'Uomo dei dolori di quella profezia è veramente quell'«agnello di
Dio, che toglie il peccato del mondo»42. Nella sua sofferenza i peccati
vengono cancellati proprio perché egli solo come Figlio unigenito poté
prenderli su di sé, assumerli con quell'amore verso il Padre che supera il
male di ogni peccato; in un certo senso annienta questo male nello spazio
spirituale dei rapporti tra Dio e l'umanità, e riempie questo spazio col bene.
Tocchiamo qui la dualità di natura di un unico soggetto
personale della sofferenza redentiva. Colui, che con la sua passione e morte
sulla Croce opera la Redenzione, è il Figlio unigenito che Dio «ha dato». E
nello stesso tempo questo Figlio consostanziale al Padre soffre come uomo. La
sua sofferenza ha dimensioni umane, ha anche — uniche nella storia dell'umanità
— una profondità ed intensità che, pur essendo umane, possono essere anche
incomparabili profondità ed intensità di sofferenza, in quanto l'Uomo che
soffre è in persona lo stesso Figlio unigenito: «Dio da Dio». Dunque, soltanto
Lui — il Figlio unigenito — è capace di abbracciare la misura del male
contenuta nel peccato dell'uomo: in ogni peccato e nel peccato «totale»,
secondo le dimensioni dell'esistenza storica dell'umanità sulla terra.
18. Si può dire che le suddette
considerazioni ci conducono ormai direttamente al Getsemani e sul Golgota, dove
si è adempiuto il Carme del Servo sofferente, contenuto nel Libro d'Isaia.
Ancora prima di andarvi, leggiamo i successivi versetti del Carme, che dànno
un'anticipazione profetica della passione del Getsemani e del Golgota. Il Servo
sofferente — e questo a sua volta è essenziale per un'analisi della passione di
Cristo — si addossa quelle sofferenze, di cui si è detto, in modo del
tutto volontario:
«Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza
fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua sorte?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede la sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza,
né vi fosse inganno nella sua bocca»43.
Cristo soffre volontariamente e soffre innocentemente. Accoglie
con la sua sofferenza quell'interrogativo, che — posto molte volte dagli uomini
— è stato espresso, in un certo senso, in modo radicale dal Libro di Giobbe.
Cristo, tuttavia, non solo porta con sé la stessa domanda (e ciò in modo ancor
più radicale, poiché egli non è solo un uomo come Giobbe, ma è l'unigenito
Figlio di Dio), ma porta anche il massimo della possibile risposta a questo
interrogativo. La risposta emerge, si può dire, dalla stessa materia, di cui
è costituita la domanda. Cristo dà la risposta all'interrogativo sulla
sofferenza e sul senso della sofferenza non soltanto col suo insegnamento, cioè
con la Buona Novella, ma prima di tutto con la propria sofferenza, che con un
tale insegnamento della Buona Novella è integrata in modo organico ed
indissolubile. E questa è l'ultima, sintetica parola di questo insegnamento:
«la parola della Croce», come dirà un giorno San Paolo44.
Questa «parola della Croce» riempie di una realtà definitiva
l'immagine dell'antica profezia. Molti luoghi, molti discorsi durante
l'insegnamento pubblico di Cristo testimoniano come egli accetti sin
dall'inizio questa sofferenza, che è la volontà del Padre per la salvezza del
mondo. Tuttavia, un punto definitivo diventa qui la preghiera nel Getsemani.
Le parole: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non
come voglio io, ma come vuoi tu!»45, e in seguito: «Padre mio, se
questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà»46,
hanno una multiforme eloquenza. Esse provano la verità di quell'amore, che il
Figlio unigenito dà al Padre nella sua obbedienza. Al tempo stesso, attestano
la verità della sua sofferenza. Le parole della preghiera di Cristo al Getsemani
provano la verità dell'amore mediante la verità della sofferenza. Le
parole di Cristo confermano con tutta semplicità questa umana verità della
sofferenza, fino in fondo: la sofferenza è un subire il male, davanti al quale
l'uomo rabbrividisce. Egli dice: «passi da me», proprio così, come dice Cristo
nel Getsemani.
Le sue parole attestano insieme quest'unica ed incomparabile
profondità ed intensità della sofferenza, che poté sperimentare solamente
l'Uomo che è il Figlio unigenito. Esse attestano quella profondità ed
intensità, che le parole profetiche sopra riportate aiutano, a loro modo, a
capire: non certo fino in fondo (per questo si dovrebbe penetrare il mistero
divino-umano del Soggetto), ma almeno a percepire quella differenza (e
somiglianza insieme) che si verifica tra ogni possibile sofferenza dell'uomo e
quella del Dio-Uomo. Il Getsemani è il luogo, nel quale appunto questa
sofferenza, in tutta la verità espressa dal profeta circa il male in essa
provato, si è rivelata quasi definitivamente davanti agli occhi dell'anima
di Cristo.
Dopo le parole nel Getsemani vengono le parole pronunciate
sul Golgota, che testimoniano questa profondità — unica nella storia del mondo
— del male della sofferenza che si prova. Quando Cristo dice: «Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?», le sue parole non sono solo espressione di
quell'abbandono che più volte si faceva sentire nell'Antico Testamento,
specialmente nei Salmi e, in particolare, in quel Salmo 22 [21], dal quale
provengono le parole citate47. Si può dire che queste parole
sull'abbandono nascono sul piano dell'inseparabile unione del Figlio col Padre,
e nascono perché il Padre «fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti»
48 è sulla traccia di ciò che dirà San Paolo: «Colui che non aveva
conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore»49.
Insieme con questo orribile peso, misurando «l'intero» male di voltare le
spalle a Dio, contenuto nel peccato, Cristo, mediante la divina profondità
dell'unione filiale col Padre, percepisce in modo umanamente inesprimibile questa
sofferenza che è il distacco, la ripulsa del Padre, la rottura con
Dio. Ma proprio mediante tale sofferenza egli compie la Redenzione, e può dire
spirando: «Tutto è compiuto»50.
Si può anche dire che si è adempiuta la Scrittura, che sono
state definitivamente attuate nella realtà le parole di detto Carme del Servo
sofferente: «Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori»51. L'umana
sofferenza ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo. E
contemporaneamente essa è entrata in una dimensione completamente nuova e in un
nuovo ordine: è stata legata all'amore, a quell'amore del quale Cristo
parlava a Nicodemo, a quell'amore che crea il bene ricavandolo anche dal male,
ricavandolo per mezzo della sofferenza, così come il bene supremo della
redenzione del mondo è stato tratto dalla Croce di Cristo, e costantemente
prende da essa il suo avvio. La Croce di Cristo è diventata una sorgente, dalla
quale sgorgano fiumi d'acqua viva52. In essa dobbiamo anche riproporre
l'interrogativo sul senso della sofferenza, e leggervi sino alla fine la
risposta a questo interrogativo.
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