VII – Il buon samaritano
28. Al Vangelo della sofferenza appartiene
anche — ed in modo organico — la parabola del buon Samaritano. Mediante questa
parabola Cristo volle dare risposta alla domanda: «chi è il mio
prossimo?»90. Infatti, fra i tre passanti lungo la via da Gerusalemme a
Gerico, dove giaceva per terra mezzo morto un uomo rapinato e ferito dai
briganti, proprio il Samaritano dimostrò di essere davvero il «prossimo»
per quell'infelice: «prossimo» significa anche colui che adempì il
comandamento dell'amore del prossimo. Altri due uomini percorrevano la stessa
strada: uno era sacerdote, e l'altro levita, ma ciascuno «lo vide e passò
oltre». Invece, il Samaritano «lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece
vicino, ... gli fasciò le ferite», poi «lo portò a una locanda e si prese cura
di lui»91. Ed all'atto di partire, affidò sollecitamente la cura
dell'uomo sofferente all'albergatore, impegnandosi a sostenere le spese
occorrenti.
La parabola del buon Samaritano appartiene al Vangelo della
sofferenza. Essa indica, infatti, quale debba essere il rapporto di ciascuno di
noi verso il prossimo sofferente. Non ci è lecito «passare oltre» con
indifferenza, ma dobbiamo «fermarci» accanto a lui. Buon Samaritano è ogni
uomo, che si ferma accanto alla sofferenza di un altro uomo, qualunque essa
sia. Quel fermarsi non significa curiosità, ma disponibilità. Questa è come
l'aprirsi di una certa interiore disposizione del cuore, che ha anche la sua
espressione emotiva. Buon Samaritano è ogni uomo sensibile alla sofferenza
altrui, l'uomo che «si commuove» per la disgrazia del prossimo. Se Cristo,
conoscitore dell'interno dell'uomo, sottolinea questa commozione, vuol dire che
essa è importante per tutto il nostro atteggiamento di fronte alla sofferenza
altrui. Bisogna, dunque, coltivare in sé questa sensibilità del cuore, che
testimonia la compassione verso un sofferente. A volte questa
compassione rimane l'unica o principale espressione del nostro amore e della
nostra solidarietà con l'uomo sofferente.
Tuttavia, il buon Samaritano della parabola di Cristo non si
ferma alla sola commozione e compassione. Queste diventano per lui uno stimolo
alle azioni che mirano a portare aiuto all'uomo ferito. Buon Samaritano è,
dunque, in definitiva colui che porta aiuto nella sofferenza, di
qualunque natura essa sia. Aiuto, in quanto possibile, efficace. In esso egli
mette il suo cuore, ma non risparmia neanche i mezzi materiali. Si può dire che
dà se stesso, il suo proprio «io», aprendo quest'«io» all'altro. Tocchiamo qui
uno dei punti-chiave di tutta l'antropologia cristiana. L'uomo non può
«ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé»92. Buon
Samaritano è l'uomo capace appunto di tale dono di sé.
29. Seguendo la parabola evangelica, si
potrebbe dire che la sofferenza, presente sotto tante forme diverse nel nostro
mondo umano, vi sia presente anche per sprigionare nell'uomo l'amore, proprio
quel dono disinteressato del proprio «io» in favore degli altri uomini, degli
uomini sofferenti. I1 mondo dell'umana sofferenza invoca, per così dire, senza
sosta un altro mondo: quello dell'amore umano; e quell'amore disinteressato,
che si desta nel suo cuore e nelle sue opere, l'uomo lo deve in un certo senso
alla sofferenza. Non può l'uomo «prossimo» passare con indifferenza davanti
alla sofferenza altrui in nome della fondamentale solidarietà umana, né tanto
meno in nome dell'amore del prossimo. Egli deve «fermarsi», «commuoversi»,
agendo così come il Samaritano della parabola evangelica. La parabola in sé
esprime una verità profondamente cristiana, ma insieme quanto mai
universalmente umana. Non senza ragione anche nel linguaggio comune viene
chiamata opera «da buon samaritano» ogni attività in favore degli uomini
sofferenti e bisognosi di aiuto.
Quest'attività assume, nel corso dei secoli, forme
istituzionali organizzate e costituisce un campo di lavoro nelle rispettive
professioni. Quanto è «da buon samaritano» la professione del medico, o
dell'infermiera, o altre simili! In ragione del contenuto «evangelico»,
racchiuso in essa, siamo inclini a pensare qui piuttosto ad una vocazione, che
non semplicemente ad una professione. E le istituzioni che, nell'arco delle
generazioni, hanno compiuto un servizio «da samaritano», ai nostri tempi si
sono ancora maggiormente sviluppate e specializzate. Ciò prova indubbiamente
che l'uomo di oggi si ferma con sempre maggiore attenzione e perspicacia
accanto alle sofferenze del prossimo, cerca di comprenderle e di prevenirle
sempre più esattamente. Egli possiede anche una sempre maggiore capacità e
specializzazione in questo settore. Guardando a tutto questo, possiamo dire che
la parabola del Samaritano del Vangelo è diventata una delle componenti
essenziali della cultura morale e della civiltà universalmente umana. E pensando
a tutti quegli uomini, che con la loro scienza e la loro capacità rendono
molteplici servizi al prossimo sofferente, non possiamo esimerci dal rivolgere
al loro indirizzo parole di riconoscimento e di gratitudine.
Queste si estendono a tutti coloro, che svolgono il proprio
servizio verso il prossimo sofferente in maniera disinteressata, impegnandosi
volontariamente nell'aiuto «da buon samaritano», e destinando a tale causa
tutto il tempo e le forze che rimangono a loro disposizione al di fuori del
lavoro professionale. Una tale spontanea attività «da buon samaritano» o
caritativa può essere chiamata attività sociale, può anche essere definita come
apostolato, tutte le volte che viene intrapresa per motivi schiettamente
evangelici, specialmente se ciò avviene in collegamento con la Chiesà o con
un'altra Comunità cristiana. La volontaria attività «da buon samaritano» si
realizza attraverso ambienti adeguati oppure attraverso organizzazioni
create a questo scopo. L'operare in questa forma ha una grande importanza,
specialmente se si tratta di assumere compiti più grandi, che esigono la
cooperazione e l'uso dei mezzi tecnici. Non meno preziosa è anche l'attività
individuale, specialmente da parte delle persone, che sono ad essa meglio
predisposte riguardo alle varie specie di umana sofferenza, verso le quali
l'aiuto non può essere portato che individualmente e personalmente. L'aiuto familiare
poi significa sia gli atti d'amore del prossimo, resi alle persone
appartenenti alla stessa famiglia, sia l'aiuto reciproco tra le famiglie.
È difficile elencare qui tutti i tipi ed i diversi àmbiti
dell'attività «da samaritano» che esistono nella Chiesa e nella società.
Bisogna riconoscere che essi sono molto numerosi, ed anche esprimere la gioia
perché grazie ad essi i fondamentali valori morali, quali il valore
dell'umana solidarietà, il valore dell'amore cristiano del prossimo, formano il
quadro della vita sociale e dei rapporti interumani, combattendo su questo
fronte le diverse forme dell'odio, della violenza, della crudeltà, del
disprezzo per l'uomo, oppure della semplice «insensibilità», cioè
dell'indifferenza verso il prossimo e le sue sofferenze.
Enorme è qui il significato degli atteggiamenti opportuni
da usare nell'educazione. La famiglia, la scuola, le altre istituzioni
educative, anche solo per motivi umanitari, devono lavorare con perseveranza
per il risveglio e l'affinamento di quella sensibilità verso il prossimo e la
sua sofferenza, di cui è diventata simbolo la figura del Samaritano evangelico.
La Chiesa ovviamente deve far lo stesso, addentrandosi ancora più profondamente
— in quanto possibile — nelle motivazioni che Cristo ha racchiuso nella sua
parabola ed in tutto il Vangelo. L'eloquenza della parabola del buon
Samaritano, come anche di tutto il Vangelo, è in particolare questa: l'uomo
deve sentirsi come chiamato in prima persona a testimoniare l'amore
nella sofferenza. Le istituzioni sono molto importanti ed indispensabili;
tuttavia, nessuna istituzione può da sola sostituire il cuore umano, la
compassione umana, l'amore umano, l'iniziativa umana, quando si tratti di farsi
incontro alla sofferenza dell'altro. Questo si riferisce alle sofferenze
fisiche, ma vale ancora di più se si tratta delle molteplici sofferenze morali,
e quando, prima di tutto, a soffrire è l'anima.
30. La parabola del buon Samaritano, che —
come si è detto — appartiene al Vangelo della sofferenza, cammina insieme con
esso lungo la storia della Chiesa e del cristianesimo, lungo la storia
dell'uomo e dell'umanità. Essa testimonia che la rivelazione da parte di Cristo
del senso salvifico della sofferenza non si identifica in alcun modo con un
atteggiamento di passività. È tutto il contrario. Il Vangelo è la negazione
della passività di fronte alla sofferenza. Cristo stesso in questo campo è
soprattutto attivo. In questo modo, egli realizza il programma messianico della
sua missione, secondo le parole del profeta: «Lo Spirito del Signore è sopra di
me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare ai
poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai
ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di
grazia del Signore»93. Cristo compie in modo sovrabbondante questo programma
messianico della sua missione: egli passa «beneficando 94, ed il
bene delle sue opere ha assunto rilievo soprattutto di fronte all'umana
sofferenza. La parabola del buon Samaritano è in profonda armonia col
comportamento di Cristo stesso.
Questa parabola entrerà, infine, per il suo contenuto
essenziale, in quelle sconvolgenti parole sul giudizio finale, che Matteo ha
annotato nel suo Vangelo: «Venite, benedetti del Padre mio; ricevete in eredità
il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto
fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero
forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete
visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi»95. Ai giusti che
chiedono quando mai abbiano fatta proprio a lui tutto questo, il Figlio
dell'Uomo risponderà: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste
cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me»
96. La sentenza opposta toccherà a coloro che si sono comportati
diversamente: «Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei
fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me»97.
Si potrebbe certamente allungare l'elenco delle sofferenze
che hanno incontrato la sensibilità umana, la compassione, l'aiuto, oppure che
non le hanno incontrate. La prima e la seconda parte della dichiarazione di
Cristo sul giudizio finale indicano senza ambiguità come siano essenziali,
nella prospettiva della vita eterna di ogni uomo, il «fermarsi», come fece il
buon Samaritano, accanto alla sofferenza del suo prossimo, l'aver «compassione»
di essa, ed infine il dare aiuto. Nel programma messianico di Cristo, che è
insieme il programma del Regno di Dio, la sofferenza è presente nel
mondo per sprigionare amore, per far nascere opere di amore verso il prossimo,
per trasformare tutta la civiltà umana nella «civiltà dell'amore». In questo
amore il significato salvifico della sofferenza si realizza fino in fondo e
raggiunge la sua dimensione definitiva. Le parole di Cristo sul giudizio finale
permettono di comprendere ciò in tutta la semplicità e perspicacia del Vangelo.
Queste parole sull'amore, sugli atti di amore, collegati con
l'umana sofferenza, ci permettono ancora una volta di scoprire, alla base di
tutte le sofferenze umane, la stessa sofferenza redentrice di Cristo. Cristo
dice: «L'avete fatto a me». Egli stesso è colui che in ognuno sperimenta
l'amore; egli stesso è colui che riceve aiuto, quando questo viene reso ad ogni
sofferente senza eccezione. Egli stesso è presente in questo sofferente, poiché
la sua sofferenza salvifica è stata aperta una volta per sempre ad ogni
sofferenza umana. E tutti coloro che soffrono sono stati chiamati una volta per
sempre a diventare partecipi «delle sofferenze di Cristo»98. Così come
tutti sono stati chiamati a «completare» con la propria sofferenza «quello che manca
ai patimenti di Cristo»99. Cristo allo stesso tempo ha insegnato
all'uomo a far del bene con la sofferenza ed a far del bene a chi
soffre. In questo duplice aspetto egli ha svelato fino in fondo il senso
della sofferenza.
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