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Ioannes Paulus PP. II Augustinum hipponensem IntraText CT - Lettura del testo |
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III. – Il Pastore
Non sarà inopportuno dedicare un ricordo all'azione pastorale di questo vescovo che nessuno ricuserà di annoverare tra i più grandi pastori della Chiesa. Anche quest'azione ebbe origine dalla conversione, perché da essa nacque il proposito di servire solo Dio. «Ormai te solo amo... a te solo voglio servire...». Quando poi si accorse che questo servizio doveva estendersi all'azione pastorale, non esita ad accettarla; con umiltà e con trepidazione e con rammarico, ma, per obbedire a Dio e alla Chiesa, l'accettò.
I campi di tale azione furono tre, che si andavano allargando come tre cerchi concentrici: la Chiesa locale d'Ippona, non grande ma inquieta e bisognosa; la Chiesa africana, miseramente divisa tra cattolici e donatisti; la Chiesa universale combattuta dal paganesimo e dal manicheismo e attraversata da movimenti ereticali. Egli si sentì in tutto servo della Chiesa - «servo dei servi di Cristo» - traendo da questo presupposto tutte le conseguenze, anche le più ardue come quella di esporre la propria vita per i fedeli. Chiedeva infatti al Signore la forza di amarli in modo da essere pronto a morire per loro «o in realtà o nella disposizione». Era convinto che chi, messo a capo del popolo, non avesse questa disposizione, più che vescovo, era simile a «un fantoccio di paglia che sta nella vigna». Non vuol essere salvo senza i suoi fedeli ed è pronto ad ogni sacrificio pur di richiamare gli erranti sulla via della verità. In un momento di estremo pericolo a causa dell'invasione dei vandali, insegna ai sacerdoti a restare in mezzo ai fedeli anche col rischio della propria vita. In altre parole egli vuole che vescovi e sacerdoti servano i fedeli come Cristo li ha serviti. «In che senso chi presiede è servo? Nel senso stesso in cui fu servo il Signore». Fu il suo programma.
Nella sua diocesi, da cui non si allontanò mai se non per necessità, fu assiduo alla predicazione - predicava al sabato e alla domenica e spesso per l'intera settimana -, nella catechesi, nella «audientia episcopi» talvolta per tutto il giorno trascurando perfino il mangiare, nella cura dei poveri, nella formazione del clero, nella guida dei monaci, molti dei quali furono chiamati al sacerdozio e all'episcopato, e dei monasteri delle «sanctimoniales». Morendo «lasciò alla Chiesa un clero molto numeroso, come pure monasteri d'uomini e di donne pieni di persone votate alla continenza sotto l'obbedienza dei loro superiori, insieme con le biblioteche...». Per la Chiesa africana lavorò parimenti senza posa: si prestò per la predicazione dovunque fosse chiamato, fu presente ai frequenti concili regionali nonostante le difficoltà del viaggio, s'impegnò con intelligenza, assiduità e passione per comporre lo scisma donatista che divideva in due quella Chiesa. Fu questa la sua grande fatica e, per il successo ottenuto, il suo grande merito. Illustrò con innumerevoli opere la storia e la dottrina del donatismo, propose quella cattolica sulla natura dei sacramenti e della Chiesa, promosse una conferenza ecumenica tra vescovi cattolici e donatisti, l'animò con la sua presenza, propose e ottenne di rimuovere tutti gli ostacoli alla riunificazione, anche quello dell'eventuale rinuncia dei vescovi donatisti all'episcopato, divulgò le conclusioni di quella conferenza, avviò a pieno successo il processo di pacificazione. Perseguitato a morte, una volta sfuggì dalle mani dei «circoncellioni» donatisti perché la guida sbagliò la strada.
Per la Chiesa universale compose tante opere, scrisse tante lettere, sostenne tante controversie. I manichei, i pelagiani, gli ariani, i pagani furono l'oggetto delle cure pastorali in difesa della fede cattolica. Lavorò indefessamente di giorno e di notte. Negli ultimi anni della vita dettava ancora un'opera di notte e un'altra, quand'era libero, di giorno. Morendo a 76 anni, ne lasciò tre incompiute. Queste tre opere incompiute sono la testimonianza più eloquente della sua insonne laboriosità e del suo insuperabile amore verso la Chiesa.
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