Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
La casa del poeta
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Feriti.

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Feriti.

 

I padroni erano venuti a passare il tempo della vendemmia nella casa colonica: moglie, marito, signorina e signorino. La signorina faceva la cura dell'uva, e non pensava ad altro; i genitori al contrario preferivano quella dei polli e dei tacchini arrosto; il signorino si rimpinzava di frutta, di carne, di quanto gli capitava sotto mano, e si annoiava a morte.

Aveva quattordici anni. Più che noia, la sua era la scontentezza o meglio l'irrequietudine variabile dell'età e della stagione. I lunghi bagni di mare, i giochi violenti della spiaggia lo avevano seccato e teso come una corda che sta per rompersi. Adesso la campagna piatta e monotona, con le sue greggie di vigne e di frutteti bassi troppo carichi di cose da mangiare, gli sembrava un luogo di pena; e nei contadini dalla voce rauca e grassa, nelle loro donne senza carne, bruciate dalla fatica e dall'abbondante figliolanza, e in questa figliolanza stessa, a dire il vero composta quasi tutta di bambini brutti, sudici, seminudi, non vedeva che una umanità inferiore, animalesca.

Forse per legge di contrasto, gli piacevano invece le bestie: eccolo incantato a guardare i monumentali giovenchi grigi, ancora aggiogati, all'ombra di un platano, dopo la fatica della prima aratura. Sono ancora ansanti, con le grandi corna nere eguali e perfette come levigate da uno stesso artista, gli occhi rassegnati e buoni.

E le anatre, le oche maestose, i pulcini d'oro, il cane mattacchione, i gatti semiselvaggi e ladri, la donnola legata e irrequieta che guardava con occhi scintillanti come goccie di rugiada nera, tutti gli piacevano e lo stupivano.

Una mattina stava appunto da un quarto d'ora a spiare chino sul basso della siepe una piccola talpa che si affacciava ogni tanto tra le foglie come anch'essa spiando quel lungo e ignoto animale innocuo, quando sentì i due figli gemelli del capoccia vociare a poca distanza, contrastandosi un oggetto del quale non si capiva la natura. Le loro voci, già aspre e violente, lo avevano altre volte irritato; poiché i due ragazzi, che litigavano sempre, avevano pretese da padroni, e si trovavano d'accordo solo nel maltrattare gli altri bambini.

Lasciò dunque il suo posto di osservazione e si allungò per veder meglio: e subito si fece rosso in viso e digrignò i denti.

I due gemelli, camusi e gialli come cinesi, vestiti con certe vecchie maglie rosse che li facevano apparire più selvaggi, questionavano per un uccellino che uno di essi teneva stretto nella mano già grande e ossuta.

Nell'accorgersi del padroncino stettero zitti, quasi odorando il vento infido, e quello che teneva l'uccello tentò di svignarsela. Ma il padrone lo raggiunse presto coi suoi lunghi e volanti passi di corridore.

- Gabriele... - mormorò il ragazzo.

- Anzitutto ti ho già avvertito di non chiamarmi col mio nome solo e di non darmi del tu, poi mi dici dove hai preso quell'uccello.

Anche la sua voce era la voce rauca e rombante degli adolescenti in crescenza: e spaurì ma irritò in pari tempo il gemello, che guardò coi suoi occhi verdi sfrontati il giovane e già autoritario padrone.

- Non l'ho preso io. L'ha preso ieri il babbo ch'è andato a caccia: è ancora ferito.

Questa notizia parve sbalordire Gabriele.

- Fa' vedere.

L'altro aprì le dita, ma l'uccello, invece di passare nella mano di Gabriele, sgusciò giù e cadde a terra svolazzando. Era miseramente mutilato, con una grande raggiante ala d'argento e d'azzurro e l'altra sanguinante mozzata di tutte le sue penne e di un pezzo di carne alla sommità.

Quando si ricompose, richiudendo le ali, e la punta di quella sana sopravanzò la breve coda, apparve tuttavia bellissimo, con la testina bruna coronata di una stella d'argento, le zampine palmipedi, e due grandi occhi tutti neri nei quali a Gabriele apparve per la prima volta il mistero del dolore senza speranza.

Egli s'inginocchiò; prese l'uccello e se lo strinse al petto; lo sentì palpitare contro la sua mano; e gli parve che il suo cuore rombasse.

Poi si sollevò, inquisitore, feroce.

- Perché tuo padre ha sparato contro quest'uccello?

- Che ne so io? Perché era a caccia.

Con la mano libera Gabriele afferrò il polso del ragazzo e si piegò quasi volesse morderlo.

- Piantala, con quegli occhi! - urlò. - Non voglio essere guardato così. E rispondi: perché tuo padre ha portato a casa quest'uccello? Da mangiare non è buono.

Allora l'altro gemello, ch'era rimasto a rispettosa distanza, gridò:

- Per quello che gli pare e piace.

E sparve. Gabriele non si degnò neppure di guardare da quella parte; le sue unghie mordevano il polso del ragazzo, i suoi occhi se lo divoravano vivo. Smarrito, il gemello cercò di difendere il padre.

- Lo ha portato a casa per farci divertire.

Mai avesse parlato così. Gabriele gli torse il braccio e cominciò a farlo girare attorno a sé, tempestandolo di calci furibondi, da tutte le parti, fin dove la sua gamba lunga e snodata e il suo piede da calciatore potevano arrivare. E fu un torneare fantastico, perché l'avversario reagiva, con agilità serpentina, valendosi anche del braccio libero, mentre Gabriele non cessava di stringere l'uccello al suo petto ansante. Finché tutti assieme in mucchio non caddero sull'erba della radura, e il gemello batté la testa sul tronco abbattuto che li aveva fatti inciampare: allora mugghiò, come un toro ferito.

Gabriele fu il primo a sollevarsi: vide il sangue stillare dal sopracciglio destro dell'avversario, e si placò; anzi un istinto di paura lo spinse a guardarsi intorno: ma gli parve di essere in un luogo sconosciuto e quasi incantato. Non si vedeva anima viva nella distesa dorata della vigna che sconfinava con la serenità cilestrina dell'orizzonte: e solo laggiù, dietro la linea boschiva dei frutteti, il fumo che sbocciava dallo stelo di un comignolo ricordava che altri uomini, oltre quei due , nemici per la vita, esistevano nel mondo.

Il vinto si era sollevato sul tronco e annaspava l'aria come tentando di galleggiare; poi ricadde sul fianco: il sangue continuava a solcargli la guancia, ma erano poche gocce lente, come di sudore, e Gabriele si rassicurò. Disse, spietato:

- E non fiatare, sai, con nessuno. Altrimenti faccio mandar via tuo padre. Capito?

Poi se ne andò, facendo culla delle mani all'uccello ferito.

Lo portò nella sua camera, lo mise sul letto, e poiché l'infelice tentava di sgusciar via gli formò una specie di nido con l'asciugamano. Per un momento l'uccello parve assopirsi; ma appena Gabriele si allontanò per cercargli del cibo, svolazzò di nuovo, fino a precipitare giù dal lettuccio: il ragazzo lo trovò con l'ala sana tesa e tremante, gli occhi grandi pieni d'angoscia. Sul tappeto chiaro una macchia di sangue segnava come un piccolo garofano stroncato dallo stelo.

Allora cominciò una lunga pena per l'adolescente: una pena femminea, materna, mai provata. Girò per la casa, finché non trovò una sporta, il cui fondo imbottì di ovatta: di dentro l'uccello non poteva uscire né farsi più male: e infatti vi si accovacciò, come usava sulle gramigne fresche dell'arenile nei giorni felici che non dovevano tornare mai più. E per quante cose buone il suo salvatore gli porgesse, non apriva il lungo becco neromuoveva la piccola testa segnata dall'astro del dolore.

 

Finché la serva non si accorse del dramma e mise il cespuglio rossastro della sua testa sopra la sporta che Gabriele le aveva portato via di cucina.

- Benedetto da Dio! Ma questo è un uccello di mare, e non mangia che pesciolini freschi.

Gabriele sollevò il viso mortificato con gli occhi scintillanti di speranza.

Il mare non è vicino al podere, ma neppure così lontano da non arrivarci in bicicletta: ed egli corre a prendere proprio la bicicletta sulla quale il capoccia è andato a caccia nella pineta del lido. Nell'ingresso della casa colonica, dove stanno appoggiate alla parete le biciclette dei contadini, c'è una insolita confusione: i bambini bisbigliano, spiando intorno ad un uscio socchiuso; dall'uscio di contro vien fuori una donna pallida, con un bicchiere d'aceto e uno straccio in mano; il secondo gemello, congestionato in viso, con gli occhi di vetriolo, balza davanti a Gabriele e gli dice a denti stretti:

- Sei tu che hai ferito mio fratello? È svenuto e forse muore.

Gabriele porta fuori la bicicletta: l'altro cerca d'impedirglielo e riceve, con una spinta che gli fa mancare il respiro, questa formale promessa:

- Se non la smetti ti tanti di quei cazzotti che svieni tu pure.

E via sulla bicicletta fulminea, verso la marina, in cerca di pesciolini vivi per l'uccello ferito.

 

 

 


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