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Erano le vacanze pasquali.
Un giorno, mentre Anania studiava la grammatica greca, passeggiando in un piccolo
viale solcato tra il verde cinereo d'una distesa di cardi, udì picchiare al
cancello.
Nell'orto c'era anche il mugnaio, che zappava canticchiando una poesia amorosa
del poeta Luca Cubeddu; Nanna estirpava male erbe, aiutata da zio Pera; ed Efes
Cau, naturalmente ubriaco, stava coricato sull'erba.
Faceva quasi caldo; nuvolette rosee correvano sul cielo latteo, perdendosi
dietro i ceruli picchi dei monti d'Oliena; dalla vallata salivano, quasi da una
immensa conchiglia colma di verde, profumi e suoni sfumati nell'aria calda.
Ogni tanto Nanna si sollevava, con una mano sulla schiena, con l'altra gettando
baci allo studente.
«Anima mia», diceva con tenerezza. «Dio ti benedica. Eccolo là che studia come
un piccolo canonico. Chissà cosa diventerà! Diventerà giudice istruttore; tutte
le ragazze della città lo vorranno raccogliere come un confetto. Ah, la mia
povera schiena!»
«Lavora!», rispondeva zio Pera. «Che una palla ti trapassi il fegato, lavora, e
lascia tranquillo il ragazzo...»
«Che voi siate pelato; se fossi stata una ragazzetta di tredici anni non mi
avreste parlato così...» ella insinuava malignamente, curvandosi: poi tornava a
sollevarsi e ad inviar baci ad Anania, che non se ne accorgeva affatto.
«Che è?» gridò il mugnaio, udendo picchiare al cancello.
Anania ed Efes sollevarono il viso, l'uno dal libro, l'altro dall'erba, quasi
con la stessa espressione d'attesa angosciosa. Che fosse il signor Carboni? Sì,
Anania e l'ubriacone provavano quasi la stessa soggezione vergognosa quando il
signor Carboni li sorprendeva nell'orto: Efes Cau sentiva tutto il peso della
sua abbiezione quando l'uomo benefico, con uno sguardo dolce e triste, senza
rivolgergli - unico fra tanti - inutili parole di rimprovero, lo salutava e si
intratteneva con lui; Anania ricordava sua madre e sentiva vergogna di se
stesso che osava pensare a Margherita; eppure entrambi, lo studente e il
vizioso, dopo aver veduto la figura bonaria dell'uomo retto, provavano una
gioia timida e grata.
Picchiarono ancora.
«Ebbene, chi è?», gridò il mugnaio, smettendo di cantare e di zappare.
«Vado io», disse Anania, mettendosi a correre e agitando il libro in aria,
mentre zio Pera diceva:
«Se è il padrone bisogna che Efes si alzi e finga di lavorare: è una vergogna
che lo si trovi sempre lì, buttato per terra come un cane morto».
Nanna emise una specie di grugnito, raccogliendosi fra le gambe rosse seminude
le sottane lacere. Zio Pera gridò, rivolto all'ubriaco:
«E dunque, palandrone, alzati e fingi di aiutarci...».
Efes fece atto di sollevarsi, ma subito Nanna si ribellò:
«Ed io me ne vado! Perché deve egli fingere di lavorare? Perché lo insultate,
zio Pera Sa Gattu, che voi siate pelato? Non sapete che egli era ricco,
e che anche così come è vale sempre più di voi?».
«Tu lo difendi! Corvo con corvo non si cavan gli occhi!» sogghignò il vecchio,
alludendo al vizio della donna: ma la contesa fu tosto troncata dal ritorno di
Anania. Lo seguiva un giovinetto in costume di Fonni, magro e pallido e con un
visetto da topo.
«Conoscete costui?», chiese lo studente, rivolgendosi al padre. «Neppur io l'ho
riconosciuto.»
«Chi sei?», chiese il mugnaio, pulendosi le mani con un ciuffo d'erba. Il
giovinetto rise timidamente e guardò Anania.
«Eh, Zuanne Atonzu!», gridò lo studente. «Guardate come si è fatto grande!»
«Salute! Noi siamo parenti», esclamò il mugnaio abbracciando il fonnese. «Che
tu sii il benvenuto; come sta tua madre?»
«Bene.»
«Perché sei venuto?»
«Sono testimonio in una causa in Tribunale.»
«Dove hai lasciato il cavallo? Nella locanda? Non ricordavi che noi siamo
parenti? Eh che, dunque? Perché siamo poveri non vuoi ospitare da noi?»
«Siccome io son ricco!...», osservò sorridendo il giovinetto.
«Ebbene, andiamo e conduciamo il cavallo a casa nostra», disse Anania
cacciandosi il libro in tasca.
Uscirono assieme; Anania puerilmente felice di rivedere l'umile pastorello in
rozzo costume, che gli ricordava tutto un mondo lontano e selvaggio, Zuanne
vinto da una grande timidezza davanti al bel signorino pallido e fresco, dalla
cravatta fiammeggiante sul colletto lucido.
«Mamma, dateci il caffè», gridò Anania dalla strada; poi introdusse l'ospite
nella sua cameretta e cominciò come un bimbo a fargli vedere le sue cose.
Mobili strani riempivano la camera lunga e stretta, dal soffitto di canne
coperte di calce, e il pavimento di terra: due arche di legno, rassomiglianti
agli antichi cofani veneziani, sulle quali un primitivo artista aveva scolpito
grifi ed aquile, cinghiali e fiori fantastici; un cassettone piramidale,
canestri appesi alle pareti accanto a quadretti con la cornice di sughero; in
un angolo un'olla per olio, nell'altro il lettino di Anania, coperto da una
stoffa di lana grigia filata da zia Tatàna; e fra il lettino e la finestruola,
che guardava sul sambuco del cortile, un tavolino con un tappeto di percalle
verde, ed una scansa di legno bianco nei cui angoli la fantasia artistica di
Maestro Pane aveva traforato, forse ad imitazione delle arche, foglie e fiori
antidiluviani. Sul tavolino e nella scansìa stavano pochi libri e molti
quaderni; tutti i quaderni scritti da Anania; parecchie scatole legate
misteriosamente, calendari e pacchetti di giornali sardi. Tutto era pulito ed
ordinato: dalla finestra penetravano onde d'aria profumata, sul pavimento bruno
qua e là screpolato volteggiavano, quasi inseguendosi e scherzando, due foglie
di sambuco; sul tavolino stava aperto un volume dei Miserabili.
Quante, quante cose Anania avrebbe potuto e voluto far vedere al giovinetto
straniero, come ad un fratello lungamente atteso! Ma mentre egli apriva e
richiudeva qualcuna di quelle scatole legate misteriosamente, Zuanne taceva, e
il suo contegno gelido spense la gioia puerile di Anania.
A che serviva? Perché aveva egli introdotto quel mandriano nella cameretta ove
assieme con la fragranza del miele, delle frutta e dei mazzi di spigo che zia
Tatàna conservava entro le arche, si spandeva il profumo dei suoi sogni
solitari? In quella cameretta dalla cui finestruola sul sambuco, sui tetti
erbosi delle casette di pietra, il mondo s'apriva per lui vergine e fiorito come
i monti granitici del vicino orizzonte?
Dopo la gioia provò un impeto di tristezza: gli sembrò che il villaggio natìo,
il passato, i primi anni della sua vita, i ricordi nostalgici, l'affetto
poetico per il fratellino d'adozione, tutto fosse stato un sogno.
«Andiamo», disse quasi con dispetto. E trasse il pastorello per le vie di
Nuoro, scansando i compagni di scuola, pauroso che lo fermassero e gli
chiedessero chi era il paesano che gli camminava goffamente accanto.
Ma passando davanti alla casa del signor Carboni, videro affacciarsi al portone
un viso grassotto, colorito e quasi illuminato dal riflesso di una fiammante
camicetta rossa.
Anania si tolse rapidamente il cappello, mentre pareva che il riflesso della
camicetta illuminasse anche il suo viso: Margherita gli sorrise, e mai guancie
tonde di signorina furono segnate da più irresistibili fossette.
«Chi è quella donna?», chiese rozzamente Zuanne, appena oltrepassata la casa.
«Donna! È una ragazza della mia età!», osservò un po' bruscamente Anania. «Ha solo
nove mesi più di me.»
Al che Zuanne fu còlto da grande imbarazzo e non osò più fiatare mentre Anania,
come se la volontà non gli bastasse per tener ferma la lingua, mentiva pur
sapendo di mentire, ma provando una struggente felicità al pensare che ciò che
diceva potesse esser vero.
«Quella è la mia innamorata», disse.
La notte, mentre in cucina il mugnaio, coricato su una stuoia, si faceva
raccontare da Zuanne la scoperta delle rovine di Sorrabile, l'antica città
dissotterrata nei dintorni di Fonni, e domandava se vi si potevano trovare
ancora tesori, Anania guardava dalla sua finestruola il lento sorgere della
luna fra i denti neri dell'Orthobene.
Finalmente era solo! La notte regnava, piena di fremiti e di dolcezza, e già il
cuculo riempiva di gridi palpitanti la solitudine della valle. Ah, così
tristemente Anania sentiva gridare e palpitare il suo cuore, in una solitudine
infinita.
Perché aveva mentito? E perché quello stupido pastore aveva taciuto nell'udire
la grande rivelazione? Non capiva dunque che cosa era l'amore, l'amore senza
confine e senza speranza?
Ma perché s'era egli abbassato fino alla menzogna? Ah, vergogna, vergogna! Gli
pareva di aver calunniato Margherita, tanto si credeva ignobile e lontano da
lei: e che lo stesso spirito di vanità e il desiderio dell'inverosimile, che
una volta gli avevano fatto dire a Zuanne l'incontro dei banditi sulla
montagna, in un lontano tramonto, l'avessero ora spinto a rivelargli
quest'amore impossibile.
Attaccò le mani fredde alle guancie ardenti, con gli occhi rivolti al viso
melanconico della luna, e rabbrividì. Ricordava un freddo e luminoso plenilunio
d'inverno, la vergogna e la rivelazione del furto delle cento lire, la figura
di Margherita che spandeva luce nell'ombra, come la luna nella notte. Ah, forse
il suo amore datava da quella sera; ma soltanto adesso, dopo anni ed anni,
scaturiva irrefrenabile come una sorgente che non vuole più scorrere sotterra.
Questi paragoni, - dell'ombra e della sorgente improvvisa, - venivano fatti da
lui; ed egli si compiaceva delle sue immagini poetiche, ma non cancellava con
esse la vergogna ed il rimorso che lo tormentavano.
«Come sono vile», pensava, «vile fino alla menzogna. Io potrò studiare e
diventare avvocato, ma anche moralmente resterò sempre il figlio d'una donna
perduta...»
Rimase lungo tempo alla finestra: un canto triste passò e dileguò, lontano,
ridestando nell'anima dell'adolescente i ricordi della patria selvaggia, i
tramonti sanguigni, le memorie d'infanzia.
E sogni melanconici e luminosi come la luna gli sorsero nell'anima. S'immaginò
di trovarsi ancora a Fonni; non aveva studiato, non aveva mai sentito la
vergogna della sua condizione sociale; lavorava, faceva il mandriano, era anche
lui un po' semplice come Zuanne. Ed ecco che si trovava sull'orlo della strada,
in un rosso crepuscolo d'estate e vedeva Margherita passare, - povera anch'essa
ed esiliata sull'alto paesello - coi fianchi stretti dalla gonna d'orbace,
l'anfora sul capo, simile alle donne bibliche come lo sono ancora tutte le
Barbaricine. Egli la chiamava ed essa volgeva il viso illuminato dal bagliore
del crepuscolo, e gli sorrideva voluttuosamente.
«Dove vai, bella?», egli chiedeva.
«Vado alla fontana.»
«Posso venire con te?»
«Vieni pure, Nanìa.»
Egli andava: e scendevano assieme alla fontana, camminando sull'orlo della
strada, sull'alto delle immense valli, nella cui profondità la sera già si
stendeva, mentre il cielo porpureo si scoloriva e veli d'ombra cadevano su
tutte le cose. Margherita deponeva l'anfora sotto il filo argenteo della fontana
gorgogliante, e il mormorio dell'acqua cambiava di tono, e di monotono pareva
diventasse allegro, come se il cader dentro la brocca interrompesse la sua
eterna noia. I due giovanetti allora si sedevano su una pietra, davanti alla
fontana, e parlavano d'amore. L'anfora si riempiva, l'acqua traboccava e per
qualche istante taceva, quasi ascoltando ciò che i due innamorati dicevano. Ed
ecco che il cielo si scoloriva e i veli dell'ombra si stendevano anche sulle
falde più alte della montagna, come il desiderio di Anania invocava. Egli
allora cingeva con un braccio la vita della fanciulla; Margherita posava il
capo sulla spalla di lui; egli la baciava...
In quel tempo Anania, poco più che diciassettenne, non aveva amici, e coi
compagni di scuola andava poco d'accordo perché era diffidente e scontroso.
Temeva continuamente che qualcuno gli rinfacciasse la sua origine, e un giorno,
avendo sorpreso un brano di dialogo fra due studenti: «tu cosa faresti?» «nelle
sue condizioni io non resterei col padre» credette accennassero a lui. Non
salutò più i ricchi compagni che avevano pronunziato quelle parole, ma nel
profondo del cuore diede loro ragione.
«Sì», pensava, «perché rimango presso quest'uomo sucido che ha ingannato mia
madre e l'ha gettata nella via del male? Io non lo amo e non lo odio, ma non lo
disprezzo come dovrei. Egli non è cattivo e neppure completamente triviale come
tutti i nostri vicini: coi suoi sogni bambineschi di tesori e di cose
meravigliose, col suo affetto rispettoso verso la vecchia moglie, con la sua
fedeltà costante per la famiglia del padrone, egli mi riesce talvolta
simpatico, e questo mi dispiace, perché io dovrei e vorrei disprezzarlo. Che
cosa è per me lui? Gli ho chiesto io di farmi nascere? Io dovrei abbandonarlo,
ora che sono cosciente...»
Ma un po' d'affetto e molta confidenza lo univano a zia Tatàna. Essa non era
riuscita a far di lui quello che aveva sognato, cioè un ragazzo religioso e
obbediente, ma anche così come egli era, indifferente a Dio, maldicente dei
preti e del re, protervo e spregiudicato, lo amava egualmente, convinta che
egli, nonostante i suoi difetti, sarebbe diventato un grande uomo. Egli rideva
e scherzava con lei, la faceva ballare, le raccontava tutti gli avvenimenti del
paese. Ogni mattina ella gli portava a letto una tazza di caffè, e gli
annunziava se la giornata era bella o brutta; tutte le domeniche, poi, gli
prometteva denari se egli andava a messa.
«No, ho sonno», egli rispondeva; «ho studiato tanto ieri notte.»
«Allora andrai più tardi», ella insisteva. Egli non prometteva, ma zia Tatàna
gli dava egualmente i denari.
E sempre intorno a lui svolgevasi la stessa scena, con gli stessi personaggi:
ancora il sambuco profumava l'aria e gettava foglie nella cameretta silenziosa;
il vento portava dalle valli il soffio della selvaggia primavera nuorese; le
api ronzavano nell'aria tiepida, e ancora, a intervalli, vibrava il lamento di
Rebecca.
Anania frequentava tutte le case del vicinato, e specialmente la domenica
s'indugiava qua e là, portando nei miseri ambienti neri l'eleganza del suo
vestito bleu, della cravatta rossa e del colletto alto, sotto il quale celavasi
il cordoncino dell'amuleto di Olì.
L'indomani del sogno idilliaco fatto al chiaro di luna sul davanzale della sua
finestruola, appena Zuanne ritornò dal Tribunale egli lo condusse fuori, con la
buona intenzione di fargli bere un calice di anisetta nella bettola del
vicinato.
«Chissà quando ci rivedremo!», disse il mandriano, «quando dunque verrai a
trovarci? Vieni per la festa dei Martiri.»
«Non posso. Ho tanto da studiare: quest'anno devo prendere la licenza
ginnasiale.»
«E poi dove andrai? In continente?»
«Sì!», rispose Anania con impeto. «Andrò a Roma.»
«Ci sono tanti conventi a Roma, e più di cento chiese, non è vero?»
«Oh! più di cento, certamente.»
«Ieri notte tuo padre raccontava che quando era soldato...»
«Dovrai fare il servizio militare, tu?», interruppe Anania, che non badava
all'espressione del volto di Zuanne.
«Lo farà mio fratello. Io...»
Tacque. Entrarono nella bettola. Un nugolo di mosche ronzava attorno ad una
fanciulla bruna e bella, ma spettinata e sucida, seduta al banco.
«Buon giorno, Agata; come hai passato la notte?»
Ella si alzò e si rivolse ad Anania con triviale famigliarità.
«Che vuoi, bello?»
«Che vuoi?», ripeté egli a Zuanne.
«Quello che vuoi tu», disse impacciato il pastorello.
La fanciulla si mise a rifare la voce e l'atteggiamento di Zuanne.
«Quello che vuoi tu... E tu cosa vuoi, agnellino mio?»
Guardò sfacciatamente Anania, ed anche Anania la guardò. Dopo tutto egli non
era un santo; ma si avvide che Zuanne arrossiva e chinava gli occhi, e quando
uscirono si sentì chiedere timidamente:
«Anche quella è tua innamorata?».
«Perché?», egli domandò un po' irritato, un po' allegro. «Perché mi guardava?
Oh, bella, a che servono gli occhi? Ti farai frate, tu?»
«Sì», rispose l'altro semplicemente.
«E va a farti frate!», esclamò Anania, ridendo. «E adesso andiamo a vedere il
Camposanto: così staremo allegri.»
«Eppure dobbiamo andarci tutti!», disse gravemente l'altro.
Mentre ritornavano verso casa, incontrarono un compagno di scuola di Anania, un
brutto ragazzo che s'era già fatto crescere i baffi e la barba a forza di
strofinarsi e radersi il volto.
«Atonzu, vengo da te. Ti vuole il direttore. Tu dunque farai da donna», egli
disse, fermando Anania.
«Io? Macché donna d'Egitto! Non farò niente, io!», rispose Anania con molto
sussiego.
«Come si fa, allora? Sei l'unico tipo adatto! Non è vero che rassomiglia a una
donna? Guarda!», esclamò lo studente brutto rivolgendosi a Zuanne.
«Sei bello...», disse timidamente il giovinetto.
Anania si inchinò, levandosi il cappello.
«Grazie, altrettanto!»
«Sì, dunque, non fare il modesto: sei bello!» ripeté lo studente brutto: «vieni
dunque dal direttore».
«Più tardi, ma io non farò da donna, parola d'onore, no!»
«Perché deve far da donna?», domandò con meraviglia Zuanne.
«In una commedia, capisci: ed è per beneficenza... per gli studenti poveri...»
«Io sono povero, fatela dunque voi in mio favore, la commedia!», disse Anania.
«Povero! Sentilo! Il diavolo ti porti, tu sei più ricco di noi!»
«Che cosa vuoi dire?», chiese Anania minaccioso, rabbuiandosi al pensiero che
il compagno accennasse alla protezione del signor Carboni.
«Tu sei bello, sei il primo, tu diventerai giudice istruttore e tutte le
fanciulle ti vorranno raccogliere come un confetto...»
Questa espressione, che Nanna ripeteva dappertutto, fece ridere e calmò Anania;
ma egli tenne la parola e non prese parte alla commedia. E non se ne pentì,
perché la sera della rappresentazione egli poté assistervi seduto in seconda
fila, subito dietro la sedia del padrino (in quel tempo sindaco di Nuoro) al
cui fianco Margherita, in abito rosso e cappello bianco, risplendeva come una
fiamma.
Il capitano dei carabinieri, il segretario della Sottoprefettura, l'assessore
anziano ed il direttore del Ginnasio sedevano in prima fila, accanto al sindaco
ed alla sua splendida signorina; Margherita, però, non sembrava soddisfatta di
tanta compagnia, perché si voltava indietro guardando con dignità gli studenti
e gli ufficiali.
In fondo alla sala adorna di ghirlande d'edera e di vitalba, il sipario di
percalle qua e là rattoppato ondulava e lasciava scorgere coppie di studenti
che ballavano allegramente. Alla fine il tendone fu tirato su con grande stento
e la commedia cominciò.
La scena risaliva al tempo delle Crociate, e si svolgeva in un castello molto
turrito e vetusto all'esterno, per quanto all'interno fosse arredato con un
solo tavolino rotondo e mezza dozzina di sedie di Vienna.
La fida Ermenegilda, uno studentino dal viso tinto con carta rossa, indossava
un largo vestito da camera della signora Carboni; seduta presso il balcone, con
le gambe accavalcate indecentemente, ricamava una sciarpa per il non meno fido
Goffredo, guerriero lontano.
«Ora si punge le dita», mormorò Anania, chinandosi verso Margherita.
Ella si chinò a sua volta, portando il fazzoletto alla bocca per soffocare una
risata.
Il capitano dei carabinieri, seduto accanto a lei, volse lentamente il capo,
dando un bieco sguardo allo studente. Ma Anania si sentiva tanto felice, aveva
una pazza voglia di ridere e voleva comunicare a Margherita tutta la gioia che
la vicinanza di lei gli destava.
Nel secondo atto il conte Manfredo, padre di Ermenegilda, voleva costringere la
fanciulla ad obliare Goffredo e sposare un ricco barone di Castelfiorito.
«Padre mio!», diceva la donzella, aprendo le gambe in modo sguaiato. «A che mi
vuoi tu costringere? Mentre il prode Goffredo langue forse in una prigione
orrenda, tormentato dalla fame, dalla sete e da...»
«...dagli insetti», mormorò Anania, chinandosi nuovamente verso Margherita.
Il capitano si volse di botto e disse con disprezzo:
«La finisca, dunque!».
Anania sussultò, si ritrasse, gli parve d'essere umile e pauroso come la
chiocciola che appena disturbata si ritira nel guscio; e per qualche minuto non
vide e non udì più nulla.
«La finisca, dunque!» Sì, egli non poteva scherzare, non poteva parlare: sì,
egli aveva capito benissimo; non poteva sollevare neppure gli occhi: egli era
povero, era figlio della colpa... «La finisca, dunque!» Che faceva, lui, fra
tutti quei signori, fra tutti quei giovani ricchi ed onorati? Come gli avevano
permesso di entrare? Come aveva potuto chinarsi all'orecchio di Margherita
Carboni e sussurrarle frasi volgari? Perché ora sentiva tutta la volgarità
delle osservazioni fatte. Ma non poteva parlare altrimenti il figlio d'un
mugnaio e di una donna... «La finisca, dunque!»
Ma a poco a poco riprese animo, e guardò con odio la nuca rossa e la testa
calva del capitano.
Non udendolo più ridere né parlare, Margherita si volse alquanto e lo guardò: i
loro occhi si incontrarono ed ella s'offuscò vedendolo triste, ed egli se ne
accorse e le sorrise. Immediatamente tornarono allegri tutti e due; ella
rivolse il viso al palcoscenico, ma sentì che gli occhi lunghi e
socchiusi di Anania non cessavano di guardarla e di sorriderle. Una sottile
ebbrezza li avvolse entrambi.
Verso mezzanotte Anania accompagnò i Carboni fino alla loro casa: l'assessore
anziano, un vecchio medico chiacchierone, camminava a fianco del sindaco:
Anania e Margherita andavano avanti, ridendo e inciampando sui ciottoli della
strada buia e diruta. Gruppi di persone passavano, ridendo e chiacchierando.
La notte era scura, ma tiepida, vellutata: di tanto in tanto arrivava un soffio
di levante, profumato da un odore di bosco umido. Stelle e pianeti, infiniti
come le lagrime umane, oscillavano sul cielo profondo; sopra l'Orthobene Giove
brillava vivissimo.
Chi non ricorda nella sua prima giovinezza una notte, un'ora così? Stelle
oscillanti nell'oscurità d'una notte più luminosa d'un tramonto, stelle pronte
a cadere sovra la nostra fronte, come un diadema regale; l'Orsa brillante, a
guisa d'un carro d'oro che ci attenda per condurci in un lontano paese di
sogni; una strada buia, la Felicità vicina, così vicina da poterla afferrare e
non lasciarla mai più.
Due o tre volte Anania sentì la mano di Margherita sfiorare la sua; ma il solo
pensiero di poterla prendere e stringere gli parve un delitto. Egli parlava e
gli pareva di tacere e di pensare a cose ben lontane da quelle che diceva;
camminava e inciampava e gli sembrava di non sfiorare la terra; rideva e si
sentiva triste fino alle lagrime: vedeva Margherita così vicina da poterle
stringere la mano, e gli pareva lontana e inafferrabile come il soffio del
vento che veniva e passava.
Ella rideva e scherzava, ed egli aveva ben veduto negli occhi di lei il
riflesso della sua sdegnosa tristezza; ma gli sembrava che ella non potesse
badare a lui che come ad un cane fedele. «Se ella», pensava, «potesse immaginare
che io mi struggo dal desiderio di stringerle la mano, griderebbe d'orrore come
al morso di un cane arrabbiato.»
Ad un certo punto la voce alta e nasale dell'assessore tacque; Margherita ed
Anania si fermarono, salutarono, ripresero la via, ma lo studente parve
destarsi da un sogno; tornò a sentirsi solo, triste, timido, barcollante nel
vuoto della strada scura.
«Bravo, bravo!», disse il sindaco che si era messo fra i due ragazzi; «ti è
piaciuta la commedia?»
«È una stupidaggine», sentenziò Anania con tono sicuro.
«Braaavo!», ripeté meravigliato il padrino. «Sei un critico acerbo, tu!»
«Ma son cose da farsi quelle? Già, il direttore è un fossile; non poteva
scegliere altro. La vita, la vita non è quella, non è stata mai quella!»
«Potevano dare una commedia moderna: una cosa commovente: queste stupide
contesse han fatto il loro tempo!», disse Margherita, prendendo il tono e
l'accento d'Anania.
«Brava! Anche tu! Sì, davvero, dovevano dare una cosa più commovente: per
esempio la commedia di quegli indiani che quando la moglie partorisce si
mettono a letto e si fanno trattare da puerpere anche loro... avete sentito
l'assessore?»
Margherita rise: rise anche Anania, ma il suo riso si spense subito, come
troncato da un improvviso pensiero triste. Camminarono in silenzio.
«Ebbene, questi lampioni; bisognerà provvedere», disse piano, parlando a se
stesso, il signor Carboni; poi a voce alta: «Cosa hai detto per il direttore?».
«Che è un fossile.»
«Bravo! E se vado a dirglielo?»
«Che mi fa? Tanto l'anno venturo me ne vado.»
«Ah, te ne vai? E dove?»
Anania arrossì, ricordandosi che non poteva andar via senza l'aiuto del signor
Carboni. Che significava ora la sua domanda? Non ricordava più? O si burlava di
lui? O voleva fargli pesare già la sua protezione?
«Non lo so», disse a bassa voce.
«Ah!», riprese il sindaco, «tu vuoi andar via? Non vedi l'ora di andar via?
Andrai, andrai: tu vuoi volare già, tu scuoti già le ali, uccellino! Ebbene,
ssssst, vola!» Fece atto di lanciare in aria un uccello, poi batté la mano
sulle spalle del figlioccio. Ed Anania sospirò, e si sentì leggero, lieto e
commosso come se veramente avesse spiccato il volo.
Margherita rideva: e nel silenzio della notte, il riso vibrante di lei pareva
ad Anania, fattosi uccello, il fremito arcano d'un ramo fiorito sul quale egli
poteva posarsi e cantare.