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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Sdraiato sul suo lettuccio, dopo ore ed ore di amarezza, di dubbio, di
opprimente melanconia, egli pensava:
«È inutile illudermi: non sono pazzo, no; ma non posso più vivere così; bisogna
ch'io sappia... Oh, fosse morta! fosse morta! Bisogna che io cerchi. Non sono
venuto a Roma per questo? Domani! domani! Dal giorno che arrivai ripeto questa
parola, e l'indomani arriva ed io non faccio niente. Ma che posso fare? Dove
devo andare? E se la trovo?».
Ah, era di questo che egli aveva paura. Non voleva neppur pensare a quanto
poteva accadere dopo...
Improvvisamente si domandò: «E se mi confidassi col Daga? Se io ora gli
dicessi: «Battista, devo uscire, devo recarmi in questura per chiedere
informazioni...». Ah, non ne posso più! Sono tanti e tanti anni che io trascino
con me questo peso: ora vorrei liberarmene, gettarlo via come si getta un
carico opprimente... liberarmene, respirare... Bisogna snidarlo questo verme
roditore. Mi diranno che sono uno stupido, mi convinceranno che lo sono, mi
diranno di smettere... Ebbene, tanto meglio se mi convinceranno... Che giornata
triste! Il cielo si abbassa... si abbassa sempre più... Avrei sonno? Bisogna
ch'io vada subito».
Pioveva dirottamente. Anche il Daga sonnecchiava sul suo lettuccio, al di là
del paravento.
«Battista», disse Anania, sollevandosi, col gomito sul guanciale, «tu non
esci?»
«No.»
«Mi presti il tuo ombrello?»
Sperava che il compagno gli chiedesse dove voleva andare, con quel tempo
orribile, ma il Daga disse:
«Non potresti farmi il piacere di comprartene uno?»
Anania sedette sul letto, rivolto al paravento, e mormorò:
«Devo andare in questura...».
E sperò ancora che una voce fraterna gli chiedesse il suo segreto... Ecco, egli
palpitava già pensando come cominciare...
Ma attraverso il paravento una voce beffarda chiese:
«Vai a far arrestare la pioggia?».
Il segreto gli ripiombò sul cuore, più amaro e grave di prima. Ah, non un
paravento, ma una muraglia insuperabile lo divideva dalla confidenza e dalla
carità del prossimo. Non doveva chiedere né aspettare aiuto da nessuno; doveva
bastare a se stesso.
S'alzò, si pettinò accuratamente e cercò nel cassetto la sua fede di nascita.
«Prendilo pure, l'ombrello. Ma perché vai?», chiese l'altro, sbadigliando.
Egli non rispose.
Sulle scale buie si fermò un momento, ascoltando lo scroscio sonoro dell'acqua
sull'invetriata del tetto: pareva il rombo d'una cascata, che dovesse di momento
in momento precipitarsi entro la casa, già inondata dal fragore dell'imminente
rovina. Una tristezza mortale gli strinse il cuore. Uscì e vagò lungamente per
le strade lavate dalla pioggia: salì su per una viuzza deserta, passò sotto un
arco nero, guardò con infinita tristezza i chiaroscuri umidi di certi interni,
di certe piccole botteghe, nella cui penombra si disegnavano pallide figure di
donne, di uomini volgari, di bimbi sudici: antri ove i carbonari assumevano
aspetti diabolici, dove i cestini di erbaggi e di frutta imputridivano
nell'oscurità fangosa, ed il fabbro e il ciabattino e la stiratrice si
consumavano nei lavori forzati, in un luogo di pena più triste della galera
stessa.
Anania guardava: ricordava la catapecchia della vedova di Fonni, la casa del
mugnaio, il molino, il misero vicinato e le melanconiche figure che lo
animavano; e gli pareva d'esser condannato a viver sempre in luoghi di
tristezza e tra immagini di dolore.
Dopo un lungo ed inutile vagabondare rientrò a casa e si mise a scrivere a
Margherita.
«Sono mortalmente triste: ho sull'anima un peso che mi opprime e mi schiaccia.
Da molti anni io volevo dirti ciò che ti scrivo adesso, in questo triste giorno
di pioggia e di melanconia. Non so come tu accoglierai la rivelazione che sto
per farti; ma qualunque cosa tu possa pensare, Margherita, non dimenticare che
io sono trascinato da una fatalità inesorabile, da un dovere che è più
terribile d'un delitto...»
Arrivato alla parola «delitto» si fermò e rilesse la lettera incominciata. Poi
riprese la penna, ma non poté tracciare altra parola, vinto da un gelo
improvviso. Chi era Margherita? Chi era lui? Chi era quella donna? Cosa
era la vita? Ecco che le stupide domande ricominciavano. Guardò lungamente i
vetri, il filo di ferro, gli anellini ed i lacci bagnati e saltellanti su uno
sfondo giallastro, e pensò:
«Se mi suicidassi?»,
Lacerò lentamente la lettera, prima in lunghe striscie, poi in quadrettini che
dispose in colonna, e tornò a fissare i vetri, il filo di ferro, i laccetti che
parevano marionette. Rimase così finché la pioggia cessò, finché il compagno lo
invitò ad uscire.
Il cielo si rasserenava; nell'aria molle vibravano i rumori della città
rianimatasi, e l'arcobaleno s'incurvava, meravigliosa cornice, sul quadro umido
del Foro Romano.
Al solito, i due compagni salirono per Via Nazionale e il Daga si fermò a
guardare i giornali davanti al Garroni, mentre Anania proseguiva distratto,
andando incontro ad una fila ciangottante di chierici rossi, uno dei quali lo
urtò lievemente. Allora egli parve destarsi da un sogno, si fermò e aspettò il
compagno, mentre i chierici s'allontanavano, e il riflesso dei loro abiti
scarlatti dava uno splendore sanguigno al lastrico bagnato.
«Nella mia infanzia ho conosciuto il figliuolino d'un bandito famoso; il bimbo
era già arso da passioni selvaggie, e si proponeva di vendicare suo padre. Ora
invece ho saputo che si è fatto frate. Come tu spieghi questo fatto?», domandò
Anania.
«Quell'individuo è pazzo!», rispose il Daga con indifferenza.
«Ebbene, no!», riprese Anania animandosi. «Noi spieghiamo o vogliamo spiegare
molti misteri psicologici, dando il titolo di matto all'individuo che ne è
soggetto.»
«Per lo meno, però, è un monomaniaco. D'altronde anche la pazzia è un mistero
psicologico complicato; un albero il cui ramo più potente è la monomania.»
«Ebbene, ammetto. Ma l'individuo in questione aveva la monomania del
banditismo; aggiungi, monomania atavica. Facendosi frate egli, sebbene uomo
quasi primitivo, ha voluto liberarsi dal suo male...»
«E finirà con l'impazzire davvero, quel frate. Un uomo cosciente, colto dal
malanno di un'idea fissa qualunque, deve liberarsene secondandola.»
«Tu forse hai ragione», disse Anania, pensieroso. E non parlò più finché non
arrivarono all'angolo di Via Agostino Depretis. Allora disse, svoltando strada:
«Voglio prendere... mi hanno incaricato di prendere l'indirizzo di una
persona... Devo andare in questura».
Il compagno lo seguì, curioso.
«Chi è questa persona? Chi ti ha incaricato? È del tuo paese?»
Ma Anania non si spiegava. Arrivati davanti a Santa Maria Maggiore il Daga
dichiarò che non sarebbe andato oltre.
«Allora aspettami qui», disse Anania, senza fermarsi, «ti dirò poi...»
Messo in curiosità il Daga lo seguì per un tratto, poi lo aspettò sulla
gradinata della chiesa.
«Il dado è gettato?» chiese con enfasi, quando Anania ricomparve. Ma nonostante
le sue domande e i suoi scherzi non riuscì a sapere che cosa il suo compagno
era andato a fare in questura. Appoggiato al muro Anania guardava l'orizzonte e
ricordava la sera in cui, bambino, era salito sulle falde del Gennargentu ed
aveva veduto un pauroso cielo tutto rosso, animato da spiriti invisibili.
Anche adesso sentiva un mistero aleggiargli intorno, e la città gli sembrava
una foresta di pietra attraversata da fiumi pericolosi, e sentiva paura.