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Prima di scendere a cena, egli s'affacciò al finestruolo della sua cameretta
e rimase colpito dal silenzio profondo che regnava nel cortile, nel vicinato,
nel paese. Gli parve d'essere diventato sordo. Ma la voce di zia Tatàna risuonò
nel cortile, sotto il sambuco.
«Nania, figlio mio, scendi.»
Egli scese in cucina e sedette davanti al piccolo tavolo apparecchiato solo per
lui, mentre i suoi «genitori», al solito, cenavano seduti per terra, intorno ad
un canestro colmo di focacce e di vivande.
La cucina era sempre la stessa, povera e scura, ma pulita, col focolare nel
centro, i muri adorni di spiedi e di taglieri, di grandi canestri, di vagli e
di setacci e d'altri arnesi per pulir la farina; in un angolo c'erano due
sacchi di lana colmi d'orzo; accanto alla porticina spalancata stava appesa la tasca
di cuoio per le sementi e le provviste da campagna del contadino.
Un porchetto grugniva lievemente e sbuffava e sospirava, legato al sambuco del
cortile.
Un gattino rossastro andò tranquillamente a mettersi accanto al piccolo tavolo,
e cominciò a sbadigliare, sollevando i grandi occhi gialli verso Anania. Egli
si guardava attorno quasi con stupore. Ah, nulla era mutato; eppure egli
provava l'impressione di trovarsi per la prima volta in quell'ambiente, con
quel contadinone dagli occhi ancora fosforescenti e i lunghi capelli oleosi, e
con quella graziosa vecchia, grassa e bianca come una colomba.
«Finalmente siamo soli», disse Anania grande, che mangiava l'insalata
prendendola e stringendola fra due pezzi di focaccia. «Ora non ti lasceranno
più in pace, vedrai! Atonzu di qua, Atonzu di là. Sì, oramai tu sei un uomo
importante, perché sei stato a Roma. Anche io quando tornai dal servizio
militare...»
«Eh, che paragoni son questi!» protestò un po' scandolezzata zia Tatàna.
«Ebbene, lasciami dire! Mi ricordo che provavo difficoltà a parlare in
dialetto. Mi pareva d'essere in un mondo nuovo!»
Lo studente guardò suo padre e sorrise.
«Anch'io!», disse.
«Oh, meno male! Io però, dopo, mi abituai di nuovo, mentre fra tre giorni tu
sarai stufo di restare in questo paese pettegolo... e... e...»
La vecchia lo guardò corrugando le sopracciglia, ed egli cambiò discorso.
«Che c'è dunque? Raccontatemi: che cosa dicono di me?», domandò Anania.
«Ma niente, ma niente! Lascia gracchiare le cornacchie...», rispose la vecchia.
Egli si turbò; per un momento dubitò che si sapesse a Nuoro qualche cosa di
Maria Obinu. Depose la forchetta attraverso il piatto e dichiarò che non
avrebbe continuato a mangiare se non parlavano...
«Come sei impetuoso! Sempre tu», osservò la vecchia. «Diceva re Salomone che
l'uomo impetuoso è simile al vento...»
«Oh, c'è ancora re Salomone!», disse Anania con voce acerba.
La vecchia tacque, addolorata: il marito la guardò, poi guardò Anania e volle
castigarlo:
«Re Salomone diceva sempre la verità». Indi aggiunse: «Eh, dicono a Nuoro che
tu fai all'amore con Margherita Carboni».
Anania arrossì: riprese la forchetta, ricominciò a mangiare e borbottò:
«Che stupidi!».
«Senti, no, non sono stupidi,» riprese il mugnaio guardando entro il bicchiere
a metà colmo di vino. «Se la cosa è vera, hanno ragione di mormorare, perché tu
devi dichiararti francamente al padrone e dirgli: «Benefattore mio, io oramai
sono un uomo; mi perdoni se finora le ho nascosto le mie speranze come le ho
nascoste ai miei stessi genitori.»
«Tacete! Voi non sapete nulla!», proruppe adirato ed infiammato il giovine.
«Ah, santa Caterina mia!», sospirò zia Tatàna, «lascialo dunque in pace quel
povero ragazzo stanco. C'è sempre tempo a parlare di queste cose, e tu sei un
contadino e sei un uomo ignorante che non capisce niente.»
Il contadino bevette, scosse la mano per accennare «calma, calma», poi parlò
con voce tranquilla:
«Sì, io sono ignorante e mio figlio è istruito, va bene. Ma io sono più vecchio
di lui. I miei capelli, ecco qui (se ne tirò un ciuffo sugli occhi, cercò e
strappò un capello bianco), cominciano ad incanutire. L'esperienza della vita,
moglie mia, rende l'uomo più istruito d'un dottore. Ebbene, figlio mio, io ti
dico una sola cosa: interroga la tua coscienza e vedrai che essa ti risponderà
che non si deve ingannare il proprio benefattore».
Lo studente batté sul tavolo il bicchiere, così forte che il gattino trasalì.
«Sì, figlio», proseguì il contadino, ricacciandosi indietro sulla testa i
capelli oleosi, «tu devi andare dal padrone, devi baciargli la mano e dirgli:
«Io sono figlio di contadini, ma per grazia vostra e del mio talento diventerò
dottore, ricco e signore. Io amo Margherita e Margherita mi ama: io la renderò
tanto felice, che essa dimenticherà di essersi abbassata a scegliere per isposo
il figlio del suo servo. La Signoria Vostra ci benedica, nel nome del Padre,
del Figliuolo e dello Spirito Santo».
«E se invece di benedirlo lo scaccia via come un cane!», domandò la vecchia.
«Va là, femminuccia», esclamò il contadino, versandosi ancora da bere, «il tuo
re Salomone diceva che le donne non sanno quel che dicono! Se io invece parlo
ho già pesato le mie parole. Il padrone benedirà».
«Ma se non è vero niente!», proruppe Anania, pieno di gioia. Si alzò,
s'avvicinò alla porta e si mise a fischiare: non capiva più nulla, sentiva il
cuore battergli forte. «Il padrone benedirà!» Se il contadino parlava così
doveva avere le sue ragioni. Ma perché Margherita non aveva mai accennato alle
buone disposizioni di suo padre? E se le ignorava lei, come poteva conoscerle
il servo?
«La vedrò fra poco», pensò Anania, e tutti i suoi dubbi, le ansie, la
stanchezza del viaggio, la gioia stessa delle nuove speranze, tutto dileguò
davanti al dolce pensiero: «La vedrò fra poco».
Al lieve tocco della sua mano il portone s'aprì silenziosamente.
«Ben tornato», mormorò la serva che favoriva la corrispondenza dei due
innamorati. «Ella verrà subito.»
«Come stai?» egli chiese con voce commossa. «Ecco, prendi un ricordo che ti ho
portato da Roma.»
«Ma che cosa hai fatto!», ella disse, prendendo subito l'involtino. «Ti
disturbi sempre, tu! Aspetta.»
Egli attese, appoggiato al muro ancora tiepido del cortile, sotto il cielo
velato della notte silenziosa. Margherita apparve, ma più che vederla, egli la sentì:
sentì la guancia liscia e calda, il cuore balzante contro il suo, la vita
agile, le labbra molli, e gli sembrò di svenire.
Follemente, cominciò a baciarla sui capelli, sul volto, accecato da una
inestinguibile sete di baci.
«Basta e basta!», ella disse, riavendosi per la prima. «Come stai, dunque? Sei
guarito?»
«Sì, sì! Ah, Dio, finalmente! Senti come mi batte il cuore. Ah», proseguì,
respirando a stento, e stringendosi la mano di lei al petto, «non posso neppure
parlare... E neppure ti vedo! Ah, se tu portassi un lume!»
«Che dici, Nino! Ci vedremo poi domani; ora ci sentiamo», ella rispose, ridendo
piano piano, mentre sotto la palma della mano che Anania si premeva sul petto
sentiva il cuore di lui palpitare convulso. «Come batte il tuo cuore! sembra
quello d'un uccello ferito. Ma sei guarito davvero, dimmi?»
«Guarito, guarito!... Margherita, dove sei? Ma siamo davvero assieme?»
Egli cercava di distinguere i lineamenti di lei nell'oscurità della notte
velata. Grandi nuvole nere passavano incessantemente sul cielo grigiastro; di
tanto in tanto un lembo ovale di firmamento chiaro, circondato di cupe
vaporosità, appariva come un viso misterioso, con due stelle rossastre per
occhi, e pareva spiasse gl'innamorati. Anania sedette sulla panchina e attirò
la fanciulla sulle sue ginocchia.
«Lasciami», ella disse, «peso troppo; sono troppo grassa...»
«Sei leggera come una piuma», egli affermò. «Ma è dunque vero che ti ho con me?
Ah, mi pare un sogno! Quante volte ho sognato questo momento, che mi pareva non
dovesse giungere più! Ed ora eccoci assieme, uniti, uniti, capisci, uniti! Mi
pare d'impazzire. Ma sei davvero tu, Margherita? ma è proprio vero che ti ho
qui, sul mio cuore? Parla, dimmi qualche cosa, altrimenti mi par di sognare.»
«Tocca a te raccontare. Io ti scrissi tutto, tutto; parla tu, Nino; sai parlare
così bene tu! Raccontami di Roma; parla tu, io non so parlare...», ella
mormorò, turbata.
«No, invece! no, tu sai parlare benissimo. Tu hai una voce così dolce! Io non
ho mai sentito una donna parlare come parli tu...»
«Non dir bugie...»
«Ti giuro che non mentisco. Perché dovrei mentire? Tu sei la più bella, tu sei
la più gentile, la più dolce tra le fanciulle. Se tu sapessi come pensavo a te
quando le mie padroncine, a Roma, nei primi tempi, si buttavano addosso a me ed
a Battista Daga! Mi pareva d'essere accanto a creature appestate, e pensavo a te
come a una santa, soave, pura, fresca e bella.»
«Ma anche io, adesso...»
«Non bestemmiare, Margherita», egli proruppe. «Noi siamo sposi: non è dunque
vero che siamo sposi? Dimmi di sì.»
«Sì.»
«Dimmi che mi ami.»
«Sì.»
«Non sì soltanto. Dimmi così: Ti... amo!»
«Ti... a... mo... Se non ti amassi sarei forse qui?» ella chiese poi,
animandosi. «Ti amo, sicuro! Io non so esprimermi, ma ti amo, forse più di
quanto mi ami tu.»
«Non è possibile! Ma anche tu mi ami, lo so», egli riprese, «tu che sei bella e
ricca...».
«Ricca... chissà! E se non lo fossi?»
«Sarei più contento.»
Tacquero seri entrambi quasi dividendosi per seguire ciascuno il proprio
pensiero.
«Sai dunque», egli disse ad un tratto, timidamente, seguendo il filo delle sue
idee, «mi han riferito che la tua famiglia sa del nostro amore. È vero?»
«Vero», ella rispose, dopo breve esitazione.
«Ah, cosa mi dici? Tuo padre dunque non sarebbe contento?»
Margherita esitò di nuovo; poi sollevò il capo e rispose con freddezza: «Non lo
so», e dall'accento di lei Anania intuì qualche cosa di triste, d'insolito; e
la sua mente corse a lei, al fantasma che forse si intrometteva fra lui
e la famiglia di Margherita.
«Senti», disse, pensieroso, carezzandole distrattamente le mani: «devi
rispondermi con franchezza. Che cosa succede? Posso o no aspirare a te? Posso
sempre sperare? Tu sai bene quello che io sono: un povero, un beneficato dalla
tua famiglia, il figlio d'un tuo servo».
«Ma che cosa dici!», ella esclamò, impaziente più che addolorata. «Tuo padre
non è affatto un servo, e quando lo fosse è un uomo onorato e basta!»
«Un uomo onorato!», ripeté fra sé Anania, colpito nell'anima. «Oh, Dio, ma lei
non è una donna onorata.» «Margherita», insisté sforzandosi invano a restar
calmo, «bisogna che tu mi apra tutta l'anima tua, e che mi guidi e mi consigli.
Dimmi tu che cosa devo fare. Devo aspettare? Devo agire? Il mio orgoglio e la
mia coscienza mi imporrebbero di presentarmi a tuo padre e dirgli tutto:
altrimenti egli può considerarmi come un traditore, un uomo senza onore e senza
lealtà. Però io seguirò i tuoi consigli, tutto fuorché perderti. Sarebbe la mia
morte questa, la mia morte morale. Io sono ambizioso, vedi, e lo dico
altamente, perché, ove tu non venga a mancarmi, la mia non sarà un'ambizione
sterile. Tu sei lo scopo della mia vita! Se tu mi venissi a mancare, io non
avrei più forza né volontà di far bene... Se tu però mi dicessi: «Io amo un
altro», ebbene, io...».
«Basta! Taci ora!», comandò Margherita. «Sei tu che bestemmi, adesso! Piove?»
Una goccia d'acqua era caduta sulle loro mani intrecciate. Entrambi sollevarono
il viso e guardarono le nuvole che ora passavano più lente, più dense, mostri
nebulosi e torpidi.
«Senti, dunque», disse Margherita, parlando un po' distratta e frettolosa, come
per paura che la pioggia interrompesse il convegno. «Noi non siamo più ricchi
come prima. Gli affari di mio padre vanno male. Egli, poi, ha prestato denari a
tutti quelli che glieli hanno chiesti e che... non glieli restituiranno mai.
Egli è troppo buono. La nostra lite col comune di Orlei, quell'eterna lite per
le foreste incendiate, va male per noi: se la perderemo, e purtroppo pare così,
io non sarò più ricca.»
«Perché non mi hai scritto mai questo?»
«Perché dovevo scrivertelo? Eppoi io stessa, fino a pochi giorni fa, ignoravo
certe cose. Oh, ma piove davvero! Vattene, adesso...»
Si alzarono e si rifugiarono sotto la tettoia. I lampi brillarono fra le
nuvole, e al loro chiarore violetto Anania poté finalmente veder Margherita,
pallida come la luna.
«Che hai? Che hai?», chiese stringendola a sé. «Non aver paura dell'avvenire.
Se non sarai più tanto ricca sarai però felice. Non temere.»
«Oh no! Tremo perché mia madre, che ha paura dei fulmini, può alzarsi da letto.
Vattene, adesso...», ella rispose, respingendolo dolcemente. «Vattene...».
Egli dovette ubbidire, ma rimase un bel po' sotto il portone aspettando che la
pioggia cessasse. Impeti di gioia gli illuminavano l'anima, a intervalli,
violentemente, come la luce dei lampi illuminava la notte. Ricordò quel giorno
di pioggia, a Roma, quando il pensiero della morte gli aveva solcato l'anima
come il guizzo d'una folgore. Sì: il dolore e la gioia si rassomigliano: tutti
e due bruciano.
Ma mentre si dirigeva a casa sua sotto gli ultimi spruzzi di pioggia, egli
pensò:
«Come sono vile! Mi rallegro della sventura del mio benefattore. Che cosa
lurida è il cuore umano!».
L'indomani mattina per tempo scrisse a Margherita esponendole molti progetti,
uno più eroico dell'altro. Voleva dare lezioni per proseguire gli studi senza
essere oltre di peso al suo benefattore; voleva presentarsi al signor Carboni
per fargli la domanda di matrimonio; voleva infine far capire alla famiglia di
Margherita che egli sarebbe stato il suo conforto ed il suo orgoglio.
Mentre finiva di scrivere la lettera, davanti alla finestra aperta donde
penetrava la fragranza delle campagne rinfrescate dalla pioggia notturna, sentì
alle sue spalle uno scoppio di riso represso. Nanna, lacera e tentennante, con
gli occhi pieni di lagrime e l'orribile bocca livida spalancata al riso,
s'avanzava, con una tazza in mano.
«Buon giorno, Nanna, come va? Sei viva ancora?»
«Buon giorno alla Vossignoria. Ecco che non mi è riuscito di sorprenderla! Ho
chiesto in grazia a zia Tatàna di portarle il caffè. Eccolo qui. Ho le mani
pulite, Vossignoria. Oh, che consolazione, che consolazione!»
«Dov'è l'Eccellenza con cui parli? Da' qui il caffè, e dammi tue notizie.»
«Ah, noi viviamo nelle tane, come bestie feroci che siamo. Come posso dare del
tu alla Vossignoria, che è un sole risplendente?»
«Oh, non sono più un confetto?», egli disse, sorbendo il caffè dall'antica
chicchera filettata d'oro.
«Che tu sii benedetto!... Ah, mi scusi! Ah, ricorda la prima volta che ritornò
da Cagliari? Sì, Margheritina aspettava alla finestra. Come la luna non può aspettare
il sole?»
Anania si alzò e depose la chicchera sul davanzale della finestra; poi respirò
forte. Come si sentiva felice! Come il cielo era azzurro, come l'aria odorava!
Che grandiosità nel silenzio delle umili cose, nell'aria non ancora sfiorata dal
soffio e dal rombo della civiltà! Anche zia Nanna non era più la donna orribile
e nauseante di un tempo; sotto l'involucro immondo di quel corpo nero e
puzzante, palpitava un'anima poetica...
«Senti questi versi!», egli gridò agitando le braccia:
Ella era assisa sopra la verdura,
Allegra; e ghirlandetta avea contesta:
Di quanti fior creasse mai natura
Di tanti era dipinta la sua vesta.
E come in prima al giovin pose cura
Alquanto paurosa alzò la testa:
Poi con la bianca man ripreso il lembo
Levossi in piè con di fior pieno un grembo.
Nanna ascoltava, senza capire una parola, e apriva la bocca per dire... per
dire... lo disse infine:
«Li ho sentiti altra volta».
«Da chi?», gridò Anania.
«...Da Efes Cau!»
«Non dire bugie; raccontami piuttosto tutto ciò che è accaduto a Nuoro durante
quest'anno.»
Nanna cominciò, ritornando ogni tanto a Margherita. Ella era la rosa delle rose
il garofano, il confetto. E i suoi vestiti! Oh, Dio non se n'erano visti mai di
più meravigliosi: quando ella passava la gente la guardava come si guarda una
stella filante. Un signore aveva incaricato lei, Nanna, di rubare il laccio
della scarpa di Margherita; la serva della famiglia Carboni diceva che tutte le
mattine la sua padroncina trovava sulla finestra lettere d'amore legate con nastrini
azzurri...
«Ma la rosa è una sola e non può unirsi che al garofano... Ebbene, dammi qui la
chicchera... ah!», concluse l'ubriacona, dandosi un pugno sulla bocca. «È
inutile, perdio! io ho visto la Vossignoria quando aveva la coda ed ora non
posso abituarmi a darle del lei...»
«Ma quando è che io avevo la coda?», gridò Anania minaccioso.
La donna scappò, tentennando, ridendo, turandosi la bocca; e dal cortile disse,
rivolta alla finestra di Anania:
«La coda della camicia...».
Egli continuò a minacciarla; ella continuò a barcollare ed a ridere. Il
porchetto, slegatosi, andò a fiutarle i piedi; una gallina saltò sul collo del
porchetto, piluccandogli le orecchie; un passero si posò sul sambuco,
dondolandosi elegantemente sull'estremità d'una fronda.
E lo studente si sentì così felice che si mise a cantare altri versi del
Poliziano:
Portate, venti, questi dolci versi
Dentro all'orecchio della Ninfa mia...
E gli sembrava di essere agile e leggero come il passero sull'estremità
della fronda. Più tardi andò nell'orto, dove poté consegnare alla serva di
Margherita la lettera già preparata.
L'orto ancora umido per la pioggia notturna esalava un forte odore di terra
bagnata e di vegetazione secca. I bruchi avevano ridotto i cavoli a mazzi di
strani merletti grigiastri; le altee, filogranate di bocciuoli e adorne di
fiori violacei senza stelo, tagliavano lo sfondo azzurro del cielo coi loro
disegni bizzarri. Sull'orizzonte perlato le montagne sorgevano vaporose, coi
picchi più lontani immersi in nuvole d'oro. In un angolo dell'orto Anania trovò
Efes Cau ubriaco, invecchiato, ridotto ad un mucchio di stracci, e lo toccò col
piede: l'infelice sollevò il volto, che pareva una maschera di cera affumicata,
aprì un occhio vitreo e mormorò il suo verso favorito:
Quando Amelia sì pura e sì candida;
poi ricadde, senza aver riconosciuto lo studente. Più in là zio Pera, cieco
del tutto, si ostinava ad estirpare le male erbe, che riconosceva al tatto e
all'odore.
«Come state?», gridò Anania.
«Sono morto, figlio mio», rispose il vecchio. «Non vedo più. Non sento più.»
«Coraggio, guarirete...»
«Nell'altro mondo, nel mondo della verità, dove tutti guariremo, dove tutti
vedremo e sentiremo; ah, figlio mio, non importa, quando io vedevo con gli
occhi del corpo la mia anima era cieca; adesso invece io vedo, vedo con
gli occhi dell'anima. Ma raccontami: hai veduto il papa?»
Uscito dall'orto Anania girovagò per il vicinato: sì, quel cantuccio di mondo
era sempre lo stesso; ancora il pazzo, seduto sulle pietre addossate ai muri
cadenti, aspettava il passaggio di Gesù Cristo, e la mendicante guardava di
sbieco la porta di Rebecca, sul cui limitare la misera creatura tremava di
febbre e fasciava le sue piaghe; e maestro Pane fra le sue ragnatele segava le
tavole e parlava fra sé ad alta voce, e nella bettola la bella Agata civettava
coi giovani e coi vecchi, ed Antonino e Bustianeddu si ubriacavano e di tanto
in tanto scomparivano per qualche mese e ricomparivano con volti un po'
sbiancati dal servizio del re.23 E zia Tatàna preparava ancora i dolci
per il suo diletto «ragazzino», sognando il giorno della sua laurea e già
numerando col desiderio i presenti che amici e parenti gli avrebbero
inviato; ed Anania grande, nei giorni di riposo, ricamava una cintura di
cuoio, seduto in mezzo alla strada, e pensava ai tesori nascosti nei nuraghes.
No, niente era cambiato; ma lo studente vedeva le cose e gli uomini come ancora
non li aveva veduti, e tutto gli sembrava bello, d'una bellezza triste e
selvaggia. Passava e guardava come uno straniero; e nel quadro di quei tuguri
neri e cadenti, in mezzo a quelle figure semplici primitive, gli sembrava di
essere un gigante di passaggio. Sì, gigante ed uccello: gigante per la sua
superiorità, uccello per la sua gioia.
Agli ultimi di agosto, dopo vari convegni, Margherita permise che Anania
rivelasse il loro amore al signor Carboni.
«Dunque posso sperare!», egli esclamò colpito, quasi avesse fino a quel momento
disperato. «È proprio vero? Sarà vero?»
«Ma siiì!», ella disse, vezzeggiando, accarezzandogli i capelli con affetto
quasi materno.
Egli la strinse a sé, chiuse gli occhi, nascose il viso sull'omero di lei,
concentrandosi per vedere tutta l'immensità della sua fortuna. Era mai
possibile? Margherita sarebbe diventata sua? Sua davvero? Sua nella realtà come
lo era sempre stata nel sogno? Ricordò il tempo in cui egli non osava
confessare il suo amore neppure a se stesso: ed ora?
«Quante cose succedono nel mondo!», cominciò a pensare. «Ma che cosa è il
mondo? Che cosa è la realtà? Dove finisce il sogno e dove comincia la realtà? E
non può essere tutto sogno? Chi è Margherita? Chi sono io? Siamo vivi? E che
cosa è la vita? Che cosa è questa gioia misteriosa che mi solleva tutto, come
la luna solleva le onde? E il mare che cosa è? Sente il mare? È vivo? E la
luna che cosa è? Ed è vero tutto questo?»
Sollevò la testa e sorrise delle sue domande. La luna illuminava il cortile, e
nella notte diafana il canto tremulo dei grilli faceva pensare ad un popolo di
folletti minuscoli, ciascuno dei quali suonasse un violino scordato,
accompagnando con quel motivo monotono il mormorio delle foglie umide di
rugiada.
Tutto era sogno e tutto era realtà. Anania credeva di vedere i folletti
suonatori e nello stesso tempo scorgeva distintamente la camicetta rosea, la
catenella e gli anellini di Margherita. Le strinse il polso, premé un dito
sulla perla di uno dei suoi anelli, le guardò le unghie, distinguendone le
macchiette bianche: sì, tutto era vero, visibile, tangibile. La realtà ed il
sogno non avevano confine: tutto si poteva vedere, toccare, raggiungere, dal
sogno più folle all'oggetto meno visibile...
In quel momento pareva ad Anania che, come toccava l'anellino di Margherita,
avrebbe potuto, stendendo il braccio, sfiorare la luna o stringere nel pugno il
canto dei grilli...
Ma poche parole pronunziate da Margherita gli segnarono nuovamente i confini
tra il sogno e la realtà.
«Cosa dirai a mio padre?», ella chiese, sempre un po' canzonandolo. «Dimmi
dunque che cosa gli dirai. «Signor padrino... io... e... e sua figlia... sua
figlia Margherita... fa... facciamo una... una cosa...»
Egli arrossì: capì che non avrebbe mai avuto il coraggio di presentarsi al
padrino per rivelargli il suo amore.
«Io non potrò mai...», confessò subito. «Gli scriverò.»
«Oh, questo poi no!», disse Margherita, facendosi seria. «Bisogna assolutamente
parlargli: egli si piegherà di più. Se non puoi tu, mandagli qualcuno.»
«Ma chi?»
Margherita disse timidamente:
«Tua madre».
Egli capì che ella alludeva a zia Tatàna, ma il suo pensiero corse all'altra
e gli parve che anche Margherita ci pensasse. L'ombra lo riavvolse: ah, sì, la
realtà ed il sogno erano ben divisi da terribili confini: un vuoto, eguale a
quello che divide la terra dal sole, li separava.
«Tuttavia...», egli pensò, «se potessi in questo momento parlare! Questo è
l'attimo: se me lo lascio sfuggire forse non lo ritroverò mai più. Il vuoto si
può varcare...»
Aprì le labbra. Sentì il cuore battergli forte, ma non poté parlare: l'attimo
passò.
Qualche sera dopo zia Tatàna, molto sbalordita, ma altrettanto orgogliosa, e
fiduciosa nell'aiuto del Signore, dopo aver lungamente pregato e fatta la
salita trascinandosi ginocchioni dalla porta all'altare della chiesa del
Rosario, fece la sua ambasciata.
Anania rimase a casa, aspettando con ansia il ritorno della vecchia. Per un bel
po' stette sdraiato sul letticciuolo, leggendo un libro di cui non ricordava
assolutamente il titolo.
«Ma io sono tranquillo!» pensava. «Che posso temere? La cosa è più che
sicura...»
Intanto leggeva, senza capire una sillaba, e il suo pensiero seguiva la
vecchia.
«Zia Tatàna cammina lentamente, tutta compresa dalla solennità della sua
missione. Ha anche un po' di paura, la buona vecchia colomba candida e soave;
ma, pazienza! Con l'aiuto del Signore e di Santa Caterina e di Maria Santissima
del Rosario qualche cosa si farà... Per l'occasione ella ha indossato le sue
vesti più belle; la tunica orlata da tre nastrini, - verde-bianco-verde
- il corsetto di broccato verdolino, la cintura d'argento, il grembiule
ricamato, la benda tinta con lo zafferano. E non ha dimenticato gli anelli, no;
i grandi anelli preistorici, ornati di cammei, di pietre gialle e verdi, di
cornìole incise. Così, grave e adorna, simile ad una vecchia madonna, ella si
avanza lentamente, salutando con solenne compostezza le persone che incontra.
Cade la sera; l'ora sacra a queste gravi missioni d'amore. Al cader della sera
la paraninfa è sicura di trovare a casa il capo della famiglia al quale reca il
messaggio arcano.»
«Zia Tatàna va... va sempre più grave e lenta... Pare che abbia paura di
arrivare; e giunta al fatale limite, davanti al portone chiuso, silenzioso e
scuro come la porta del destino, esita un momento, si accomoda gli anelli, il
nastro del grembiule, la cintura; cinge il mento col lembo della benda, e
infine si decide e batte al portone...»
Parve ad Anania che quel colpo si ripercotesse sul suo petto. Balzò in piedi,
sollevò la candela e si guardò nello specchio.
«L'ho detto io! Sono pallido. Guarda che stupido! Ebbene, non voglio pensarci
più...»
S'affacciò alla finestra. Nel cortile chiuso, illuminato dall'ultimo barlume
del giorno, il sambuco immobile disegnava una macchia scura. Silenzio perfetto.
Le galline dormivano già, ed anche il porchetto dormiva. Le stelle scaturivano,
scintille d'oro, fra la cenere azzurrognola del caldo crepuscolo. Al di là del
cortile, nella straducola, passava un piccolo mandriano a cavallo, cantando in
dialetto:
Inoche mi fachet die
Cantende a parma dorata...
Anania pensò alla sua infanzia, alla vedova, a Zuanne. Che faceva il
fraticello sul suo alto convento?
«E dire che voleva diventare un bandito! Sarei curioso di vederlo! Lo vedrò.
Entro questo mese mi recherò certamente a Fonni.»
Ah! D'un colpo il suo pensiero tornò là, dove si decideva il suo destino. «La
vecchia colomba è nello studio semplice e ordinato del signor Carboni. Ecco,
quella è la scrivania dove una sera lo studente ha frugato e... Oh, Dio, è mai
possibile che egli abbia commesso una così vile azione? Sì, quando si è ragazzi
non sì è coscienti; tutto è facile, tutto è possibile. Come siamo pazzi, da
fanciulli! Potremmo anche commettere un delitto con la massima incoscienza!
Basta; zia Tatàna è là. Ed anche il signor Carboni è là, grasso, tranquillo,
con la catena d'oro scintillante attraverso il petto.»
«Ma che cosa dunque dice quella vecchietta?», pensò Anania, sorridendo
nervosamente. «Sarei curioso di vedere come se la cava. S'io potessi esser là,
non veduto! Se avessi l'anello che rende invisibili; ecco, lo infilerei al dito
e... via... subito là... Ma se il portone fosse chiuso, come farei? Ebbene,
picchierei, diamine! Mariedda aprirebbe, stizzita contro i ragazzi che
picchiano al portone e scappano. Io... Ma come sono pazzo a pensar queste cose
puerili! Uff! non voglio pensarci più!...»
Si tolse dalla finestra, prese la candela, scese in cucina, andò a sedersi
davanti al focolare acceso. Ma d'un tratto ricordò che era d'estate e si mise a
ridere: poi guardò a lungo il gattino rosso che stava davanti al forno,
immobile e pronto, coi baffi irti e la coda tesa, aspettando il passaggio di un
topo.
«No», disse Anania, pensando allo strazio del topolino, «per stasera non te lo
lascio prendere: neppure un topolino, deve stasera soffrire in questa casa.
Usciu, usssciuu!24 gridò balzando in piedi e correndo verso il gattino
che vibrò tutto e saltò sopra il forno.
Sempre agitato da una inquietudine nervosa, Anania si mise a camminare su e giù
per la cucina; di tanto in tanto palpava i sacchi ricolmi d'orzo e mormorava:
«Mio padre non è poi tanto povero; egli è un mezzadro del signor Carboni, non
il suo servo. No, egli non è povero; ma non potrebbe certo restituire quello...
che spendo io, se non avvenisse ciò che... deve avvenire. Ma avverrà poi? Che
cosa si combina in questo momento?
Ecco, zia Tatàna ha parlato... Che ha detto? Ah, no, no, no, non bisogna
neppure pensarci... Bisogna piuttosto pensare alla risposta che darà, che dà,
il benefattore... Che dirà egli, l'uomo più leale del mondo, sapendo che il suo
protetto ha osato tradire così la sua buona fede? Ecco, egli cammina pensieroso
attraverso la stanza: zia Tatàna lo guarda, pallida, oppressa...».
«Dio, Dio, che accade mai?», gemé Anania, stringendosi il capo fra le mani. Gli
pareva di soffocare; uscì nel cortile, si sporse sul muricciuolo di cinta, attese,
ascoltò... Niente, niente.
Solo, dopo un quarto d'ora circa, due voci risuonarono dietro il muricciuolo;
poi una terza, una quarta: erano i vicini che si riunivano così ogni notte
davanti alla bottega di maestro Pane, per godersi il fresco e chiacchierare.
«Nostra Signora mia», diceva la voce stridula di Rebecca, «ho visto cinque
stelle cadere sul cielo. Ah, ciò non è invano... Deve succedere qualche
disastro...»
«Che tu stii per mettere al mondo l'anticristo?», chiese la voce ironica di un
contadino. «Dicono che deve nascere da un animale.»
«L'anticristo lo metterà al mondo tua moglie, animale schifoso!», rispose
adirata la ragazza.
«Prenditi questa, garofano!», disse la bella Agata che mangiava rideva e
parlava nello stesso tempo.
Il contadino cominciò a dire parole insolenti; il vecchio falegname s'irritò e
gridò:
«Se non la finisci ti butto un sasso, faina pelata».
Ma il contadino proseguì nella sua bella impresa: allora le donne si
allontanarono e andarono a sedersi sotto il muricciuolo del cortile, e zia
Sorichedda - una vecchietta che quaranta anni prima era stata serva in casa
dell'Intendente, - cominciò a raccontare per la millesima volta la storia della
sua padrona.
«Era una marchesa. Suo padre era amico intimo del re di Spagna, e le aveva dato
in dote mille scudi in oro. Quanto fanno mille scudi?»
«E cosa sono mille scudi?», disse Agata con disprezzo. «Margherita Carboni ne
ha quattro mila...»
«No», osservò Rebecca, «altro che quattro mila! Quaranta mila».
«Voi non sapete quel che dite!», gridò zia Sorichedda. «Mille scudi in oro non
li possiede neppure don Franceschino.»
«E andate! Siete rimbambita!», gridò Agata, accalorandosi. «Che cosa contano
mille scudi? Se li ha Franziscu Carchide in suole di scarpe!»
La questione diventò seria; le donne cominciarono a ingiuriarsi:
«Lo sai tu perché vanti il tuo Franziscu Carchide, questa immondezza
rifatta!...».
«Immondezza siete voi, vecchia peccatrice.»
«Ah!»
Foglia di gelso,
Chi la fa la pensa...
Anania ascoltava, e ad un tratto, nonostante l'inquietudine che lo agitava,
scoppiò a ridere.
«Oh», gridò Agata, affacciandosi al muricciuolo, «buona notte alla Vossignoria.
Che cosa fai lì al buio, pipistrello? Fa vedere il tuo bel viso».
«Prego!» egli rispose, avvicinandosi e pizzicandola al braccio, mentre Rebecca,
che all'udire la risata del giovane s'era accoccolata per terra, quasi volendo
nascondersi, pizzicava Agata alla gamba.
«Al diavolo chi vi ha formati!», imprecò la bella ragazza. «Questo è un po'
troppo! Lasciatemi o... svelo!»
Ma i due la pizzicarono più forte.
«Ahi! ahi! Al diavolo! Rebecca, è inutile che tu faccia la gelosa... ahi! zia
Tatàna stasera... è andata a chiedere... parlo o no? Ah!...»
Anania si ritrasse, chiedendosi come mai la indiavolata Agata sapeva...
«Cuoricino mio, un'altra volta rispetta zia Agata!», ella disse sogghignando,
mentre Rebecca, che aveva capito, taceva, impietrita, e zia Sorichedda
domandava:
«Fammi il piacere, Nania Atonzu, dimmi, chi a Nuoro può avere mille scudi in
oro?».
Anche il contadino s'avvicinò e chiese:
«Dimmi, Nania, è vero che il papa ha settantasette donne ai suoi comandi?...».
Anania non rispose, forse non intese neppure: vedeva una figura avanzarsi dal
fondo della straducola e si sentiva venir meno. Era lei, la vecchia colomba
messaggera, era lei che tornava portando fra le pure labbra, come un fiore di
vita o di morte, la parola fatale.
Egli si ritirò e chiuse la porticina che dava sul cortile, mentre zia Tatàna
rientrava dall'altra parte e chiudeva la porta di strada. Ella sospirava ed era
ancora un po' pallida e oppressa; s'avvicinò al focolare, e i suoi primitivi
gioielli, i suoi ricami, la cintura, gli anelli, scintillarono al riflesso del
fuoco.
Anania le corse incontro e la guardò ansioso, e siccome ella taceva le domandò
con impazienza:
«Che cosa vi hanno detto?».
«Pazienza, figlio del Signore! Ora ti dirò...»
«No, Dite subito. Mi vogliono?»
«Sì! Ti vogliono, sì, ti vogliono!», annunziò la vecchia, aprendo le braccia.
Egli sedette, sbalordito, e si prese la testa fra le mani: zia Tatàna lo guardò
e scosse la testa, mentre con le mani un po' tremule si slacciava la cintura.
«Mi vogliono! Mi vogliono! È mai possibile?», ripeteva fra sé Anania.
Davanti al forno il gattino aspetta ancora il passaggio del topo, e deve già sentire qualche rumore perché la sua coda freme: infatti, dopo un momento, Anania sente uno stridio, un piccolo grido di morte. Ma adesso la sua felicità è così completa che egli non ricorda più che nel mondo esiste il dolore.
La relazione particolareggiata di zia Tatàna gettò un po' d'acqua fredda su
quel grande incendio di gioia.
La famiglia di Margherita non si opponeva all'amore dei due giovani, ma,
naturalmente, non dava ancora un consentimento pieno, irrevocabile. Il
«padrino» aveva sorriso, aveva battuto le mani e scosso la testa come per dire:
«me l'hanno fatta quei due!». Aveva anche detto: «Fanno presto a metter le ali
questi ragazzi!», ma poi era diventato serio e pensieroso.
«Ma, infine, che avete concluso?», gridò Anania, facendosi anch'egli serio e
pensieroso.
«Che bisogna aspettare, Santa Caterina bella! Non hai ancora capito? Ma la
padrona disse: «Bisognerebbe interrogare anche Margherita». «Eh, credo proprio
che non occorra», rispose il padrino, battendo le mani. Io sorrisi.»
Anche Anania sorrise.
«Abbiamo dunque concluso... Va via, gatto!», gridò zia Tatàna, tirando il lembo
della tunica, sul quale il gattino s'era comodamente adagiato leccandosi i
baffi con orribile soddisfazione. «Abbiamo concluso che bisogna aspettare. Il
padrone mi disse: «Che il 'fanciullo' pensi a studiare ed a farsi onore. Quando
egli avrà un posto onorevole noi gli daremo la nostra figliuola: intanto si
amino pure, e che Dio li benedica». Ecco, tu ora cenerai, spero!»
«Ma, infine, posso presentarmi in casa loro come fidanzato?»
«Per adesso no: per quest'anno no! Tu corri troppo, galanu meu! La gente
direbbe che il signor Carboni è rimbambito, se permettesse una tal cosa:
bisogna che tu prenda la laurea, prima...»
«Ah», gridò Anania, adirandosi, «è dunque meglio...» Stava per dire: «è dunque
meglio che ci vediamo di notte, di nascosto, per non urtare la falsa
suscettibilità della gente?»; ma subito pensò che vedersi di notte, di nascosto
da soli, era forse meglio che vedersi di giorno e alla presenza dei genitori, e
si calmò completamente. Peggio per loro, dunque!
Per consolarsi ricominciò le visite la notte stessa: la fantesca, appena
socchiuse il portone gli augurò la «buona fortuna» come se le nozze fossero già
celebrate, ed egli le diede la mancia e attese trepidando la sposa. Essa venne,
cauta e silenziosa, profumata d'ireos, con un abito chiaro biancheggiante nella
notte diafana. Si abbracciarono a lungo, silenziosi, vibrando assieme, ebbri di
gioia: il mondo era loro.
Per la prima volta Margherita, ormai sicura di potersi abbandonare senza paure
né rimorsi all'amore del bel giovane che impazziva per lei, si mostrò
appassionata e ardente, quale Anania non osava sognarla: ed egli uscì dal
convegno barcollando, cieco, fuori di sé.
La notte appresso, il convegno fu ancora più lungo, più delirante. La terza
notte la serva, che vigilava nella cucina, forse stanca di vegliare, fece il
segno convenuto in caso di sorpresa e gl'innamorati si lasciarono
alquanto spaventati.
L'indomani Margherita scrisse: «Ho paura che ieri notte il babbo si sia accorto
di qualche cosa. Badiamo di non comprometterci, ora appunto che siamo tanto
felici: è bene, quindi, che per qualche giorno non ci vediamo. Abbi pazienza, e
sii anzi coraggioso come lo sono io, che faccio un enorme sacrifizio
rinunziando, per qualche tempo, alla immensa felicità di vederti: mi pare di
morire, perché ti amo ardentemente, perché mi sembra di non poter più vivere
senza i tuoi baci, ecc., ecc.».
Egli rispose: «Adorata mia, tu hai ragione: tu sei una santa, per bontà e per
saviezza, mentre io non sono che un pazzo, pazzo d'amore per te. Non so, non
vedo più quel che faccio. Ieri notte potevo compromettere tutto il nostro
avvenire e non me ne accorgevo neppure. Perdonami: quando sono vicino a te perdo
la ragione. Ho la febbre; mi consumo tutto, mi pare che entro di me arda un
fuoco distruttore. Rinunzio con spasimo alla suprema felicità di vederti per
qualche sera; e siccome ho bisogno di moto, di svago, di un po' di lontananza,
per attutire alquanto questo fuoco che mi divora e mi rende incosciente e
malato, penso di fare un'escursione sul Gennargentu. Tu vuoi, non è vero?
Rispondimi subito, cara, adorata, mio spasimo e mia gioia. Ti porterò sul
cuore: dalla più alta cima sarda ti manderò un saluto, griderò ai cieli il tuo
nome e il mio amore, come vorrei gridarlo dalla più eccelsa cima del mondo
affinché tutta la terra ne restasse attonita. Ti abbraccio, ti porto con me,
unita a me, per tutta l'eternità».
Margherita diede graziosamente il suo permesso.
Altra lettera di Anania: «Parto domani mattina con la corriera per
Mamojada-Fonni. Passerò sotto la tua finestra alle nove. Vorrei vederti
stanotte... ma voglio essere prudente. Vieni, vieni con me, Margherita, adorata
mia, non lasciarmi un solo istante, vieni qui, sul mio cuore, ardi del mio
fuoco d'amore, fammi morire di passione».