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La corriera attraversava le tancas selvaggie, gialle di stoppie e di
sole ardente, qua e là ombreggiate da macchie di olivastri e di querciuoli.
Anania, seduto in serpe, a fianco del vetturale che scuoteva la frusta
(entro la vettura si soffocava dal caldo), dimenticava le impressioni febbrili
dei giorni scorsi per rivivere in un giorno lontano. Rivedeva il carrozziere
dai baffi gialli e dalle guancie gonfie; ed a misura che la corriera si
avvicinava a Mamojada, la suggestione dei ricordi diventava quasi dolorosa.
Nell'arco del mantice si disegnava lo stesso paesaggio che egli aveva
intraveduto quel giorno, mentre abbandonava la testolina sulle ginocchia
di lei, e stendevasi lo stesso cielo di un azzurro chiaro melanconico.
Ecco la cantoniera: nel paesaggio, a linee forti, ondulato, verde di macchie
selvaggie, s'intravede qua e là qualche filo d'acqua violacea; s'odono fischi
d'uccelli palustri; un pastore, bronzeo su uno sfondo luminoso, guarda
l'orizzonte.
La corriera si fermò un momento davanti alla cantoniera. Seduta sul gradino
della porta, una donna in costume tonarese, tutta fasciata nelle ruvide vesti
come una mummia egiziana, scardassava un mucchio di lana nera con due pettini
di ferro: poco distante tre bimbi laceri e sporchi giocavano, o meglio si
accapigliavano fra loro. Ad una finestra apparve un viso scarno e giallo di
donna ammalata, che guardò la vettura con due grandi occhi verdognoli, pieni di
stupore. La cantoniera desolata pareva l'abitazione della fame, della malattia
e del sudiciume. Anania si sentì stringere il cuore: egli conosceva
perfettamente il dramma tristissimo svoltosi ventitré anni prima in quel luogo
solitario, in quel paesaggio rude e fresco, che sarebbe stato così puro senza
l'immondo passaggio dell'uomo.
La corriera riprese il viaggio: ecco Mamojada, emergente tra il verde degli
orti e dei noci, col campanile chiaro disegnato sull'azzurro tenero del cielo;
da lontano il quadretto aveva le tinte delicate d'un acquerello, ma appena la
corriera si inoltrò su per lo stradale polveroso, il profilo del paesetto prese
tinte cupe, ancor più forti di quelle del paesaggio. Davanti alle casette nere
costrutte sulla roccia s'aggruppavano caratteristiche figure di paesani: donne
graziose, coi capelli lucenti attortigliati intorno alle orecchie, scalze,
sedute per terra, cucivano, allattavano, ricamavano. Due carabinieri, uno
studente annoiato, un vecchio nobile, che era anche contadino, chiacchieravano
davanti alla bottega d'un falegname, intorno alla cui porta stavano appesi
molti quadretti sacri dipinti a vivi colori.
Dopo mezz'ora di fermata la corriera ripartì.
Ecco le rovine della chiesetta, ecco gli orti, ecco la piantagione di patate
dove l'altra volta Olì ed Anania si erano fermati.
Egli ricordò la donna che zappava, con le sottane cucite fra le gambe, e il
gatto bianco che si slanciava contro la lucertolina verde guizzante sul muro.
Nell'arco del mantice i paesaggi si disegnavano sempre più freschi, con sfondi
luminosi: la piramide grigiastra di monte Gonare, le linee cerule e argentee
della catena del Gennargentu apparivano come incise sul metallo del cielo,
sempre più vicine, sempre più maestose. Ah, sì: ora davvero Anania respirava
l'aria natìa, e sentiva tutti gli istinti atavici..
«Vorrei balzare giù dalla vettura, correre su per le chine, fra l'erba ancora
fresca, tra le macchie e le roccie, gridando di gioia selvaggia, imitando il
puledro sfuggito al laccio e ritornato alla libertà delle tancas. Sì»,
egli pensava, mentre la corriera rallentava la corsa su per la strada in
salita, «io ero nato per fare il pastore. Sarei stato un poeta, forse un
delinquente, forse un bandito fantasioso e feroce. Oh, contemplare le nuvole
dall'alto d'un monte! Figurarsi d'essere il pastore d'una torma di nuvole:
vederle errare sul cielo argenteo, incalzarsi, svolgersi, passare, scomparire!»
Poi pensò: «E non sono un pastore di nuvole? Fra le nuvole ed i miei pensieri
che differenza c'è? Ed io stesso non sono una nuvola? Se fossi costretto a
vivere in queste solitudini mi dissolverei, diventerei una stessa cosa con
l'aria, col vento, con la tristezza del paesaggio. Sono io vivo? Che cosa è,
dopo tutto, la vita?».
Come sempre, egli non seppe rispondere alla sua domanda: la corriera saliva
lentamente, sempre più lentamente, con moto dolce, quasi cadenzato; il
cocchiere sonnecchiava, e pareva che anche il cavallo camminasse dormendo. Dal
sole alto verso lo zenit calava uno splendore eguale, melanconico; le macchie
ritiravano le loro ombre; un silenzio profondo e una sonnolenza ardente
pervadevano l'immenso paesaggio. Ad Anania pareva in realtà di dissolversi, di
diventare una stessa cosa con quel panorama sonnolento, con quel cielo luminoso
e triste. Ecco, egli aveva sonno; e come l'altra volta finì col chiudere
gli occhi e addormentarsi infantilmente.
«Zia Grathia? Nonna!»,25 chiamò con voce ancora assonnata, entrando
nella casetta della vedova.
La cucina era deserta: la straducola soleggiata; deserto tutto il villaggio che
nella desolazione del meriggi pareva una stazione preistorica da secoli
abbandonata.
Anania guardò curiosamente intorno. Nulla era cambiato: miseria, stracci,
fuliggine, un po' di cenere sul focolare, grandi tele di ragno fra le scheggie
del tetto; e, imperatore truce di quel luogo di leggende, il lungo e vuoto
fantasma del gabbano nero appeso al muro terreo.
«Zia Grathia, dove siete?», gridò Anania, aggirandosi intorno. «Zia Grathia?»
Finalmente la vedova, ch'era andata ad attingere acqua ad un pozzo vicino,
rientrò, con un malune26 sul capo e la secchia in mano. Era sempre la
stessa, stecchita, giallastra, col viso spettrale circondato da una benda di
tela sporca: gli anni erano passati senza invecchiare oltre quel corpo già
disseccato ed esaurito dalle emozioni della lontana giovinezza.
Nel vederla Anania si turbò: un fiotto di ricordanze gli salì dalle profondità
dell'anima; gli parve di ricordare tutta una esistenza anteriore, di rivedere
uno spirito che aveva già albergato nel suo corpo prima dello spirito che lo
animava al presente.
«Bonas dies!», salutò la vedova, guardando meravigliata il bel giovine
sconosciuto. E depose prima la secchia, poi il malune, lentamente,
guardando sempre lo straniero. Ma appena egli sorrise chiedendole: «Ma non mi
riconoscete dunque?», zia Grathia diede un grido ed aprì le braccia: Anania
l'abbracciò, la baciò, la investì di domande.
E Zuanne? Dov'era? Perché si era fatto monaco? Veniva a trovarla? Era felice? E
il figlio maggiore? E i figli del fabbricante di ceri? E questo e quell'altro?
E come era trascorsa la vita a Fonni durante quei quindici anni? E chi era il
pretore? E si poteva l'indomani far la gita sul Gennargentu?
«Figlio mio caro!», cominciò la vedova, dandosi attorno. «Ah, come trovi la mia
casa! Nuda e triste come un nido abbandonato! Siediti dunque, lavati; ecco
l'acqua pura e fresca, vero argento puro; lavati, bevi, riposati. Io ora ti
preparerò un boccone: ah, non rifiutare, figlio delle mie viscere; non
rifiutare, non umiliarmi. Per cibarti io vorrei darti il mio cuore; ma tu
accetta quel che posso offrirti; ecco, asciugati, ora, anima mia! Come sei
grande e bello! Dicono che tu debba sposare una ricca e bella fanciulla: ah,
non è stata stupida quella fanciulla. Ma perché non mi hai tu scritto prima di
venire? Ah, figlio caro, tu almeno non hai dimenticato la vecchia abbandonata!»
«Ma Zuanne, Zuanne?», insisteva Anania, lavandosi con l'acqua freschissima
della secchia.
La vedova diventò cupa. Disse:
«Ebbene, non parlarmene! Egli mi ha fatto tanto soffrire! Era meglio che...
egli avesse seguito l'esempio del padre... Ebbene, no, non parliamone. Egli non
è un uomo; sarà un santo, come dicono, ma non è un uomo! Se mio marito
sollevasse il capo dalla tomba e vedesse suo figlio scalzo, col cordone, con la
bisaccia, frate mendicante e stupido, che direbbe mai? Ah, lo fustigherebbe, in
verità».
«Dove si trova ora frate Zuanne?»
«In un convento lontano; sulla cima d'un monte. Almeno fosse rimasto nel
convento di Fonni! ma no, è destino che tutti debbano abbandonarmi; anche
Fidele, l'altro figliuolo, ha preso moglie e raramente si ricorda di me: il
nido è deserto, abbandonato; la vecchia aquila ha veduto volar via i suoi
poveri aquilotti e morrà sola... sola...»
«Venite a viver con me!», disse Anania. «Quando sarò dottore vi prenderò con
me, nonna.»
«In che potrei servirti? Almeno un tempo ti lavavo gli occhi e ti tagliavo le
unghie; ora invece tu dovresti fare altrettanto a me...»
«Mi raccontereste delle storie... a me ed ai miei bambini...»
«Anche le storie non so più raccontarle, adesso. Sono rimbambita del tutto: il
tempo, vedi, il tempo s'è portato via il mio cervello come il vento porta via
la neve dai monti. Ebbene, ragazzino mio, mangia; non ho altro da offrirti,
accetta di buon cuore. Oh, questo cero, è tuo? Dove lo porterai?»
«Alla Basilica, nonna, davanti all'immagine dei santi Proto e Gianuario. Viene
di lontano, nonna; me lo diede una vecchia donna sarda che vive a Roma:
anch'essa mi narrava delle storie, ma non belle come le vostre.»
«Vive a Roma? E come fece ad andarci? Ah, io morrò senza aver veduto Roma!...»
Dopo il modestissimo pasto, Anania cercò la guida, con la quale combinò per
l'indomani l'ascensione sul Gennargentu: poi si avviò alla Basilica.
Nell'antico cortile, sotto i grandi alberi, susurranti, sui gradini corrosi,
nelle loggie rovinate, entro la chiesa odorante d'umido come una tomba, da per
tutto silenzio e desolazione. Anania depose il cero di zia Varvara sopra un
altare polveroso, poi guardò i primitivi affreschi delle pareti, gli stucchi
dorati da una luce melanconica, le rozze figure dei santi sardi, tutte le cose
infine che un tempo gli avevano destato meraviglia e terrore, e sorrise, ma col
cuore oppresso da una languida tristezza. Ritornato nel cortile vide,
attraverso una finestra aperta, il cappello d'un carabiniere e un paio di
stivali appesi al muro d'una cella, e nella memoria gli risuonò ancora l'aria
della Gioconda: «A te questo rosario».
L'odor della cera vagava nel cortile solitario; dov'erano i bimbi, compagni
d'infanzia, gli uccelletti seminudi e selvatici, che un tempo animavano i
gradini della chiesa? Anania non desiderava di rivederli; ma con quanta
dolcezza ricordava i giuochi fatti con loro, mentre dagli alberi le foglie
secche cadevano come ali d'uccelli morti!
Una donna scalza, con un'anfora sul capo, passò in fondo al cortile. Anania
trasalì, sembrandogli di riconoscere sua madre. Dove era sua madre? Perché egli
non aveva osato, pur desiderandolo, parlarne alla vedova, - e perché questa non
aveva accennato alla sua ingrata ospite? Per sfuggire ai ricordi amari egli
andò alla posta e inviò una cartolina illustrata a Margherita; poi visitò il
Rettore, e verso il tramonto percorse la strada che guardava sulla immensità
delle valli. Vedendo le donne fonnesi che andavano alla fontana, strette nelle tuniche
bizzarre, egli ripensò ai suoi primi sogni di amore, quando desiderava d'esser
lui un mandriano e Margherita una paesana, fine ed elegante sebbene con
l'anfora sul capo, simile alla figurina d'uno stucco pompejano. Come il passato
era lontano e come diverso dal presente!
Un tramonto meraviglioso illuminava l'orizzonte: pareva un miraggio
apocalittico. Le nuvole disegnavano un paesaggio tragico; una pianura ardente
solcata da laghi d'oro e da fiumi porpurei, e sul cui sfondo sorgevano montagne
di bronzo profilate d'ambra e di neve perlata, qua e là squarciate da aperture
fiammanti che sembravano bocche di grotte e dalle quali sgorgavano torrenti di
sangue dorato. Una battaglia di giganti solari, di formidabili abitanti
dell'infinito, si svolgeva entro quelle grotte aeree: balenava il corruscare
delle armi intagliate nel metallo del sole, ed il sangue sgorgava a torrenti,
inondando le infuocate pianure del cielo.
Col cuore balzante di gioia Anania rimase assorto nella contemplazione del
magnifico spettacolo, finché le ombre della sera, fugato il miraggio, stesero
un drappo violaceo su tutte le cose: allora egli rientrò nella casa della
vedova e sedette accanto al focolare.
I ricordi lo riassalirono. Nella penombra, mentre la vecchia preparava la cena
e parlava con voce tetra, egli rivedeva Zuanne dalle grandi orecchie, intento a
cuocer le castagne, ed un'altra figura silenziosa e incerta come un fantasma.
«Dunque hanno ammazzato tutti i banditi nuoresi?», chiedeva la vecchia. «Ma
credi tu che passerà lungo tempo prima che nuove compagnie sorgano qua e
là? Tu ti inganni, figlio mio. Finché vivranno uomini dal sangue ardente, abili
al bene ed al male, esisteranno banditi. È vero che ora essi sono così cattivi,
talvolta vili, ladroni e spregevoli! Ah, ai tempi di mio marito era altra cosa,
sai! Come erano coraggiosi allora! Coraggiosi e benefici. Una volta mio marito
incontrò una donna che piangeva perché...»
Anania s'interessava mediocremente ai ricordi di zia Grathia: altri pensieri
gli passavano per la mente.
«Sentite», egli disse, appena la vedova ebbe finito la pietosa storia della
donna che piangeva, «non avete saputo mai nulla di mia madre?»
Zia Grathia era intenta a rivoltare una piccola frittata, e non rispose.
«Ella sa qualche cosa!», pensò Anania, turbandosi. Ma dopo un istante di
silenzio zia Grathia osservò:
«Se niente ne sai tu, come vuoi che ne sappia qualche cosa io? E adesso,
figlio, mettiti qui, davanti a questa sedia, ed accetta il buon cuore».
Anania sedette davanti al canestro che la vedova aveva deposto sopra una sedia,
e cominciò a mangiare.
«No», disse, confidandosi con la vecchia come non s'era mai potuto confidare
con nessuno, «per lungo tempo io non seppi nulla di lei. Ora però credo di
essere sulle sue traccie. Dopo che mi ebbe abbandonato ella partì dalla
Sardegna, ed un uomo la vide a Roma, vestita da signora.»
«Ma la vide davvero?», chiese vivacemente zia Grathia. «Le parlò?»
«Altro che le parlò!», rispose amaramente Anania. «Egli disse d'aver passato
qualche ora con lei. Dopo non si seppe più nulla; ma io, mesi fa, la feci
ricercare dalla Questura e venni a sapere che ella vive a Roma, sotto un falso
nome. Però si è emendata, sì, si è emendata, e adesso vive onestamente lavorando.»
Zia Grathia era venuta a porsi davanti alla sedia, ed a misura che Anania
parlava ella spalancava gli occhietti foschi, e si curvava e trasaliva, e
apriva le mani come per raccogliere le parole di lui.
Egli si rasserenava pensando a Maria Obinu: quando disse «ella ora si è
emendata» provò un impeto di gioia, sicuro, in quel momento, di non ingannarsi
supponendo che Maria e Olì fossero la stessa persona.
«Ma sei sicuro, ma sei proprio sicuro?», chiese la vecchia, sbalordita.
«Ma sì! Ma sìii!...», egli rispose, imitando Margherita nel pronunziare quel sì
lieto e un po' canzonatore. «Ho vissuto due mesi in casa sua.»
Si versò da bere, guardò il vino attraverso la luce rossastra della lucerna di
ferro, e sembrandogli torbido lo assaggiò appena; poi nel pulirsi la bocca vide
che il vecchio tovagliolo grigiastro era bucato, e se ne coprì scherzosamente
il viso.
«Ricordate quando io e Zuanne ci mascheravamo?», chiese, guardando attraverso
il buco. «Io mettevo sul viso questo tovagliolo. Ma che avete?», esclamò subito
con voce mutata, scoprendosi il volto lievemente impallidito.
Egli vedeva il viso della vedova, di solito impassibile e cadaverico, animarsi
in modo strano, e dopo una profonda meraviglia esprimere la pietà più intensa;
e capì immediatamente che l'oggetto di questa pietà quasi violenta era lui.
Di un colpo l'edifizio del suo sogno rovinò.
«Nonna! Zia Grathia! Voi sapete!», gridò con aria spaventata, stirando
nervosamente il tovagliuolo quanto era lungo.
«Finisci di mangiare, adesso: parleremo poi, figlio. Non ti piace quel vino?»
Ma Anania la guardò con rabbia e balzò in piedi.
«Parlate!», le impose.
«Ah, Santissimo Signore», si lamentò zia Grathia, sospirando e schioccando le
labbra, «che cosa vuoi ch'io ti dica? Perché non finisci di cenare, Anania,
figlio caro?... Parleremo poi...»
Egli non sentiva e non vedeva più nulla.
«Parlate! Parlate! Voi sapete tutto, dunque? Dov'è? È viva, è morta, dov'è?
Dov'è? Dov'è?»
Quel «dov'è?» lo ripeté almeno venti volte, mentre s'aggirava automaticamente
intorno alla cucina, piegando, spiegando, stirando il tovagliuolo, mettendolo
sul viso, guardando attraverso il buco: pareva un po' impazzito, ma più
irritato che commosso.
«Calmati», cominciò a dirgli la vecchia, andandogli appresso, «io credevo che
tu sapessi... Sì, ella è viva, ma non è la donna che ti ha ingannato fingendosi
tua madre.»
«Non è stata lei a ingannarmi, nonna! L'ho creduto io... Ella non sa neppure
che io abbia supposto... Ah, dunque non è lei?», aggiunse a bassa voce, con
meraviglia, come se fino a quel momento fosse stato certo che Maria Obinu era
sua madre. «Ma parlate dunque!», esclamò poi. «Perché mi tenete così sulla
corda? Perché non mi avete parlato ancora di lei? Dov'è? dov'è?»
«Ma se non ha mai lasciato la Sardegna!», disse la vedova, camminandogli sempre
a fianco. «In verità, io credevo che tu lo sapessi. Io l'ho riveduta
quest'anno, ai primi di maggio; ella venne a Fonni per la festa dei Santi
Martiri, e conduceva un cantastorie, un giovine cieco suo amante. Essi erano
venuti a piedi da un villaggio lontano, da Neoneli; ella soffriva le febbri di
malaria, e sembrava una vecchia di sessanta anni. Terminate le feste, il cieco,
che aveva guadagnato assai, abbandonò Olì per seguire una comitiva di
mendicanti diretti ad un'altra festa campestre. So che ella, in giugno e
luglio, fece la mietitrice nelle tancas di Mamojada. La febbre la
distruggeva: stette lungamente malata nella cantoniera e ci sta ancora...»
Anania si fermò, sollevò il viso e aprì le braccia con atto disperato.
«Ed io... io... l'ho... vista!», gridò. «Io l'ho vista! L'ho vista!... Siete
certa di quanto mi dite?», chiese poi fissando la vedova.
«Certissima: perché dovrei ingannarti?»
«Ditemi», egli insisté, «ma c'è davvero? Io vidi alla finestra una donna
febbricitante, gialla, terrea, con due occhi da gatto... Era lei? Ne siete
certa?»
«Certissima, ti dico. Era lei certamente.»
«Ed io... io l'ho vista!», egli ripeté, e si strinse il capo fra le mani,
torcendoselo, preso da una collera violenta contro se stesso che si era così
lungamente, così stupidamente ingannato; che aveva cercato sua madre al di là
dei monti e dei mari, mentre ella trascinava la sua miseria e il suo disonore
attraverso l'isola natìa; che si era commosso davanti a tanti volti stranieri e
non aveva sentito un palpito nello scorgere il volto della mendicante, della
miseria viva, di sua madre, incorniciato dalla finestruola tetra della
cantoniera.
Che cosa dunque era l'uomo? E il cuore umano? E la vita, l'intelligenza, il
pensiero? Ah, sì, ora che queste domande gli salivano non più oziosamente alle
labbra, ora che la realtà batteva intorno a lui le sue ali funebri e squarciava
i vapori dell'illusione, ora egli rispondeva alle sue domande e sapeva che cosa
era l'uomo, il suo cuore, la sua vita: inganno, inganno, inganno.
A un tratto zia Grathia lo prese per un braccio e lo costrinse a sedersi:
poi gli si accoccolò davanti, gli strinse una mano, e lo guardò di sotto in su,
lungamente, pietosamente.
«Bambino mio», gli disse, «piangi, piangi. Ti farà bene. Come sei freddo!».
Anania strappò la mano dal morso duro delle mani della vedova.
«Ma per chi mi prendete?» domandò offeso. «Non sono un ragazzino, io! Perché
devo piangere?»
«Eppure ti farebbe bene, figlio! Ah, sì, io so quanto fa bene piangere! Quanto
fu picchiato alla mia porta, una notte, ed una voce che pareva quella della
Morte mi disse: «Donna, non aspettare più!» io diventai di pietra. Per ore ed
ore non potei piangere; e furono le ore più terribili per me: mi pareva che il
cuore, dentro il petto, fosse diventato di ferro rovente, e mi bruciasse, mi
bruciasse le viscere, mi lacerasse il petto con la sua punta acuta. Ma poi il
Signore mi concedé le lagrime, ed esse rinfrescarono il mio dolore come la
rugiada rinfresca le pietre arse dal sole. Figlio, abbi pazienza! Siamo nati
per soffrire: e cosa è mai questo tuo dispiacere in confronto di tanti altri
dolori?».
«Ma io non soffro!», egli protestò. «Dovevo aspettarmelo, questo colpo; me lo
aspettavo anzi, vedete! Sono stato spinto a venir qui quasi da una forza misteriosa;
una voce mi diceva: va, va, là saprai qualche cosa! Certo, ho provato un
colpo... un po' di sorpresa... ma adesso è passato: non datevi pena.»
Ma la vedova lo fissava, lo vedeva livido in viso, con le labbra pallide
contratte, e scuoteva il capo. Egli prosegui:
«Ma perché nessuno mi ha detto mai nulla? Eppure qualche cosa dovevano sapere.
Il carrozziere, per esempio, possibile che non sapesse nulla?».
«Forse. Ella sola poteva farti sapere qualche cosa; ma no, essa ha paura di te.
Quando venne qui, per la festa, con quel miserabile cieco che si fece condurre
da lei e poi la abbandonò, nessuno qui la riconobbe, tanto sembrava vecchia,
piena di stracci, istupidita dalla miseria e dalla febbre. Del resto, neppure
tu l'hai riconosciuta. Il cieco la chiamava con un brutto nomignolo: soltanto a
me ella confidò il suo vero essere, mi raccontò la sua triste storia e mi
scongiurò di non farti mai saper nulla di lei. Essa ha paura di te.»
«Perché ha paura?»
«Ha paura che tu la faccia mettere in prigione perché ti ha abbandonato. Ha
anche paura dei suoi fratelli che sono cantonieri della ferrovia ad Iglesias.»
«E suo padre?», domandò Anania, che non aveva mai pensato a questi suoi
parenti.
«Oh! è morto da tanti anni, morto maledicendola. E Olì crede sia stata questa
maledizione a perseguitarla.»
«Sì! È lei che è pazza! Ma che ha ella fatto durante tutti questi anni? Come ha
vissuto? Perché non ha lavorato?»
Egli sembrava di nuovo calmo, e faceva le sue domande senza curiosità, pensando
alle conseguenze di questo disastroso avvenimento. Ma quando la vedova sollevò
un dito e disse solennemente: «Tutto sta nelle mani di Dio! Figlio, c'è un filo
terribile che ci tira e ci tira... Forse che mio marito non avrebbe voluto
lavorare, e morire sul suo letto, benedetto dal Signore? Eppure!... Così di tua
madre! Ella certo avrebbe voluto lavorare e vivere onestamente... Ma il filo
l'ha tirata...», egli s'accese in volto, e di nuovo contorse le dita e si sentì
soffocare da un impeto di vergogna e di spasimo.
«Tutto... tutto è finito per me, dunque!», singhiozzò. «Che orrore, che orrore!
Che miseria, che onta! Ma raccontatemi, dunque, ditemi tutto. Come ha
vissuto?... Voglio sapere tutto... tutto... tutto, capite! voglio morire di
vergogna, prima ancora che... Basta!», disse poi scuotendo la testa, come per
scacciare via da sé ogni turbamento. «Raccontatemi.»
Zia Grathia lo guardava con infinita pietà: avrebbe voluto prenderselo sulle
ginocchia, cullarlo, cantargli una nenia infantile, calmarlo, addormentarlo; ed
invece lo torturava. Ma... sia fatta la volontà del Signore: siamo nati per
soffrire, e non si muore di dolore! Tuttavia la vedova cercò di raddolcire
alquanto il calice amaro che Dio porgeva per le sue mani al disgraziato
fanciullo. Disse:
«Io non so raccontarti precisamente come ella visse e ciò che fece. So che
ella, dopo averti lasciato, e fece benissimo, perché altrimenti tu non avresti
avuto mai un padre e non saresti stato fortunato come lo sei...».
«Zia Grathia! Non fatemi arrabbiare!...», egli interruppe impetuosamente.
«Tranquillità! Pazienza!», gridò la donna. «Non disconoscere la bontà del
Signore, ragazzo mio! Se tu fossi rimasto qui, che avresti fatto? Forse avresti
finito vilmente col farti anche tu frate... frate mendicante... frate
poltrone!... Basta, non parliamone più! Meglio morire che finire così! E tua
madre avrebbe seguìto egualmente la sua via, perché quello era il suo destino.
Anche qui, prima di partire, credi tu ch'ella menasse una vita santa? Ebbene,
no: era questo il suo destino. Ella aveva qui, negli ultimi tempi, un amante
carabiniere che fu trasferito a Nuraminis pochi giorni prima della vostra fuga.
Dopo che ti ebbe abbandonato, almeno così la disgraziata mi raccontò, ella
partì per Nuraminis, a piedi, nascondendosi di giorno, camminando di notte,
attraversando metà della Sardegna. Raggiunse il carabiniere e la loro relazione
continuò per qualche mese; egli aveva promesso di sposarla, ma invece si stancò
presto di lei, la maltrattò, la percosse, poi l'abbandonò. Ella seguì la sua
fatale via. Mi disse, - e piangeva, poveretta, piangeva da commuovere le
pietre, - che cercò sempre del lavoro, ma che non poté trovarne mai. È il
destino, te lo dissi! Il destino che priva del lavoro certi esseri disgraziati,
come ne priva altri della ragione, della salute, della bontà. L'uomo e la donna
inutilmente si ribellano. No, avanti, morite, crepate, ma seguite il filo che
vi tira! Basta, ultimamente però ella si era emendata: s'era unita con
un cieco cantastorie e vivevano da due anni come marito e moglie: ella lo conduceva
per i paesi, per le feste campestri, da un luogo all'altro; camminavano quasi
sempre a piedi, qualche volta soli, qualche volta in compagnia di altri
mendicanti girovaghi. Il cieco cantava certe poesie che egli stesso componeva:
aveva una bellissima voce. Qui, mi ricordo, cantò la Morte del re, una
poesia che faceva piangere la gente. Il Municipio gli diede venti lire, il
Rettore lo invitò a pranzo. Raccolse, in tre giorni che stette qui, più di
venti scudi. Ed era un'immondezza! Anche lui prometteva di sposare la
disgraziata; invece, quando la vide ammalata, che non poteva trascinarsi oltre,
la piantò, per paura che lo costringessero a spendere per curarla. Di qui
partirono assieme; andarono alla festa di Sant'Elia; là il cieco schifoso
incontrò una compagnia di mendicanti campidanesi che dovevano recarsi ad una
festa campestre nella Gallura, e andò via con loro, mentre la disgraziata
moriva di febbre in una capanna di pastori. Dopo, come ti dissi, sentendosi
meglio, ella vagò di qua e di là, mietendo, raccogliendo spighe, finché la
febbre l'atterrò del tutto. L'altro giorno, però, mi mandò a dire che stava
meglio...»
Un fremito, invano represso, percorreva tutte le membra di Anania. Quanta
miseria, quanta vergogna, quanto dolore, e che iniquità divina ed umana nel
racconto della vedova!
Nessuno dei sanguinosi e tristi racconti ch'egli aveva sentito narrare nella
sua infanzia dalla strana donna, gli era mai parso più spaventoso di questo:
nessuno lo aveva mai fatto tremare come questo. Ad un tratto ricordò il
pensiero balenatogli una volta in mente, in una dolce sera lontana, nel
silenzio della pineta interrotto appena dal canto del galeotto pastore.
«È stata anche in carcere?», domandò.
«Sì, credo, una volta. Furon trovati in casa sua certi oggetti, che un suo amico
aveva preso da una chiesa campestre; ma fu rilasciata perché provò di
non sapere neppure di che si trattasse...»
«Voi mentite!», disse Anania con voce cupa. «Perché non dite tutta la verità?
Essa è stata anche ladra... ebbene, perché non dirlo! Credete che mi importi
niente? Proprio niente, vedete, neppure così», aggiunse, mostrandole la punta
del mignolo.
«Che unghie, Signore!», osservò la vecchia. «Perché ti lasci crescere così le
unghie?»
Egli non rispose, ma balzò in piedi e camminò su e giù, furioso, mugolando come
un toro.
La vedova non si mosse, ed egli, dopo pochi istanti, tornò a calmarsi, e
fermandosi davanti alla donna chiese con voce dolente ma rassegnata:
«Ma perché son nato io? Perché mi hanno fatto nascere? Vedete, io ora sono un
uomo rovinato: tutta la mia vita è distrutta. Non potrò proseguire gli studi, e
la donna che dovevo sposare, e senza la quale non potrò più vivere, ora mi
lascerà... cioè devo lasciarla io».
«Ma perché? Non sa chi sei tu?»
«Sì, lo sa, ma crede che quella donna sia morta o così lontana da non
udirne più neanche il nome. Ed ora invece ecco che essa ritorna! Come volete
voi che una fanciulla pura e delicata possa vivere vicino ad una donna infame?»
«Ma che cosa vuoi fare? Non hai tu stesso detto che non ti importa nulla di lei?»
«E voi che cosa mi consigliate?»
«Io? Che cosa ti consiglio? Di lasciarle proseguire la sua via», rispose
ferocemente la vedova: «non ti ha abbandonato lei? Se tu lo vorrai, la tua
sposa non incontrerà mai la disgraziata, e tu stesso non la vedrai mai più...».
Anania la guardò, a sua volta pietoso ma anche sprezzante.
«Voi non capite, non potete capire!» disse. «Lasciamo andare; ora bisogna
pensare al modo di vederla; bisogna ch'io vada là domani mattina.»
«Tu sei matto...»
«Voi non capite...»
Si guardarono; entrambi reciprocamente sdegnati e pietosi. Allora cominciarono
a discutere e quasi a litigare. Anania voleva partire subito, o al più tardi la
mattina dopo; la vedova proponeva di far venire Olì a Fonni senza dirle il
perché.
«Giacché ti ostini! Ma va là! io la lascerei tranquilla; come ha camminato
sinora camminerà d'ora in avanti... Lasciala stare... Mandale qualche
soccorso...»
«Nonna, pare che anche voi abbiate paura. Quanto siete semplice! Io non le
torcerò un capello; io la prenderò con me; ella vivrà con me ed io lavorerò per
lei: le voglio fare del bene, non del male, perché tale è il mio dovere...»
«Sì, questo è il tuo dovere; ma d'altronde, figlio, pensa, rifletti. Come
vivrete voi? Come camperete?»
«Non pensateci!»
«Come, come farete?»
«Non pensateci!»
«Bene, allora! Ma ti ripeto che essa ha una folle paura di te, e se tu vai ad
affrontarla così, improvvisamente, è capace di commettere qualche pazzia.»
«Ed allora facciamola venir qui: ma subito, domani mattina.»
«Sì, subito, sulle ali d'un corvo! Come sei impaziente, figlio delle mie
viscere! Va e riposati, adesso, e non pensare a niente. Domani notte a
quest'ora ella sarà qui, non dubitare. Dopo, tu farai quel che vorrai. Domani
tu salirai sul Gennargentu: io direi anzi di rimanerci fino a posdomani...»
«Vedrò io!»
«Ora va... va a riposarti», ella ripeté, dolcemente spingendolo.
Anche nella stanzetta ove egli aveva dormito con sua madre nulla era cambiato;
vedendo il misero giaciglio, sotto cui c'era un mucchio di patate ancora
odoranti di terra, egli ricordò il lettino di Maria Obinu e le illusioni ed i
sogni che lo avevano per tanto tempo perseguitato.
«Come ero bambino!», pensò amaramente. «E dicevo di esser uomo! Ah, soltanto
adesso sono uomo! Ah, soltanto ora la vita mi ha spalancato le sue orribili
porte! Sì, sono un uomo, ora, e voglio essere un uomo forte! No, vile vita, tu
non mi vincerai; no, mostro, tu non mi abbatterai! Tu mi perseguiti, tu mi hai
finora combattuto a viso coperto, vigliacca, miserabile, e solo oggi, in questo
giorno lungo come un secolo, solo oggi hai svelato il tuo volto orrendo! Ma non
mi vincerai, no, non mi vincerai!»
Aprì le imposte tentennanti che davano su un balcone di legno, del quale
rimanevano appena i sostegni; si afferrò a questi e si sporse fuori.
La notte era limpidissima, fresca, chiara e diafana come sono in montagna le
notti sul finir dell'estate. Nel silenzio indicibile che regnava, la visione
delle montagne vicine e le linee vaghe delle montagne lontane sembravano più
solenni e grandiose.
Ad Anania, che vedeva quasi ai suoi piedi le valli profonde, pareva di star
sospeso sopra un abisso: e mentre le linee delle montagne lontane gli destavano
in cuore una dolcezza strana, e gli davan l'idea di versi immensi scritti dalla
mano onnipotente d'un divino poeta sulla pagina celeste dell'orizzonte, il
vicino colosso nero-turchiniccio di Monte Spada, protetto dalla formidabile
muraglia del Gennargentu, lo opprimeva, gli sembrava l'ombra del mostro al
quale poco prima aveva lanciato la sua sfida.
E pensava a Margherita lontana, a Margherita sua, non più sua, che in quell'ora
sognava certamente di lui guardando anch'essa l'orizzonte; e sentiva una grande
pietà per lei, più che per se stesso, e lagrime soavi e amare come il miele
amaro gli salivano agli occhi; ma egli le respingeva, queste lagrime, le
respingeva come un nemico felino e sleale che tentasse vincerlo a tradimento.
«Son forte!», ripeteva, fermo sul balcone senza ringhiera. «Mostro, sono io che
ti vincerò, ora che mi stai davanti!»
E non si accorgeva che il mostro gli stava alle spalle, inesorabile.