Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
La fuga in Egitto
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Quella seconda notte fu più tranquillo. Sentiva di non essere più solo in quel recinto di tristezza e di maledizione, e che la sua giornata non era trascorsa invano. I due fratelli, dopo che l'anziano l'aveva aiutato a rimettere a posto le cose di cucina, se n'erano andati allegri e finalmente d'accordo; anche il cane scodinzolava guardandolo, e il gatto, mentre i gattini giocavano fra di loro sotto la tavola, aveva fatto un silenzioso giro d'esplorazione nella stanza; gli pareva infine di essersi creata una nuova famiglia, e sperava nell'aiuto del tempo.

La mattina dopo, nello svegliarsi presto, sentì infatti che già qualche cosa in lui, nella carne e nello spirito, si rinnovava. Balzò agile dal letto, pieno di coraggio: non aveva più paura di incontrare i suoi simili. Decise quindi di recarsi lui a fare le sue spese; e si ripulì come quando andava a spasso con Ola: segui il loro viale, e gli pareva di sentire i passettini silenziosi di lei sull'erba fresca della brezza marina.

Ma oramai la sua nuova pena si stemperava sul colore delle pene passate, ed egli si sforzava a credere che Ola fosse cresciuta; non era più una bambina; era cresciuta, s'era staccata da lui come giorno per giorno anche i figli si staccano dai genitori.

Nella piazza del mercato le donne lo guardarono come la prima mattina dopo il suo arrivo: così solo, senza Ola, pareva anche a loro un altro uomo. Una di esse, dalla quale a volte comprava qualche frutto per la bambina, gli domandò di lei.

– È fuori con la mamma.

– Già, anche Ornella è due giorni che non la si vede. Dov'è andata quell'accidente?

Egli non rispose, intento a scegliere un po' di frutta. La donna vendeva anche i piccoli formaggi come quello portato da Gesuino, ed egli ne fece provvista: poi andò dal fornaio.

Il fornaio era amico di Antonio.

– E dunque torna oggi, il nostro ragazzone, – disse al maestro, mentre pesava il pane che odorava ancora di forno. – Mi ha mandato una cartolina, con su una bella donna, – aggiunse ammiccando.

Il maestro prese il pane avvolto nella carta velina e lo sentì caldo come vivo.

Ah, dunque Antonio non era tornato ancora; questo spiegava la quiete di quei due giorni. Ed egli ebbe scrupolo di aver lasciato la casa sola, in balìa di Ornella: ma oramai era fatta. Rientrato nella sua dimora ricominciò la sua vita; in fondo però aspettava qualche cosa di nuovo e quest'attesa tornava a turbarlo; nel pomeriggio poi divenne angosciosa. Forse ne era causa il tempo, poichè il cielo s'era fatto scuro e i tuoni salivano dal mare agitato: lampi e lampi passavano come fiamme spinte dal vento, lambendo i vetri della finestra che pareva rabbrividissero di paura.

Anche lui, chiuso nella stanza, sentiva una paura indefinibile; il sangue gli affluiva alle ginocchia tumultuoso come una folla allo svolto di una strada troppo stretta, e un presentimento angoscioso, di qualche cosa di terribile che in quei momenti doveva accadere, lo dominava tutto.

Un tenue velo di pioggia offuscò d'improvviso il sinistro chiarore dell'aria: il vento e i lampi cessarono; gli alberi immobili parvero offrirsi all'acqua con voluttà gelosa; e l'acqua vi si fermava e diveniva una cosa stessa con le foglie.

Più forti i fulmini irruppero di nuovo; la pioggia cessò, come spaventata; e il vento si prese il gusto selvaggio di scuotere l'acqua dalle foglie; finchè un occhio di cielo s'aprì fra gli alberi, spiando quello che succedeva sulla terra: poi anche il sole sbattè via intorno a il mantello greve delle nuvole; e i lampi i tuoni il vento a loro volta cominciarono la ritirata.

Tutto ritornò sereno: l'uomo però non si chetava, come se il temporale si fosse rifugiato entro di lui.

Ed ecco verso sera quando fece il solito giro della villa per assicurarsi che tutto era in ordine, vide una figura appoggiata alle sbarre del cancello, con le braccia aperte come vi fosse inchiodata in croce: dalla cima del viale non poteva riconoscerla, eppure sentì subito che era lei, Ornella. Pensò di nascondersi; ma gli parve ch'ella fosse da molto tempo e decisa ad aspettarlo per l'eternità: la sua figura rosseggiante nel vuoto dello sfondo incolore gli ricordò quell'altra. Ebbe paura e s'avvicinò.

– Che vuoi? – domandò rudemente.

Ella invece rispose tranquilla:

Apra.

– Che vuoi?

Era deciso a non aprire: poichè ancora una volta sentiva l'odore e il calore animale di lei, e aveva l'impressione che una bestia nociva, un grande gatto arrabbiato che fingeva calma per poter penetrare nel recinto, abbrancasse il cancello; e ricordava le paroline di Ola:

– Il gatto mammone esiste: l'ho sentito io.

– Le devo parlare, – ella disse fissandolo coi suoi occhi verdi cattivi.

– Puoi parlare lo stesso. Ti ascolto.

– Ebbene, – ella esclamò allora con prepotenza, – peggio per lei se mi sentono. Suo figlio è tornato oggi, e quando ha letto la sua lettera mi ha mandato via di casa; e poichè io non volevo andarmene mi ha cacciato via a staffilate, minacciando di uccidermi. Ho i segni qui, sulle braccia e sulle spalle. E io non so dove andare. Bisogna che lei adesso vada a dirgli che provveda a me. Altrimenti....

– Altrimenti?

– Altrimenti succede qualche cosa di grosso. Sono come una bestia arrabbiata, lo sente? Sono capace di tutto. Di tutto, – gridò, scuotendo con furore il cancello: e i suoi occhi luccicavano come quelli di una tigre in gabbia.

Egli pensò ad Ola; Ornella era capace di vendicarsi su lei. Allora si sentì come in punto di morte, al limite fra il mistero terribile della vita, intessuto di errori, di dolore e di castigo, e il mistero ancora più terribile, perchè inspiegabile, dell'al di .

Aprì il cancello e fece entrare la donna.

Quest'atto parve subito, se non placarla, piegarla. Senza più parlare lo seguì fino alla stanza, e si abbandonò, stremata di forze, sulla sedia che egli le porgeva.

Al chiarore del piccolo lume deposto sulla tavola, egli osservò che il viso di lei era stravolto e improvvisamente invecchiato; anche sui capelli pareva fosse passata una fiamma, e sul collo bianco il fiore violetto e rosso d'una ecchimosi rivelava le percosse ricevute. Sapendo che il parlare è lo sfogo più efficace per una donna, egli domandò:

Raccontami com'è andata.

Ma Ornella era diversa dalle altre donne; il dolore ella non poteva esprimerlo se non con grida, come gli esseri inferiori; e infatti piegò la testa, si morsicò il braccio e cominciò a gemere con stridi selvaggi; ed egli sentì di essere davvero davanti a un animale ferito: le parole erano inutili; bisognava cercare qualche altro rimedio per aiutarla.

– Non gridare, Ornella; oramai è fatta. Egli ti ha colpito in un momento di rabbia, ma si pentirà e provvederà certamente a te. Ci penserò io, a convincerlo. Prendi intanto qualche cosa. Vuoi mangiare? Vuoi un po' di vino? È inutile che tu continui a stridere, Ornella: vedrai che tutto si aggiusta. Intanto, dimmi, insinuò con voce tenue, falsamente umile, non hai proprio davvero nessuno dove poter andare?

Ella aveva alcuni parenti, nel paese, ma non voleva andarci; voleva tornare nel nido tiepido donde era stata scacciata come la cornacchia dal nido dei colombi; l'impossibilità di questo ritorno esasperava la sua disperazione.

Neppure l'ospitalità che egli le offrì per quella notte, dicendo che su nel soppalco c'era un lettino pulito, parve calmarla; a lungo singhiozzò, scuotendo la testa sul braccio, e solo quando fu stanca sollevò il viso rosso e disse con voce rauca:

– Lei non può andare subito a parlare con suo figlio?

– È troppo presto; non capisci che anche lui sarà ancora arrabbiato?

Ella tornò a nascondere il viso; lo sollevò ancora, fissò di nuovo gli occhi del maestro coi suoi occhi selvaggi pieni di odio e di follìa.

– E lei non può tornare ad abitare con loro? Solo questo lo placherebbe: solo questo....

– Anche questo faremo, se occorre, – egli disse impaurito; poi uscì, perchè soffocava: passando davanti alla finestra vide che Ornella beveva il vino che egli le aveva versato: questo forse la calmerebbe: chi non poteva calmarsi era lui.

Rifece il giro intorno alla villa; non era stato mai superstizioso e non voleva diventarlo; eppure gli sembrava di esser travolto dall'influsso malefico che raggiava da quella casa morta come da un cadavere.

Il suo istinto era di fuggire, lontano, dove il male degli altri non poteva più raggiungerlo. Si ribellava anche a Dio, anche alla sua coscienza: che si voleva da lui? Non aveva tutto dato?

Andò a sedersi davanti alla tavola di marmo, dove aveva mangiato coi contadini, e gli parve di sentire l'eco delle sue parole. Così a misura che il tumulto del suo sangue cessava, gli tornava lucido il pensiero e il giudizio di sé stesso: e una luce chiara e fredda come quella della luna gli regnava intorno, con l'ombra delle cose più viva delle cose stesse. Tutto era tranquillo e fermo, oramai, come nel riposo eterno della morte.

– Bisogna rinunziare anche a me stesso, – pensò. E decise di tenere Ornella con sé, di incaricarsi della creatura. Bisognava lottare per questo, anzitutto colla forza brutale della donna stessa, e poi con altre contrarietà: ma il pensiero appunto della lotta lo rianimò.

Forza, forza, – disse sottovoce, parlando alla sua ombra. – Dio ci aiuterà.

Ed ecco si alza e va verso la siepe sembrandogli di aver sentito rumore. Tutto è tranquillo, sotto la luna, di un colore fantastico che non è più colore ma neppure è nero: alcune foglie attraversate dalla luce lunare sembrano di vetro dorato, altre di alabastro.

Il cane dei contadini comincia ad abbaiare; la voce di Gesuino lo richiama e non sa perchè anche il maestro chiama:

– Oh, Gesuì?

Gesuino non risponde, ma s'avvicina alla siepe, dove questa ha un varco, chiuso solo da un ramo, che permette ai contadini di comunicare col custode della casa. Anche il maestro ci si avvicina: e sono come due esploratori di una terra sconosciuta che si sentono attraverso il fitto della selva e tentano di incontrarsi.

S'incontrano infatti davanti al varco: il ramo nero trasparente li separa ancora, ma già possono vedersi e parlarsi.

Gesuino è a testa nuda: i suoi riccioli rossastri sembrano di erba secca, e il bianco degli occhi brilla come di porcellana.

Dietro è il cane con la sua ombra lunga; è inquieto e si morde con un guaito sotto la coscia, come abbia le pulci, poi solleva la testa nel sentir parlare il padrone.

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