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Cesario ripartì qualche giorno dopo. Annicca diede un piccolo sospiro, quasi si liberasse da un fastidio.
In realtà Cesario, don Cesario come lo chiamavano ironicamente le serve, era un po' fastidioso, stonava anzi, come una pennellata troppo viva nel quadro calmo e uniforme, dolcemente lumeggiato, della famiglia Velèna. Era aristocratico, superbo, si credeva superiore a tutti e posava da scettico.... a vent'anni. Pigliava tutte le cose alla leggera, salvo poi ad infuriarsi alla minima contrarietà: guai se le sue camicie non venivano stirate in un certo modo, se la sua biancheria non risplendeva per candore. Studiava però, seriamente, e molte speranze eran riposte in lui.
Ad ogni modo Annicca provò un senso di sollievo alla sua partenza e si sentì più libera.
— Ti dispiace che Cesario sia lontano? — domandò una mattina a Sebastiano, nell'orto.
— Ma no. Studia. Quest'anno prenderà la licenza liceale.
— Che cosa farà?
— L'avvocato, credo.... — mormorò Sebastiano, con voce ironica, ficcando un randello vicino a un magnifico cavolo dall'immenso fiore di un giallo acceso.
— Perchè questo cavolo deve far le sementi.
— Come?
Pazientemente il grazioso ortolano glielo spiegò, poi Anna tornò al primo argomento.
— E tu perchè non hai continuato a studiare?
— Ah, io? — fece Sebastiano, distratto, uscendo dal solco con le scarpe bagnate di brina.
— Sì, perchè non ti sei fatto avvocato?
— Perchè mi annoiavo a studiare — diss'egli, non volendo dare altra spiegazione.
— È quel che si vedrà. Intanto tu, a tavola, mangi l'insalata e gli asparagi, non i libri....
Anna non parve convinta dalle ragioni di Sebastiano, sebbene egli fosse la persona ch'ella più amava dopo lo zio Paolo.
Con Caterina si trovava a disagio, con Lucia ed Angela si sentiva triste, perchè era in quell'età quando non si è più bimbe e non si è ancora giovinette, e mentre ci si allontana dalla compagnia delle prime, si sta timide con le seconde, che non badano a noi, come noi vorremmo, trattandoci ancora da bambine e non mettendoci a parte dei loro segreti.
Compagne della sua età Anna non ne trovava, e Sebastiano, che si tratteneva con lei seriamente, dandole soddisfazioni d'ogni maniera, riempiva in qualche modo il vuoto del suo cuoricino.
Quanto Cesario era altero e pretenzioso, altrettanto Sebastiano era buono, umile e paziente: lavorava come un contadino e non trovava mai nulla da ridire: non alzava la voce, non si lamentava. Vestiva modestamente, con camicie di bordatino colorato, dai colletti rivoltati, e portava un grosso soprabito di orbace foderato di scarlatto antico, e il cappello a cencio.
Pareva un artista, e forse lo era molto più di Cesario.
Sempre a cavallo, presiedeva ai lavori di campagna, dando l'esempio ai lavoratori e mangiando con essi il pan nero, e visitava ogni settimana i poderi, i pastori, le seminagioni, i pascoli.
Paolo Velèna, intento alle sue lavorazioni di scorza e agli altri negozi, abbandonava a poco a poco le redini del patrimonio a suo figlio.
Dolcemente, a poco a poco, Sebastiano s'imponeva. La gente di servizio, quando picchiava alla porta dei Velèna, chiedeva del signor Sebastiano, ormai, e non del signor Paolo.
— Sebastiano di qua, Sebastiano di là, pare che Paolo Velèna sia morto! — diceva quest'ultimo con un sorriso. Ma egli stava per dei mesi lontano e Sebastiano comandava facendosi rispettare ed amare.
Non frequentava la società signorile, andava con la gente del suo vero ceto, coi principali cioè, fossero vestiti in costume o da borghesi come lui. Quasi sempre fuori di casa, nelle poche ore che ci stava lavorava nell'orto o sbrigava la corrispondenza di suo padre.
Anna lo perseguitava con la sua presenza e le sue domande, talvolta indiscrete, persino nell'ufficio, come veniva chiamata la stanza da lavoro di Paolo Velèna, stanza piena di registri, di bollette, di lettere, di codici commerciali, di carta da lettere intestata — Paolo Velèna commerciante — di libri di azienda e di quell'odore poco gradevole che lasciano ove s'indugiano i carradori, gli scorzini e i carbonai.
Anna trovava là dentro qualcosa di piacevole che non sapeva nè cercava di definire. Forse era il profumo acre del lavoro, dell'opera, della fatica, del guadagno accumulato a forza di sudore e di cure gravissime.
— Sai tu quanto denaro è passato su questo tavolino? — le diceva Sebastiano. — Tu non puoi figurartelo. Se l'avessi tutto io, colonizzerei la Sardegna.
— Cosa vuol dire ciò?
— Eh, tu non capisci. Lasciami scrivere questa lettera, fa il piacere.
Glielo diceva con tanta gentilezza, che ella se ne andava a far ballare Nennele, canticchiandogli una canzoncina in dialetto.
A proposito di Nennele, Anna, il giorno che indossò il vestitino nuovo ne restò così contenta che ebbe una riconoscente idea.
— Perchè non mandate via Elena? — domandò alla zia.
— E perchè? Ti ha offeso forse?
— No, ma giacchè ci sono io, per dare attenzione al bambino, che bisogno c'è di lei?
— Non ti annoierai?
— Anzi! Mandatela via, zia....
Sentiva il bisogno di rendersi utile in quella casa che cominciava a considerar come sua.
— Vedremo, — rispose Maria Fara.
A misura che i giorni passavano, Annicca dimenticava le impressioni della sua vita antica. Donn'Anna, la vecchia casa gialla, il villaggio, il suono delle campane, le antiche visioni, tutto si allontanava a poco a poco, dissolvendosi. Ogni ora di sonno aiutava la dimenticanza. Delle volte, svegliandosi all'improvviso, ella riviveva per un attimo nella vita antica e le pareva di essere coricata vicino alla nonna, nella camera buia, ma si riaddormentava tosto, e il mattino dopo dimenticava anche le sensazioni della notte. Così sfumò quel po' di nostalgia provata nei primi giorni, ed ella tornò ad essere come prima, allegra, non chiassosa, ma spesso spiritosa. Non arrossiva più quando le rivolgevano la parola, non ringraziava più e pigliava il suo piccolo posto nella famiglia, un posto che era nel vuoto lasciato fra i dieci anni di Caterina e i sedici di Lucia e di Angela.
In chiesa non si meravigliava più al suono dell'organo, e le signore non l'umiliavano come il primo giorno. Tutt'al più continuavano a scandolezzarla col loro contegno irriverente, che nelle funzioni della settimana santa raggiunse il colmo. Nella folla passava come un fremito di contentezza invece che di dolore. Tutti si pigiavano, chiacchieravano, ridevano, gli studenti e gli ufficiali si avvicinavano alle signore, e solo le vecchie paesane ascoltavano la lugubre voce del predicatore.
Anna era devota, e tutto questo la urtava e l'addolorava. Composta nel suo vestito nuovo, in guanti, con una gala di crespo al collo, stava quieta, procurando di ascoltare le prediche o di leggere i salmi nel suo grosso libro di preghiere.
Era giunta ad aver un certo dominio su Caterina; la faceva sedere presso di sè e le ingiungeva di star raccolta, minacciando altrimenti di accusarla a Sebastiano. Caterina guardava con invidia i bambini che correvano attraverso la chiesa, ma stava zitta e ferma.
Nella settimana santa andarono a confessarsi, e Anna si comunicò. Anche Antonino, poichè non arrivava alla grata, andò dentro al confessionario e si accusò, fra le altre cose, di aver ammazzato tre lucertole e sotterrato un grillo vivo.
Il più bello si fu che Caterina inginocchiata lì davanti sentì tutta la confessione del fratellino, e appena tornati a casa, dopo aver baciato la mano a tutti chiedendo perdono, spifferò i peccati del bimbo, suscitando un chiasso dell'altro mondo. Antonino si mise a piangere e la madre diede una severa lezione a Caterina.
Ma tutto questo non poteva turbare la mistica pace dello spirito di Anna, ancora in estasi. Seduta al sole, ella faceva la calzetta e recitava la penitenza.
Quella notte, a cena, ella rifece la proposta di mandar via Elena, ma lo zio si oppose fermamente, e sorrise pensando che forse l'idea di Anna era effetto della confessione. Infatti, il confessore aveva detto all'orfana di rendersi utile in famiglia.
Anche Paolo Velèna, come sua moglie e le figliole, professava aperti sentimenti religiosi. Cesario invece, posava ad ateo e ripeteva le frasi dei giornali anticlericali, senza forse capirle. Sebastiano se lo si tirava in ballo diceva sorridendo che egli era semplicemente cristiano e che desiderava il lavoro ed il benessere scompartiti fra tutti gli uomini.
Il venerdì ed il sabato non si mangiava carne in casa Velèna.
La sera della confessione delle signorine, il giovedì santo, le domestiche servirono a tavola del merluzzo fritto e noci, insalata, tonno all'olio e sapa per bagnarvi il pane. Le donne, come si usa in Sardegna, bevevano pochissimo vino.
Dopo cena chi leggeva e chi giocava a carte; quella notte nessuno volle giocare, perchè il gioco delle carte, anche senza scommessa, veniva considerato come un lieve peccato.
*
— Ma perchè non esaudisci il desiderio di Annicca? — domandò Maria Fara al marito quando furono nella loro camera.
— Non vedi dunque che è una ragazzina debole, una bambina? Come vuoi che sopporti le seccature del piccino? Ha bisogno ancora di giocare e ne ha anche voglia, credilo pure. Eppoi vuoi che te lo porti a passeggio, come fa la servetta?
— No, lasciamo andare. Oggi Annicca dice così, ma un altro giorno potrebbe rinfacciarmi di averla collocata al posto d'una serva....
— Non lo credo. È d'indole buona — rispose Maria, un po' contrariata.
— Appunto perciò non dobbiamo abusarne — osservò Paolo Velèna montando l'orologio come faceva ogni notte e mettendolo nel portaorologio di semi di mellone legati con fili d'oro.
Maria spense il lume e accese la lampada da notte messa dentro il camino per miglior sicurezza.
Nella penombra quasi rosea, ove il letto biancheggiava con una dolce aria di riposo, Maria ebbe il coraggio di esporre al marito il suo desiderio, che era quello di risparmiare davvero la spesa di Elena, giacchè si poteva farlo.
Maria Fara era ancora una bellissima donna bruna, alta e forte, mentre Paolo era piuttosto piccolo e delicato. Egli adorava sua moglie, tuttavia non si lasciava dominare da lei. Non le confidava i suoi segreti di commercio e non le dava tutte le soddisfazioni che ella voleva. Perciò forse Maria aveva più stima di lui e gli dimostrava quel rispetto che rende meglio apprezzata la moglie.
— Ma no! — esclamò Paolo, con la voce leggermente aspra. — Tu credi forse che Anna sia a carico nostro?
Più dolcemente le disse poi che dell'eredità della vecchia donn'Anna, ad Annica sarebbe forse toccato un salto di quercie. Questo salto non rendeva nulla, per adesso, ma del taglio del bosco si poteva ricavare una buona somma.
— Io metterò il piccolo capitale ricavato, in commercio. E certo che il tanto per vivere onestamente glielo produrrà, ad Anna, capisci....
Maria capì e non fece più parola.
Mentre si ragionava così seriamente di lei, Anna pregava, già a letto, e Caterina pensava alle ragazze d'uovo e agli altri dolciumi che dovevano farsi per la Pasqua.
Infatti il sabato fu acceso il forno e Maria con le figliole e la serva fecero il pane e i dolci pasquali. Le ragazze d'uovo erano strane figurine di pasta, in forma di bimbe fasciate, con un uovo per testa e due o tre mandorle ficcate lungo il dorso.
Quando verso sera venne il sacerdote per benedire la casa gli diedero dolci, uova, e gettarono del denaro entro il secchiello dell'acqua santa.
Caterina prese un po' di quest'acqua e la gettò nel pozzo.
— Così tutta l'acqua è benedetta e non verrà mai meno.
Il giorno di Pasqua furono mandati pacchi di dolci a Cesario, e Sebastiano potò il pergolato. L'orto era già tutto nuovamente piantato; il sole faceva scintillare la brina che imbiancava i solchi regolari, su cui tremolavano le piccole foglie degli erbaggi, e i mandorli ora esultavano di un verde tenero e lucente. E il buon Gesù, che in inverno copre i tetti del povero con morbidi tappeti di velluto verde, risorgeva tra la letizia dei biancospini fioriti, dei fiori del pesco che si disegnavano come mazzi di rose sull'azzurro profondo del cielo.
Passata la quaresima e tornati i tiepidi giorni d'aprile, Caterina e Antonino ripresero a giocare pazzamente nell'orto e fuori dell'orto, nella china che metteva sullo stradale. Annicca si divertiva con loro. Pareva che la primavera la facesse ridiventar bambina.
Dall'una alle due, dalle quattro sino all'imbrunire, Antonino, Caterina ed Anna non si trovavano in casa neanche a pagarli un occhio.
Ove sono, ove non sono? Maria Fara usciva nell'orto e li chiamava a voce alta. Qualche volta la testolina di Caterina appariva dietro il muro, in mezzo ad un cespuglio di biancospino che sbatteva già i fiori, e la bimba rispondeva: — Ora veniamo! — Ma non rientravano punto.
Una ignota malia era laggiù, in quel lembo selvaggio di campagna. Dallo stradale si vedevano benissimo quei tre folletti coi capelli al vento; correvano rapidi, arrampicandosi come capre e non si facevano mai male. La sera tornavano con le vesti lacerate, con le unghie sporche di terra e le scarpe rotte. Ogni castigo, ogni avvertenza riusciva vana.
Laggiù c'era una specie di grotta dove i piccoli Velèna accendevano il fuoco e preparavano la merenda: qualche volta invitavano le amiche che passavano per caso nello stradale. Spesso Caterina e Antonino tornavano di scuola con due o tre compagni che conducevano nell'orto. Pranzi, cene, partite da caccia, rappresentazioni e giochi si succedevano vertiginosamente. Si cantava in coro, si diceva la messa e si eseguivano dei funerali.
Qualche volta Anna si stancava e si appoggiava al muro donde dominava la scena, coi foltissimi capelli semisciolti, presa da un improvviso malumore, mentre Caterina, inebbriata dal gioco, saltava, gridava, volava. Quasi tutti i giorni accadevano delle liti, o fra Antonino e Caterina, o fra Caterina e Annicca.
Uno di essi allora rientrava a casa piangendo, ma siccome nessuno gli dava ragione, finiva col tornar laggiù.
— Non studiano, non lavorano, non pensano a nulla, — diceva la signora Maria, desolata. — Hanno viziato anche Anna, che quando è venuta pareva una donnina fatta.
In realtà Anna, che si vantava di far una calza in otto giorni, ne aveva cominciata una da più di un mese, ed era tutt'altro che avviata alla fine.
Neppure il caldo, il sole, l'afa, poterono impedire ai tre ragazzi le loro scorrerie. I passatempi dell'inverno erano del tutto dimenticati. Non più gioco di carte, di dama, di domino. I gattini, le galline, il cane, persino le bambole, come se non esistessero.
A costo di buscare un malanno stavano sempre là — anche di notte, ora che le notti erano chiare, profumate e calde.
Al tempo degli esami si ebbe un po' di tregua, e Caterina non parlò d'altro. Diventò seria e preoccupata. Fu approvata, così, così, senza lode e senza biasimo, — ma Antonino, come era da prevedersi, fu bocciato. Tornò a casa pallido come un morto.
— Sta bene! — gli disse freddamente il babbo. — Riuscirai un buon prete....
Egli diventò livido. La minaccia di metterlo in Seminario era per lui qualche cosa di tremendo. Promise di studiare nelle vacanze, ma tre giorni dopo, Tele 'e gardu, come era chiamata la china dei giochi, risuonò più che mai delle sue strida, della musica delle sue ocarine di canna e dello stridìo dei grilli fatti prigionieri.
*
Quando Cesario tornò per le vacanze, in luglio, s'avvide che Anna era diventata una donnina di casa. Nè lui, nè gli altri di casa le davano più soggezione, e Cesario ne parlò con sua madre, di cui egli era il beniamino. Maria gli spiegò come andavano le cose; il salto, secondo le previsioni, era toccato ad Annicca, e Paolo Velèna ne aveva già ideato il taglio. Quindi Anna non viveva a carico di nessuno.
— Purchè non prenda arroganza, — osservò lo studente.
— Speriamo di no.
Pochi giorni dopo Cesario disse:
— Vedo che Sebastiano ed Anna vanno molto d'accordo. Finiranno col maritarsi assieme....
Maria Fara scosse la testa. No, Anna aveva istinti signorili e avrebbe preteso un impiegato non un proprietario-agricoltore qual era Sebastiano, al quale poi conveniva una moglie forte, magari una paesana ricca e ignorante.
— Con te, meglio, — osservò Angela presente al discorso. Ma Cesario sorrise. Egli faceva già all'amore con una signorina nobile di Cagliari, una vera signorina che gli scriveva su carta fiorita e profumata.
Del resto questa era una passione superficiale, come tutti i sentimenti di Cesario. Egli diventava sempre più bello e più scettico, e il pallore dorato del suo volto, lo splendore degli occhialini che celavano due grandi occhi foschi e miopi, i suoi baffetti crescenti attiravano l'attenzione di tutti. A Orolà si annoiava a morte. Trovava che tutta la gente era codina e stupida, e perciò rimaneva intere giornate rinchiuso nella sua camera, leggendo romanzi di ogni genere che lo tuffavano in sogni strani e irrealizzabili.
Questi sogni, — la visione continua e tormentosa di un mondo diverso, ove non fossero le opprimenti mediocrità della vita che lo circondava, — erano il segreto del suo pessimismo e della sua superiorità.
Sebastiano invece diventava fisicamente un giovane forte; con certe spalle erculee da contadino egli tuttavia restava un bambino calmo e soddisfatto.
Non era punto bello come Cesario; le veglie e lo studio non cerchiavano d'azzurro i suoi occhi acuti, neri e limpidi, ma la salute e la forza fiorivano sulla sua persona muscolosa, sulla sua fronte abbronzata, sulle sue labbra rosse. I suoi denti smaglianti scintillavano ad ogni sorriso.
La vita proseguiva eguale, monotona e calma. V'erano certi meriggi, quando le finestre stavan chiuse e tutti facevan la siesta, in cui pareva che la casa dei Velèna fosse disabitata.
Nei giorni afosi di agosto Lucia ed Angela finivano con l'annoiarsi, Caterina ed Antonino sparivano negli angoli della casa, vagando silenziosamente come anime dannate, senza trovar pace, ed Anna sdraiata sotto il pergolato stava immobile, a occhi chiusi come un corpo morto, oppressa da una misteriosa stanchezza.
Sebastiano usciva a cavallo, la mattina per tempo, e tornava di sera. Allora un alito fresco di vita pareva sfiorasse l'anima dei piccoli ed anche dei grandi. Nel cortile rinfrescato la luna proiettava una luminosità tenue, bianca, tutte le porte e le finestre erano spalancate al fresco, e Caterina gettava piccole grida di gioia.
Il cavallo scalpitava sul selciato della corte e Sebastiano andava a lavarsi il volto abbronzato dalla polvere e dal sole nell'acqua del pozzo. Il segreto della sottile allegria venuta col ritorno di Sebastiano stava nei cestelli di canna messi dentro la piccola bisaccia bianca a fiorami rossi. Perchè Sebastiano li riportava sempre pieni delle prime frutta. Albicocche e susine, fichi, more bianche e persino i primi grappoli d'uva. Si faceva la raccolta delle mandorle, allora, e Sebastiano faticava più che mai dando ordini e aiutando i raccoglitori. Ritornava stanco morto: dopo cena andava a letto e dormiva profondamente.
Cesario ne provava invidia e qualche volta anche si accusava di poca coscienza perchè egli sprecava tanto denaro, mentre Sebastiano lavorava come un servo.
Un giorno volle provare la vita di campagna. Saltò a cavallo e seguì Sebastiano. La vista dei raccoglitori di mandorle, gente povera ed affamata, vestita di stracci, che mangiava pan nero senza companatico, lo commosse alquanto e gli fece percepire il suo stato felicissimo a confronto del loro. Poi si annoiò. La campagna era secca, arida, triste. Il sole saettava fuoco attraverso il bosco polveroso dei mandorli. E nella luminosità afosa del pomeriggio i campi gialli di stoppia, di spighe selvatiche pungentissime, di cardi secchi coperti di una triste fioritura violacea assumevano per Cesario un aspetto orrendamente desolato ed arido.
Pensò con nostalgia alla sua camera fresca e silenziosa, e una grande tristezza lo invase guardando Sebastiano smarrito fra quella turba di gente misera curva al suolo.... Allora Cesario si allontanò: vagò nel sole e cercò il fiume, le cui rive coperte di sambuchi, di oleandri e di capelvenere gli diedero un po' di sollievo. Ma ebbe il torto di tuffarsi nell'acqua d'argento, i cui meandri imperlati dal sole ridevano con un sorriso malefico. Cesario colse le febbri. E dopo quel giorno ogni istinto campagnuolo, se pur egli ne aveva ereditato da suo padre e dai nonni, si estinse in lui.