Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
La fuga in Egitto
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Quando si accorse del contadino, il maestro gli accennò con la testa di andarsene, per non disturbare il sonno di Ornella: poi sollevò il lembo del cappotto. Aveva continuamente paura di soffocare il bambino: d'altronde non poteva deporlo sul lettuccio troppo stretto della madre, e giù non voleva portarlo.

Ma aspettando che tornasse la levatrice, e ormai sicuro che giù Proto provvederebbe alle faccende di casa, si abbandonò ai suoi pensieri.

La levatrice s'era presa l'incarico di denunziare al sindaco la nascita del bambino, e anche su questo punto egli era tranquillo. Nel fagotto di Ornella, poi, aveva ritrovato abbastanza denari per provvedere alle spese più urgenti. L'unico suo desiderio era che non tornasse Antonio; eppure la sua assenza, dopo tutte le smargiassate della sera prima, lo colpiva al cuore. Ma che importava? Tutto è per volontà di Dio, ed egli oramai si sentiva una forza straordinaria che lo rendeva sicuro di poter difendere, a tutti i costi la creatura affidatagli dalla sorte.

Anche Ornella, che dormiva sul solo guanciale delle sue treccie schiacciate, pallida, con la bocca semiaperta come quella dei bambini addormentati, gli destava una grande pietà. Gli pareva che col sangue versato e col dolore sofferto ella si fosse svotata del male, e purificata; ed era , immobile, come una statua di cera ch'egli poteva modificare a suo gusto. Aveva perduto anche quel suo respiro grosso, e la fronte e il naso avevano una linea infantile.

Ed ecco, d'un tratto, egli, non sa perchè, si rivede nella scuola del villaggio. Cinque bambini poveri, tutti brutti e insolenti, siedono ai banchi, e lo fissano deridendolo.

– Già, – dice uno di essi, il più piccolo e cattivo, – vossignoria don Giuseppe, che non ci poteva vedere, adesso deve fare da balia a quel marmocchio spelacchiato.

Gli altri ridono: uno dei ragazzi beneducati, di quelli benestanti, si alza e comincia a fare orribili smorfie.

– E a me il latte non me lo , vossignoria?

Tutta la classe è presa da un'epidemia di riso e di smorfie: qualche ragazzo gli butta addosso ghiande e olive guaste, cercando di colpire più che lui il bambino. Egli tenta di alzarsi, ma non può, anzi non vuole, e ripara con le braccia riunite la creatura presa di mira.

– Anche questo è un castigo, – pensa, – poichè io non ho amato i fanciulli.

D'un tratto qualcuno sale la scaletta: s'affaccia all'apertura del soppalco la bella testa di Ola, coi riccioli neri e gli occhi d'oro bruno: egli sente di arrossire e cerca di nascondere meglio il bambino: ma Ola sa tutto, salta in mezzo al soppalco e dice:

Dammi una canna per difendere contro quei macacchi il mio fratellino.

I ragazzi però sono scomparsi, e al posto della scuola c'è il mare, con le onde agitate. I ragazzi sono scomparsi: dove? A lui pare che gli siano saltati tutti sulle ginocchia, nascondendosi fra le pieghe del cappotto: e questo gli pesa, tende a scivolare giù, e gli scivola, infatti, e il bambino ne schizza fuori in pezzi, tutti lividi e insanguinati.

Si svegliò spaventato dal suo momentaneo sopore, e sollevò ancora il lembo del cappotto come per assicurarsi che il bambino era intatto. Era , con la grossa testa dentro la cuffietta di lana rossastra: teneva gli occhi aperti, senza espressione, e questi occhi e il visetto lucido e rosso come sbucciato di una seconda pelle, rassomigliavano stranamente e quelli della bambola di Ola.

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