Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
Ferro e fuoco
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Due giorni a Stoccolma

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Due giorni a Stoccolma

 

Nelle notti lontane dell’adolescenza sognavo spesso una casa bellissima: sale e sale, coi mobili d’oro e di legno lavorato, i pavimenti luminosi, le vetrate che si aprivano su terrazze fantastiche degradanti al mare. Il luogo non mi apparteneva: eppure io sola l’abitavo, e ne provavo un senso di felicità e di smarrimento assieme. Reminiscenze della recente infanzia, delle narrazioni fiabesche importate dall’Oriente, ricche di palazzi incantati; germi di ambizione e credenze superstiziose, rinforzate dalle profezie bene auguranti della balia, destavano poi disagevole l’umile realtà della nuda casa paterna.

Ed ecco la sera del nove dicembre del 1927 il sogno si rinnova, con la meravigliosa consistenza della realtà. Già tutta la realtà, da un mese a questa parte, si fonde per me con un senso di fantastico che riporta la gioia e lo sgomento degli squilibri psichici dell’adolescenza.

È vero? Non è vero? Il lungo viaggio da Roma a Stoccolma, incerto fino all’ultimo momento, si è compiuto come una breve gita di piacere: la traversata del Baltico, di questo mare che la fantasia vedeva mortalmente nero tempestoso, si è mutata in una pacifica notte di sonno; la Scania, la Lombardia svedese, ha steso da una parte e dall’altra del caldo e soffice treno i suoi paesaggi chiarissimi sotto il cielo di metallo appannato, coi profili vaporosi delle città, la nota rossa delle case dei contadini, le foreste d’abeti fiorite delle prime nevi, i campi d’orzo e di grano già verdi sotto un velo di brina, i mulini a vento che sull’orizzonte delle fertili piante addormentate giocano come i bambini irrequieti nelle sere di luna estiva, quando la madre stanca sonnecchia sulla soglia della porta. Poi il lungo e lento crepuscolo ha dorato e confuso il cielo la terra e le cose: le muriccie lungo i margini dei prati e sui rialti al confine dei boschi rassomigliano a quelle delle tancas di Sardegna; una capanna scavata nella roccia, con una quercia che cresce sul tetto di terra, appare e scompare in una visione allucinante. Affiorano alla memoria i ricordi lontani; poi il cielo si scolora e si spegne; e sulla stoffa dei sedili dello scompartimento le tre corone scandinave, intrecciate all’alloro, mi richiamano ancora alla realtà del luogo e del tempo.

 

Realtà che di nuovo si muta in una allucinazione fiammeggiante all’arrivo a Stoccolma.

Ai piedi del treno, che si è fermato di botto come sventato anch’esso dallo spettacolo, mi trovo, piccola e sgomenta, tra una folla di giganti. Un chiarore di incendio illumina lo scenario magnifico: fiori dai colori italiani, fiori dai colori svedesi, rosso e azzurro, verde e bianco ed oro, mi avvolgono come un solo stendardo: un viso leale e forte si piega sul mio e due occhi di fanciullo mi sorridono, mentre la bocca, che ha la piega maliziosa dei giovani contadini della Dalecarlia, pronunzia parole di saluto. È la Svezia stessa che mi il benvenuto con la voce del suo grande poeta, del poeta della terra, dell’amore puro, dell’amicizia dell’uomo con Dio: Karlfeldt.

E adesso sono nel palazzo incantato dei sogni dell’adolescenza. La sua leggenda è recente: un principe di sangue regale lo fece costrurre per passarvi la vita con la donna amata. La vita però è felina, crudele anche coi principi innamorati: divise i due sposi, li mandò uno di qua e uno di per il mondo. Adesso la villa, che è tutta una gemma di luce e di buon gusto, appartiene al Governo italiano; di nuovo due principi sposi ne accrescono l’incanto: don Ascanio Colonna, ministro d’Italia, e la principessa Elly per la quale Gabriele d’Annunzio ha evocato l’uva di Corinto, il grappolo bruno e azzurro che a sua volta ricorda

la forca della rondine che vola.

Dalle grandi vetrate della villa, di delle terrazze e dei giardini bianchi di marmi e di neve, si gode giorno e notte uno dei più fantastici paesaggi di Stoccolma: il golfo sempre sfolgorante di riflessi, con altri castelli regali, le isolette coperte di ville e giardini: piroscafi e vaporetti colorati solcano di continuo le placide acque d’argento: d’argento è pure l’aria il cui silenzio è rotto solo dal grido invernale delle cornacchie.

Questa impressione di silenzio ci segue anche nelle strade più animate della città: la neve copre le case, i viali, gli alberi; la gente cammina rapida, e gli stessi ragazzi, che attraversano il parco di Djurgärden o sulle rive del lago di Mälar gettano pezzi di pane alle anitre selvatiche, sono silenziosi e quasi austeri.

Nel mattino rigido e bianco l’aspetto della città continua ad apparirmi con un colore fiabesco, quasi lunare; i doppi cristalli delle finestre senza persiane riflettono la luce gelida ma perlata del cielo, e l’atmosfera, al contrario di quella di altre grandi città, è pura come in piena campagna.

Ecco il Castello Reale, che sorge dalle acque e vi si riflette intero, sfiorato dal volo dei gabbiani come nel celebre quadro del Principe Eugenio; ecco il Palazzo di Città coi suoi portici medioevali e la torre che gli l’imponenza religiosa di un tempio; ecco il Pantheon svedese, la chiesa di Riddarholm, dove sono sepolti Gustavo-Adolfo e i Re suoi discendenti: e via via in fugace visione gli altri monumenti, dal Riddarhuset (il palazzo dei Nobili) ai vari Musei, fra i quali il più interessante è quello del Nord, vigilato dalla grande e significativa statua in legno di Gustavo Vasa, e intorno il caratteristico Skausen «musée de plein air» dove sotto gli abeti del grande parco nevoso sorgono le casette, le torri, la chiesa in legno delle antiche regioni popolari agricole e patriarcali: la Svezia di Selma Lagerlöf.

Nel pomeriggio, che è già velato dal crepuscolo e dal velo della neve cadente, si attraversa di nuovo la città, dalla vecchia Stoccolma tradizionale coi ponti alti e le lunghe case di legno, basse e istoriate, alla Kungsgatan modernissima illuminata a giorno come un teatro in serata di gala. Le vetrine sembrano salotti pieni di donne eleganti, o serre di fiori e di frutta miracolose. Tutta la città è in festa per il prossimo Natale, e file e festoni e alberi di lumi colorati sfolgorano nelle larghe strade e nelle piazze senza sfondo. È la lotta della luce contro le tenebre delle lunghe notti polari: e la capitale della Svezia, che senza dubbio è la città più civile e raffinata del mondo moderno, ci appare ancora una volta nella tradizionale bellezza delle sue leggende romantiche: ci ritorna alla memoria un disegno di Gunnar Hallström, la giovinetta incoronata di lumi accesi, col vassoio sul quale ci offre il caffé caldo che sveglia lo spirito intorpidito dal gelo.

Attraverso queste luci e queste significazioni della metropoli ospitale, si arriva al Palazzo dei Concerti, dove ha luogo l’assegnazione dei premi Nobel. La folla delle grandi occasioni, quella dei sudditi che aspettano il passaggio del loro Re come i fedeli che nel simbolo del Re vedono Dio, circonda la piazza e annerisce i marciapiedi delle strade intorno all’edificio. Gli Svedesi tutti sono orgogliosi di questa festa dell’ingegno, della scienza, della regalità. I giornali italiani ne hanno riprodotto gli echi, e non spetta a me, in questo momento, descriverla. Ricordo solo che quando i Re e i Principi di Svezia e le bellissime Principesse si alzarono per accompagnare con la voce del loro spirito l’Inno reale svedese suonato dall’orchestra di Corte e cantato sottovoce dalla folla degli invitati, un fremito di passione religiosa fece vibrare la sala, come se un canto d’organo, trasportasse in alto, fuori del tempo e dello spazio, le anime dei potenti della terra e quelle degli umili ricercatori della perfezione umana, fuse in una sola aspirazione del divino.

 

E qui credo utile per i lettori ridiscendere nei campi coltivati della storia e ricordare che la Dinastia svedese ha origini latine.

Carlo Giovanni Bernardotte, Maresciallo di Francia, Principe di Pontecorvo, fu poi Re di Svezia e Norvegia col nome di Carlo XIV.

Nato nel 1764 a Pau, rivoluzionario, arriva al grado di colonnello. Milita nell’esercito del Reno: coraggio e talento militari. Durante la spedizione in Italia disse di Napoleone: «Ho veduto un uomo dai ventisei ai ventisette anni, il quale vuole avere l’aria di averne cinquanta; e ciò mi fa presagire poco bene per la Repubblica». Napoleone disse di lui: «Testa francese posta su un cuore di romano». Nella spedizione d’Italia si distinse al passo del Tagliamento e alla presa di Gradisca. Fu antinapoleonico e prese parte alla congiura di Moreau. Napoleone lo perdona. Nel 1804 lo nomina Maresciallo, e, dopo la battaglia di Austerlitz, principe di Pontecorvo; poi, per accresciuti sospetti di poca fedeltà, lo esilia. Gli Svedesi lo creano loro Re, grati per la moderazione con la quale egli condusse la guerra contro di essi quando, nel 1810, a Gerolamo IV sostituirono Carlo XIII di Svezia quale Principe reale.

Bernardotte si fa luterano. Combatte contro la sua patria insegnando agli alleati la tattica che aveva appreso alla scuola napoleonica. Fu riconosciuto dalla Corte di Svezia quale Re, nel 1818, alla morte di Carlo XIII. Riunì con un canale l’Oceano Atlantico al Baltico, e fu questa l’opera più grande della sua vita. Alto e prestante, acceso di pelo e di carnagione, abile spadaccino, uomo politico, guerriero e gentiluomo perfetto, creò una dinastia di Re e di Principi coltissimi, artisti, vigorosi di corpo e di spirito.

 


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