IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
L'indomani mattina egli attese invano Maria. Scese zia Luisa, gli diede un po' di chinino e lo incitò alla partenza.
«Anche Maria ha avuto la febbre, stanotte. Non ha riposato un momento.»
«Febbre d'amore», disse Pietro, accingendosi alla partenza. «Spero mi farete ritornare per le nozze.»
«Va là, per le nozze faremo il pane col grano che tu semini!»
«Allora io sarò morto», disse Pietro, avviandosi.
«Curati; hai davvero una brutta cera, figlio caro», rispose zia Luisa, senza che il suo viso scialbo esprimesse la minima espressione di affetto per il servo sofferente. «Curati, hai capito? Per lavorare occorre della gente sana.»
Per via Pietro fu ripreso dalle sue smanie. Dunque Maria si nascondeva: era decisa a non accordargli più un colloquio. Come fare?
«Ritornerò, qualche altra volta; ma ella starà in guardia. Ah, se sapessi scrivere! Che lettera le manderei, scritta col mio sangue!... Come farò dunque?», pensava, disperato. «Come farò, come vivrò?»
Gli venne in mente di nascondersi in qualche casa vicina, e di là mandare a chiamar Maria.
«Ma come scusarmi coi vicini? Eppoi ella starà in guardia, non verrà, e si offenderà del mio procedere.»
Ma poi ricordava le parole della padrona vecchia: «Per le nozze di Maria faremo il pane col grano che tu semini», e un barlume di speranza gli rischiarava la mente.
«C'è tempo, dunque. Aspettiamo.»
E così ritornò al suo posto di lavoro, e seminò con amarezza il grano che «doveva servire per fare il pane delle nozze».
Ah, avrebbe voluto avvelenare o gettare al vento la semente!
I giorni passarono, lenti, eguali, tristissimi. Nei violacei crepuscoli dell'altipiano la figura del servo tradito appariva sempre più cupa, dura e nera; quando egli si fermava su qualche roccia e scrutava l'orizzonte con occhi melanconici e selvaggi sembrava la statua dell'odio.
Odiava tutti: zia Luisa, la grassa adoratrice del denaro, per la quale un uomo povero era un essere incompleto; zio Nicola, che aveva saputo conquistare con la sua bellezza e la sua audacia una donna come sua moglie; Francesco, «l'avvoltoio», Maria, che s'era lasciata afferrare da questo uccello di rapina. Anche lei, sì; lei più di tutti, in certi momenti; ma anche durante questi impeti d'odio, che gli ricordavano i suoi primi giorni d'amore quando aveva desiderato Maria con l'ardore selvaggio di un predone, la passione lo dominava, feroce. Allora egli ritornava l'uomo primitivo: tutto quanto v'era di generoso in lui, e quell'istinto di bontà quasi femminea che lo aveva ingentilito durante il periodo felice del suo amore, tutto cadeva, come al cessare della primavera cadono le ali delle farfalle. Resta solo il bruco, immondo e devastatore.
Sogni tormentosi turbavano il suo riposo: le sue notti erano più tristi dei suoi tristi giorni.
Quasi sempre sognava un corteo di nozze che attraversava l'altipiano e calpestava il grano nascente: egli s'adirava, prendeva un fucile e colpiva lo sposo. Una notte, poi, sognò una lunga strada grigia, fra due siepi nere; una via senza fine, che attraversava tutto il mondo. Egli la percorreva, con un fascio di legna sulle spalle, come usava portarlo da bambino, quando per aiutare in qualche modo sua madre andava a raccogliere rami d'elce sulla montagna.
Cammina, cammina, veniva la notte, la strada non terminava mai. Egli aveva fame, sudava, tremava di stanchezza; la strada non finiva, e d'altronde egli non sapeva dove era diretto.
Laggiù, in fondo, dove il cielo scuro confinava con le siepi nere, si nascondeva un fantasma terribile come i fantasmi dei quali egli aveva paura da bambino, al cader della sera, quando scendeva col suo carico di legna dall'Orthobene.
Dopo questi sogni da febbricitante si sentiva debole, languido; ma allora gli pareva di diventare astuto, la sua mente si affinava, progetti da delinquente esperto gli fermentavano nella mente.
Appunto in uno di questi momenti di languore fisico, dopo aver ucciso Francesco Rosana in sogno, egli previde ciò che sarebbe accaduto dopo.
«Mi arresteranno, mi condanneranno; passerò la vita in reclusione. A che servirà la vendetta? Sarà peggiore della sventura. No, bisogna essere astuti; astuti come le donne. Vedi», diceva a se stesso, «vedi come è stata furba e maligna Maria? Mi ha tradito, ha tessuto la sua tela senza farmi sospettare di niente. Io non riuscirò neppure a chiederle: 'perché hai fatto così?'. Eppure mangio il suo pane e dormo sotto il suo tetto. Mi ha tradito senza che io me ne accorgessi. Bisogna che anch'io diventi maligno, calcolatore, astuto...»
E diventava maligno, calcolatore, astuto; e il suo dolore aumentava, cresceva nella solitudine, liberamente, come era già cresciuto il suo amore: come una pianta selvatica...
Una notte egli ritornò in paese: questa volta però non lo spingeva un impulso cieco, ma un desiderio angoscioso di riveder Maria, di muoversi, di combattere contro il destino.
Legò il cane e partì; arrivò in paese verso le nove. Il portone dei Noina era chiuso. Egli picchiò, con la speranza che aprisse Maria; un barlume infatti illuminò la facciata della casa, al di sopra del muro del cortile, ma subito si spense: nessuno venne ad aprire.
Senza dubbio Maria, uscita nel cortile, indovinando chi era che picchiava, si era ritirata senza aprire.
Un impeto di rabbia assalì Pietro: gli venne il desiderio di abbattere il portone a colpi di pietra; ma poi pensò:
«A che serve? Uno scandalo inutile. Bisogna essere astuti. Vedi come è astuta, lei? Ah, come è astuta!».
Allora s'avviò verso la casetta delle zie, evitando i radi passanti per non essere riconosciuto. Anche la casetta delle sue parenti era circondata da un cortile aperto; le due vecchie vegliavano ancora nella cucina appena illuminata da un fuocherello di sarmenti.
Pietro conosceva la casa a menadito: salì cautamente la scaletta esterna ed entrò nella cameretta da letto che dava sul ballatoio di legno. Al buio trovò l'arca di legno nero, ove le due vecchie riponevano i loro stracci. Egli l'aprì e cercò la pistola del bandito.
Zia Tonia conservava quest'arma come una reliquia; Pietro gliela portò via senza scrupolo. Fu il suo primo passo.
Ma, non seppe perché, quando si trovò nella valle, lungo i sentieri selvaggi appena rischiarati dal fantastico chiarore della luna che or sì or no appariva fra grandi nubi livide, egli ricordò vagamente il sogno della via grigia senza fine, animata da fantasmi.
«Dove andrò, dove finirò?», si chiese istintivamente.
La strana notte autunnale, in quella valle nuda e desolata, rinnovava la misteriosa suggestione del sogno. Pietro palpava la pistola e a momenti, fermandosi dietro qualche macchia, aveva l'impressione che il suo rivale gli passasse davanti, nel chiarore vago del sentiero silenzioso: egli sollevava l'arma e sparava. Un grido interrompeva il silenzio pauroso della valle; poi di nuovo tutto taceva.
Egli sentiva il cuore battere violentemente: gli sembrava di aver già commesso il delitto. Ma poi si scuoteva, si svegliava dal suo sogno malvagio e riprendeva la via.
«Che accadrà di me? Dove andrò? Dove finirò?»
E camminava, camminava, sotto quel cielo misterioso e macchiato: camminava su pei sentieri selvaggi, ora bui, ora illuminati da un chiarore azzurrognolo di luna fuggente. Anche nella sua anima regnava una luce vaga, che talvolta si estingueva completamente: e davanti a lui si stendeva, interminabile e misteriosa come nel sogno, la via del male.
L'indomani, dopo aver esaminata l'arma ancora servibile, la nascose fra due pietre concave, in una macchia folta e inesplorata. E riprese il lavoro. Gli pareva di essere un altro, di essersi svegliato da un lungo sogno.
«Come ero stupido!», pensava. «Avrei potuto esser felice e non ho voluto. Ah, il giorno in cui ella venne nella vigna! Avrei potuto diventare il suo amante, costringere i suoi parenti a lasciarci sposare, e invece... invece sono stato stupido come un fanciullo... Ma guai, guai! Io ero simile al cane che dorme: voi mi avete svegliato con una sassata... Ah, tu non hai voluto aprire la tua porta, Maria Noina: è giusto, tu sei la padrona, io sono il servo. Ma bada a te, donna: tu ti sei presa gioco di me, ti sei divertita; hai voluto i miei baci, ed ora mi chiudi la porta. Furba sei stata, ma adesso m'insegni... Sarò astuto anch'io...»
Ma mentre pensava così sperava ancora. Ah, se avesse saputo scrivere!
«Ritornerò», pensava. «Verrà l'inverno, dormirò ancora sotto quel tetto fatale. Riuscirò a parlarle, le dirò tutto ciò che mi rode il cuore...»
Intanto lavorava. Era una giornata triste, livida e fredda. Verso sera soffiò il vento di tramontana, ed egli volle accendere il fuoco. Ma si accorse di aver smarrito l'acciarino, probabilmente durante la sua gita a Nuoro, e si avviò verso una capanna di contadini nuoresi che lavoravano un terreno attiguo al terreno seminato da lui.
Voleva domandare in prestito un acciarino o farsi dare un tizzone ardente.
La notte era fredda e buia; giù dai monti di Orune la tramontana gelata soffiava con impeto pazzo. Pietro trovò i contadini riuniti intorno ad una fiammata di ginepro, al cui profumo si mischiava un odore di grasso bruciato.
Il fumo riempiva la capanna, scossa da un vento furioso che pareva volesse portarla via: i contadini, seduti accanto al fuoco, facevano arrostire due intere cosce di pecora infilate in lunghi schidioni di legno.
Vedendo Pietro si confusero alquanto, ma poi risero e lo invitarono a cena.
«Che odore di carne rubata», egli disse, prendendo un tizzone.
E stava per andarsene, ma i contadini dissero:
«Se non accetti il nostro invito crederemo che vuoi farci la spia. Resta: la carne rubata fa ingrassare. Eh, che, non abbiamo il diritto di mangiar bene anche noi, qualche volta? Solo i padroni devono mangiar bene?».
Pietro rimase. I contadini dissero d'aver rubato la pecora da un ovile poco distante. Ma uno esclamò:
«No, è venuta fin qui; pareva dicesse: «prendetemi e mangiatemi». Mangia, Pietro Benu; hai un viso d'affamato. Perché diventi così magro? Non ti danno da mangiare i tuoi padroni?».
«Ah, se l'avessi qui», diceva uno, strappando coi denti da lupo lunghi brani di carne dalla porzione che teneva fra le mani. «Se l'avessi qui me la mangerei come questo pezzo di carne. Io non ho mai veduto una donna più bella! Ah, Pietro, se fossi al tuo posto!»
Pietro fremeva, ma taceva. Ah, egli era stato così stupido, invece!
Anche dopo il pasto pantagruelico egli rimase nella capanna: si sdraiò vicino all'apertura otturata con rami e con pietre, e finì con l'addormentarsi. Ogni tanto si svegliava, sembrandogli di sentire Malafede ad abbaiare; tendeva l'orecchio, pensava:
«Qualcuno può rubare i miei buoi. Ebbene, che li rubi pure: qui c'è caldo, non mi muovo. Dopo tutto i buoi sono dei padroni maledetti. Vadano tutti al diavolo».
E si riaddormentava.
Ma verso l'alba si svegliò di soprassalto. Questa volta s'udiva davvero, attraverso il vento, il caratteristico urlo di Malafede: pareva una voce umana, rauca e lamentosa, e Marianedda, la piccola cagna dei contadini, simile ad una volpicina, tremava e abbaiava furiosamente.
«Che c'è?», gridò Pietro inquieto.
Strappò i rami dall'apertura della capanna e impallidì: quattro carabinieri, rigidi e bruni nel primo chiarore cinereo dell'alba, salivano l'erta.
Egli balzò fuori, ma ancor prima che si rendesse conto esatto del pericolo a cui voleva sfuggire, si trovò preso.
Anche gli altri contadini furono subito arrestati; la carne cruda e cotta, avanzo della malaugurata cena, venne sequestrata, avvolta nella pelle della pecora rubata, e messa sulle spalle ad uno dei colpevoli.
Pietro urlava, si morsicava le mani. Invano egli e i suoi compagni protestavano la sua innocenza.
«Cammina, intanto», gli disse uno dei carabinieri, urtandolo col calcio del fucile. «Se sei innocente si vedrà.»
Egli dovette avviarsi: gli pareva di fare un brutto sogno. Rifaceva la strada tante volte percorsa così dolorosamente, e imprecava come un dannato.
«Sono dunque maledetto?», si domandava. «Chi mi ha scomunicato? Che diranno i miei padroni quando sapranno? E lei? Mi crederà davvero un ladro?»
Più giù incontrarono il padrone della pecora, il quale aveva avvertito i carabinieri.
«Bobòre», gridò Pietro, minacciando e supplicando, «io sono innocente! Fammi rilasciare o te ne pentirai! Io non ti ho mai offeso, Bobòre, te lo giuro, come è vero Dio. Lasciami libero: io sono un uomo perduto.»
«Pietro», disse il pastore, «io ti credo, ma non ho colpa se ti hanno arrestato. Io sono un povero diavolo: è la terza pecora che questi demoni qui mi hanno rubato; ora non ne potevo più.»
«L'abbiamo trovata morta, vicino alla siepe... Morta di mal di Dio...».
«Che il diavolo vi impicchi; questo si vedrà.»
«Io sono innocente», gridava Pietro.
«Cammina, intanto», ripeteva il carabiniere, spingendolo col calcio del fucile.
«Bobòre», supplicò Pietro, «va almeno dai miei padroni; va, per l'anima di tua madre, e racconta come sono andate le cose...»
Per fortuna giunsero presto a Nuoro, e quasi nessuno li vide.
Interrogati dal giudice, i contadini dissero che Pietro era innocente; tuttavia egli attese invano, per tutto il giorno, l'ora della liberazione.
Zio Nicola, avvertito, si mise in moto: andò dal giudice, consultò un avvocato.
«Che volete», rispose l'uomo della legge, «i cavilli della Giustizia sono intricati come i capelli di Medusa...»
«Va al diavolo, con le tue parole difficili», disse zio Nicola fra sé; e continuò a darsi attorno.
Ma verso sera Pietro fu dalla camera di sicurezza condotto in carcere.
Pietro sapeva benissimo che un accusato, anche se gli indizi del reato son vaghi, soffre spesso una lunga prigionia preventiva: ma non poteva rassegnarsi; l'ingiustizia gli pareva enorme. Di giorno in giorno cresceva nel suo cuore un tumulto di ribellione e di cattivi istinti. V'erano giorni in cui egli credeva di impazzire. Che faceva Maria? L'idea che ella forse si sarebbe sposata mentre egli languiva in carcere, inacerbiva la sua pena e la sua ira.
Da casa Noina gli mandavano qualche volta un po' di cibo e bottiglie di vino: zio Nicola spinse la sua benevolenza fino ad ottenere un colloquio col carcerato, e lo confortò e gli raccontò storielle allegre. Egli aveva dovuto far surrogare il servo, ma disse a Pietro:
«L'anno venturo ti riprenderò al mio servizio».
Pietro non rispose, cupo e triste; pensava a Maria, alle nozze che zio Nicola diceva prossime, e la sola idea di dover rientrare in casa Noina e assistere alla felicità degli sposi lo rendeva folle.
Qualche giorno dopo fu introdotto nella camerata di Pietro un nuovo prigioniero, non nuorese. Era un giovine svelto, sbarbato, con una fisionomia da ragazzo maligno e intelligente. Si chiamava Zuanne Antine. Appena entrato nella camerata salutò i compagni di sventura, stringendo loro la mano, chiedendo il loro nome ed informandosi minutamente dei loro affari.
Pareva volesse scegliersi un compagno, un amico, e Pietro fu quello.
«Dimmi», gli chiese l'Antine, «hai tu rubato davvero?»
«Hai fatto male! Se tu avessi rubato, ora non avresti sofferto. Così avresti avuto l'utile e il conforto.»
«Chi non ruba non è uomo!», rispose l'altro. «Dimmi una cosa. C'è o non c'è Dio? se c'è, ed è giusto, egli deve aver fatto il mondo perché gli uomini se lo godano. Quindi tutta la roba che c'è nel mondo appartiene a tutti gli uomini: basta sapersela prendere, la roba...»
«Ma vedi», osservò Pietro, «poi ci mettono in prigione.»
«Bisogna essere astuti, perciò», disse l'Antine; «bisogna sapersela prendere, la roba!»
«Ma anche tu ti sei lasciato prendere», rispose Pietro, al quale i discorsi del compagno, metà seri metà scherzosi, riuscivano ripugnanti e divertenti nello stesso tempo.
L'Antine socchiuse gli occhi maligni.
«Che ne sai tu», disse, «che io non mi sia lasciato prendere apposta? Io uscirò dal carcere più bianco d'una colomba. Io sono innocente del reato del quale ora mi accusano, e proverò la mia innocenza; un'altra volta potrò essere davvero colpevole, ma potrò dire al giudice: «Io sono perseguitato, io sono odiato e calunniato: sono innocente come lo ero l'altra volta e confido nella giustizia imparziale». E il giudice mi crederà, in fede mia, mi crederà.»
«Ma io potrò deporre contro di te, e ripetere quanto tu ora mi dici!», esclamò Pietro.
L'altro lo fissò e sorrise; i suoi bellissimi denti scintillavano nella penombra della camerata, come denti di lupo in agguato.
«Tu sarai mio amico e non mi tradirai!», disse l'Antine. «Gli uomini sono tutti fratelli e devono aiutarsi a vicenda, non tradirsi e offendersi.»
Pietro non rilevò le contraddizioni delle selvagge teorie dell'Antine. D'altronde pareva che il giovine carcerato scherzasse; e poi egli era così simpatico ed insinuante, col suo visino da bimbo malizioso, coi suoi occhi furbi, con la sua voce sonora, che tutti l'ascoltavano volentieri, quasi lasciandosi suggestionare da lui.
Poco dopo il suo arrivo egli incominciò a raccontare storie terribili di banditi, colorandole poeticamente; gli altri carcerati gli si raccolsero intorno, silenziosi e attenti.
E Pietro sentiva il suo cuore palpitare, acceso da un ardore feroce. Così gli uomini primitivi dovevano infiammarsi ascoltando i racconti di guerra, le gesta epiche, le narrazioni favolose dei padri selvaggi.
L'Antine si vantava di conoscere tutti i latitanti del Nuorese (allora infestato dai banditi), e fece vedere, estraendola dalla suola della scarpa, una lettera del famoso Corbeddu, che gli dava un appuntamento su una cima dei monti d'Oliena.
Gli altri carcerati provarono un senso d'invidia, e cominciarono anch'essi a vantarsi d'avere relazioni coi banditi.
La lettera del Corbeddu passò di mano in mano; qualcuno non sapeva leggere, tuttavia esaminava attentamente il foglio del bandito e lo toccava con rispetto. Anche Pietro guardò lungamente la lettera e sospirò.
«Questo è un uomo!», disse battendo due dita sul foglio.
E parve volesse aggiungere qualche cosa, ma improvvisamente tacque e si fece cupo.
«Ah», pensò, «quest'uomo, questo Corbeddu, non si sarebbe certamente lasciato offendere come mi sono lasciato offendere io! Egli avrebbe spazzato ogni ostacolo, come il vento spazza la paglia. Mentre io... io sono vile!»
«Ecco», disse, restituendo la lettera, «bisogna che anch'io impari a leggere e a scrivere, perché se diventerò bandito avrò bisogno di scrivere qualche lettera!...»
Egli scherzava: ma l'Antine tornò a fissarlo stranamente.
«Se vuoi», gli disse, «poiché qui ci avanza tempo, ti insegnerò a scrivere e a leggere!»
Pietro accettò con entusiasmo, e la nuova occupazione, a cui egli si dedicò con intensità profonda, gli rese meno lunghe le ore, lo assorbì, lo confortò.
Un vecchio guardiano, al quale l'Antine dava qualche bicchiere di vino, fornì ai carcerati l'occorrente per scrivere, e un sillabario e qualche numero di giornale. In pochi giorni Pietro fece progressi meravigliosi.
Alla vigilia della sua liberazione egli poté leggere e capire un'intera colonna di giornale e scrivere il suo nome e quello di Maria.
E ne provò una gioia velenosa; gli parve d'aver acquistato un'arma, buona per difesa e per offesa!
I giorni intanto passavano monotoni ed incerti; Pietro perdeva quasi la nozione del tempo; a momenti gli pareva d'essere in carcere da pochi giorni, a momenti gli pareva di essere recluso da anni ed anni.
Di notte, nel silenzio lugubre del carcere, rotto soltanto dalla voce sonora del vento e dai gridi acuti delle sentinelle, ricordava le notti passate accanto al fuoco, nella calda cucina dei padroni. E nel sonno rivedeva Maria, la baciava, spasimava d'amore.
Signore! Era dunque tutto passato, tutto finito davvero? Svegliandosi pensava a Francesco Rosana con un delirio d'odio: pronunziando il nome del rivale digrignava i denti. Accusava Francesco persino della sua presente disgrazia, pensando che se non fosse tornato una notte a Nuoro per rubare la pistola della zia, non avrebbe smarrito l'acciarino e non sarebbe andato poi in cerca di fuoco dai contadini, coi quali l'avevano arrestato.
Una rabbia cupa e concentrata, un rancore profondo, un istinto di ribellione contro il mondo e contro la sorte gli fermentavano in fondo all'anima. E sul terreno vergine di quest'anima sconvolta, le perverse teorie del compagno di carcere cadevano come semi di erbe velenose, e germogliavano subito.
«Gli uomini, siamo tutti uguali!», diceva l'Antine, talvolta scherzoso e talvolta serio, «siamo tutti eguali come i figli d'uno stesso padre. Dio è il padre di tutti, e quando fece il mondo disse agli uomini: «Ecco, figli miei, io ho fatto una focaccia: a ciascuno la sua porzione: prendetevela, figli miei». Gli uomini sono stati in parte astuti ed in parte stupidi, perché gli uni si son presa una porzione grossa, gli altri sono rimasti senza. A questi ultimi, poi, quando si lamentano, Dio dice: «Arrangiatevi, figli miei; ognuno per sé e Dio per tutti! Peggio per chi non si arrangia!».»
«Ma», osservò allora Pietro, «non basta aver della roba per esser felici.»
«Chi te l'ha detto?», esclamò l'altro con disprezzo. «Te lo sei immaginato tu, idiota? Io ti dico invece che chi ha roba ha tutto: è rispettato, amato, temuto. Persino le donne, che tante volte non capiscono niente, amano e preferiscono gli uomini che posseggono qualche cosa, anche se essi sono brutti, loschi, sciancati...»
«È vero!», disse Pietro, poi domandò:
«Perché tutto questo?».
«Perché siamo stupidi, perché non vogliamo capire che siamo tutti eguali e che il mondo appartiene a tutti. Guarda, per esempio, gli uccelli dell'aria; essi sono tutti coperti all'istesso modo e prendono il cibo dove lo trovano e fanno il nido dove loro piace. Perché gli uomini non dovrebbero imitarli? Perché gli uomini sono più stupidi degli uccelli, ecco tutto!»
«Ma infine c'è chi è astuto, come tu dici, e c'è chi è stupido. Io, per esempio, sono stupido; mi lascio offendere senza reagire, e non sono capace di prendere il bene dove lo trovo. Che colpa ne ho io? Ah sì!», disse Pietro con rabbia, pensando che se avesse voluto avrebbe potuto posseder Maria e goderne l'amore e la fortuna. «Sì, sono stato stupido sempre.»
«Si può diventare astuti, però.»
«Come si fa?»
«S'impara. Hai visto come s'impara a leggere ed a scrivere? Così!»
E a volte Pietro era tentato di rivelare all'Antine la sua passione disperata; ma non osava. In fondo conservava un barlume di speranza.
Speranza e sogno che un ostacolo qualunque potesse sorgere ed impedire il matrimonio di Maria: Francesco poteva ammalarsi e morire; Maria poteva pentirsi, ricordare, ritornare al passato. Ma intanto l'ordine di scarcerazione non arrivava mai! Perché tanta ingiustizia nel mondo?
La notizia che Maria e Francesco dovevano sposarsi presto mise il colmo al calice amaro che Pietro cercava invano di allontanare dalle sue labbra. Egli diventò furente; scosse con violenza l'inferriata del carcere quasi volesse infrangerla, e gli parve di soffocare.
Lo avessero almeno liberato! Avrebbe potuto fare, tentare qualche cosa; avrebbe pregato, minacciato, ucciso...
L'ultima settimana che passò in carcere fu un continuo martirio di rabbia. Fuori pioveva, pioveva sempre: dalla finestruola sbarrata egli non vedeva che una fetta di cielo livido, uniforme, dove solo passava qualche corvo dal grido rauco.
«Non v'è Dio! Non v'è Dio!», pensava il carcerato. «Se ci fosse non farebbe soffrire così un innocente!»
Un giorno, però, la giustizia riconobbe il suo errore, ed egli fu rilasciato libero.
«Appena anch'io uscirò dal carcere verrò a cercarti», gli disse l'Antine. «Ti proporrò un affare. Sta allegro, divertiti e ricordati di me.»
Quando Pietro rivide le note strade gli parve di destarsi da un brutto sogno, e provò la gioia del convalescente che è stato vicino a morire.
Coi nervi vibranti e il volto sbiancato dalla prigionia e dal dolore, egli s'avvicinò a casa Noina. Maria non c'era; zia Luisa lo accolse un po' freddamente, e gli annunziò che le nozze della figlia erano vicine.
«Rientrerai al nostro servizio?», ella chiese. «Ho sentito dire da Francesco ch'egli ha bisogno di un servo.»
Pietro fremette. Servo di Francesco Rosana? Mai!
«Non so; credo sia andata alla novena... Bevi dunque, Pietro: sei bianco come un agnello. Bevi; il vino ti ridonerà un po' di colore. Verrai alle nozze?»
Egli bevette, ma il vino gli parve veleno.
Uscì e attese Maria girovagando attorno alla casa, ma ella non tornò e l'ombra della sera cadde sulle cose e sull'anima di lui.
«Ella doveva essere a casa, e non mi ha neanche voluto vedere!», pensò amaramente. «Tutto, tutto è finito davvero.»
Ricordò i suoi progetti di vendetta, l'idea di uccidere Francesco prima delle nozze: e pensò che avrebbe potuto farlo quella stessa sera, mettendosi in agguato dietro il portone dei Noina...
Ecco, gli pareva di veder giungere il fidanzato, felice e sicuro; bastava un po' di coraggio per gettarsi sopra di lui e strangolarlo. E poi ancora il carcere, la reclusione, il buio eterno in questo e nell'altro mondo. Ah, no!
L'idea di ritornare in carcere era così spaventosa, che vinceva la passione e l'odio di Pietro. Egli ricordò le parole di Antine: «Bisogna aspettare l'occasione e profittarne!...»
«Sì», ripeté a se stesso, «bisogna aspettare!...»
E col cuore gonfio e l'anima avvolta d'ombra, si allontanò dalla casa fatale.