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UNA COMMEDIA INEDITA (Scherzo drammatico in un atto). ATTO PRIMO. Scena quinta. Elena, poi Adolfo e Rosa. |
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Scena quinta. Elena, poi Adolfo e Rosa.
ELENA. Rosa, Rosa, ma Rosa! (Guarda dalla finestra e si pacifica, prende il lume e lo pone sul tavolo, si guarda nello specchio; deve essersi nel frattempo cambiato vestito. A pena entra Rosa senza prima salutare Adolfo la sgrida.) Non sentivi il campanello? (A Adolfo.) Io l'ho sentito due volte e credeva che dopo la prima, con la solita calma della signorina, si fosse mossa ad aprirle. Scusi, sa.
ADOLFO. Scusi me, anzi, che sono un poco impaziente! (Rosa sorte.)
ADOLFO (le stringe la mano e si china per baciarla, ella gliela ritira). Volevo soltanto guardarla, ella poteva lasciarmela; era uno studio che da sé potrebbe completare un'educazione artistica.
ELENA. Grazie! Avevo paura anzi di rovinarle il gusto.
ADOLFO (ridendo). Certamente perché a noi veristi piacciono più le mani ossute dei quasi scheletri. (Le offre da sedere e le si siede accanto.)
ELENA. Lei mi fece un piacere che non può credere, venendo; sono sola affatto. Per curiosità soltanto le chiedo qual buon vento la conduca a quest'ora.
ADOLFO (rimane un istante sorpreso.) Passavo di qua. Ho veduto lume (accentuando) sulla sua finestra e sono venuto. Ho fatto bene a quanto lei mi disse.
ELENA (con complimento). Benissimo!
ADOLFO (dopo una piccola pausa). Eccoci di nuovo signora nel tono di conversazione, quel noiosissimo che veramente stona, qui, in questa camera, in un duetto.
ADOLFO. Mi comprenda, ossia, voglio spiegarmi meglio. Sa perché esiste l'etichetta? Esiste in riguardo ai terzi. Perché, vede, una parola più franca, un accento sincero non offende mai la persona alla quale è diretto. È il terzo, l'invidioso, che se ne offende. Qui di terzi non ne vedo.
ELENA (ridendo). Lei parla bene ma ho paura che dimentichi il significato che solitamente si dà a duetto.
ADOLFO. Via, signora Elena, non mi ricacci nuovamente da un terreno che ho conquistato tanto difficilmente. Io credeva di essere entrato nella sua intimità e perciò la parola duetto mi sembrava adatta.
ELENA. Insomma lei è tanto abile che talvolta riesce a divenire poco accorto. Entra, si scusa di aver suonato il campanello, loda le mie mani, non parla francamente del lume che ho posto là sulla finestra per chiamarla; ha seguito l'invito.
ADOLFO. Grazie della buona lezione. (Le bacia la mano più volte.)
ELENA. Basta! (Dopo una piccola pausa.) Io parto la prossima settimana.
ELENA. Per sempre!
ELENA. Non scherzerei di cosa tanto seria. Mio marito va a stabilirsi a Venezia ed io debbo seguirlo.
ADOLFO. Ma questa è una disgrazia per me!
ADOLFO. Oh! Signora! ne può dubitare? (Le bacia nuovamente la mano ch’essa dolcemente ritira.) Tanto grande disgrazia! Io non posso seguirla!
ELENA. Senta! abbiamo stabilito di parlarci francamente. Per me è forse una fortuna che parto.
ADOLFO (ridendo e tentando di attirarla a sé). Causa mia signora? Oh! dica di sì! la scongiuro.
ELENA (ritirandosi). La prego di non toccarmi. Lei pensa che io abbia confessato di partire volentieri per una semiconfessione da civetta. Oh! via! lei mi fa torto! Abbiamo detto di parlare francamente; io parlo francamente e sinceramente. Lei è un giovinetto, più giovine di me e so che cosa pensi avvicinandomisi; mi creda, io ho pensieri più seri lasciandola avvicinare. Lei, giovinetto, non provò mai un'ora di quello sconforto, di quella sfiducia che fa dire a se stessi: Io sono inutile, a me e agli altri. Forse non comprenderà perciò quello che io senta.
ADOLFO. Oh! me lo dica! di certo la comprenderò.
ELENA. Dovrebbe avere già compreso! A che cosa servo io in questa vita? A chi? Ragazzina, io pensavo che la vita avesse ad essere ben diversa per me. Mi vedevo attiva, tendente a qualche scopo, o aiutando qualcuno a raggiungere qualche scopo. Già allora sentiva che quando mi vedeva troppo utile, necessaria, era una sciocca illusione da cervello giovine. Ma così, così, inutile, vivente solo per vivere, no, non poteva mai credere di divenire.
ADOLFO (sorridendo). In verità, non so risolvermi a vederla inutile.
ELENA. E a chi sono utile? A me? Io mi annoio, mi annoio tanto, sempre. Figli, la natura mi volle negare. Mio marito, per me, a dirittura non esiste che in quanto mi annoia. (Si sente un piccolo rumore nel gabinetto.)
ADOLFO. Sia utile a me se ha bisogno di essere utile a qualcuno. Ma non sa che tutto il mondo desidererebbe di avere vantaggi da lei? (Le bacia la mano.) Senta, io il suo sentimento non lo provai giammai ma me ne posso figurare l'intensità da un sentimento simile che io provai di spesso e provo. Io sento il bisogno di venir appoggiato, di venir aiutato, di venir amato infine. Io lavoro, penso, e non ho nessuno che a questi miei lavori, pensieri, prenda parte. Sarà sentimento da fanciullo ma io con orrore mi avvio alla carriera che mi sono scelta perché penso che il giorno in cui sdrucciolassi, diventassi ridicolo, non vi sarebbe nessuno per il quale rimanessi non ridicolo, stimabile.
ELENA. È meglio che io parta perché quest'uno di cui lei parla sarei potuta essere io.
ADOLFO. E perciò è meglio che lei parta?
ELENA. Sì (dopo una piccola pausa). Io so con quali intenzioni lei si avvicinò a me; non mi faccio illusioni.
ADOLFO (caldo). Io queste intenzioni non gliele ho nascoste. So che per lei esse sono un'offesa. Naturalmente! Lei prova per me amicizia, ma nemmeno l'ombra del sentimento che io provo per lei.
ELENA (con calore). Naturalmente, io non ho la parola facile quanto lei.
ADOLFO (allacciandola). Ma il sentimento? Ma il cuore? (Elena guarda a terra, egli si alza e guarda le porte per vedere se sono chiuse, poi le si avvicina, le mette un braccio intorno alla vita.)
ADOLFO. Hai letto la mia commedia?
ELENA. Ne ho letto i due primi atti! Lasciami te ne prego! (Si svincola.)
ADOLFO (raddrizzandosi). E come ti sono piaciuti?
ELENA. Affatto!
ADOLFO. Come affatto? Perché?
ELENA. Davvero che da quella commedia si direbbe che l'autore è un pazzo. Come si può pensare che il pubblico rimanga tante ore a vedere quei personaggi che vanno su e giù per la scena al solo scopo di dirsi sciocchezze? (Con convinzione.) Devi cambiare metodo, sai! Io ti parlo franca. Manca d'intreccio eppoi è sucida. Con il tempo non dubito che riuscirai a fare qualche cosa, ma intanto (allegramente) quella non vale nulla.
ADOLFO (sforzandosi a ridere). Sai che per giudicare una commedia bisogna intendersene.
ELENA (lo guarda un momento sorpresa e offesa). Io non me ne intenderò! Lei sa che noi donne non possiamo intendercene come loro!
ADOLFO (come pentendosi). Ma io non voleva offenderla! Come è che tutto ad un tratto ha cambiato parere? L'aveva pur convinta ieri! Lei diceva che non si sarebbe lasciata influenzare dal giudizio dato dalla Società Drammatica!
ELENA. E non mi sono lasciata influenzare.
ADOLFO. Capirà che di questo suo giudizio debbo sorprendermi. Ieri le ho parlato per mezz'ora per farle comprendere il mio sistema. Pare che sia stata fatica sprecata.
ELENA (adirandosi). Oh! basta! Non mi piace, non leggerò avanti. Lei mi parlò di ambiente, di verità, ma non mi parlò di tanta, oh, di tanta noia e sconcezza.
ADOLFO (guardandosi attorno). Non occorre che gridi! ho compreso! Il suo giudizio ora lo conosco! Procurerò di ottenerne anche qualche altro da altra parte.
ELENA. Potrà essere diverso, non ne dubito; io, però dedicherò tutta la mia disistima a chi glielo darà.
ADOLFO. Ho avuto il torto di chiedere questo giudizio ad una donna. Già le donne d'oggidì sono perdute per la natura.
ELENA (lo guarda adirata, corre nel gabinetto, ove è rinchiuso Penini, dà un grido di sorpresa vedendolo, si ricompone con fatica; porta un copione). Ecco il suo copione. Adesso è tardi; mi scusi se debbo congedarla.
ADOLFO (prende il copione, lo guarda e se lo caccia in tasca). Signora!
ELENA. Signore! (Adolfo via. Elena apre il gabinetto.) Tu qui?
PENINI. Ero geloso e mi pare non senza fondamento! Eravate giunti abbastanza innanzi.
ELENA. Io non mi scuso! Hai inteso ciò che ho detto di te? Quella è la mia scusa! Fa' ora ciò che vuoi!
PENINI. Io so ciò che farò! Prima di tutto ti condurrò a Venezia… e poi… e poi… ti chiederò consigli.