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Scena sesta. Federico, la cameriera, poi Augusto.
AUGUSTO (a bassa voce alla cameriera in cui s'imbatte). Senta! C’è il signor Reali in casa?
GIOVANNA. No! Ma il signore è là. (Via.)
FEDERICO (s'è levato in piedi). Chi cerca Lei, qui?
AUGUSTO (confuso). Io cercava…
FEDERICO. Io so già chi Lei cercava. Reali! Che cosa voleva da lui?
AUGUSTO (sempre più confuso). Volevo…
FEDERICO (minaccioso, ma sempre a bassa voce). Anche lei dunque mi tradisce?
FEDERICO. Non me lo rivela forse la Sua confusione? Ella ha cominciato dall'origliare alle porte e poi è corso qui a prevenire mia moglie o mio cognato. Tutti tradiscono dunque. I benefici continuati non salvano dal tradimento; i suoi capelli canuti non Le impediscono di cooperare alla mia infamia!
FEDERICO. Non si vergogna d'insozzare in tale modo i suoi ultimi giorni?
FEDERICO. Domanda perdono! Ella ha già parlato e domanda perdono!
AUGUSTO. Io non ho parlato con nessuno, signor Federico! Glielo giuro! Io non ho origliato alle porte. Ella m'incaricò d'accompagnare a casa sua la signora Arianna e in carrozza essa stessa, con poche parole che le sfuggirono nella semi inconsapevolezza in cui si trovava mi rivelò tutto. Ho avuto torto però di aver voluto parlare con altri che con Lei. Mi permette di parlare con Lei signor avvocato?
FEDERICO (con grandissima improvvisa gioia). Ebbene! Sia pure! Con te parlerò, mio vecchio amico! La possibilità di parlare con qualcuno mi ridona la forza. E perché non dovrei fidarmi di te? Ho bisogno di parlare io, per avere un giusto, sicuro concetto dei miei diritti e dei torti altrui. (Con effusione.) Io m'appoggio a te. Sei così sereno tu sotto ai tuoi capelli bianchi che quando t'avrò detto il risultato delle indagini che farò, leggerò nella tua faccia la sentenza e potrò eseguirla senza dubbi, senza esitazioni. Sia! Le esitazioni, i dubbi che sento muoversi in me m'obbligano a ciò. Sii tu il suo difensore! Io non domando, non domando che di essere giusto. (Confidandosi.) Hai udito, ah!… (Ridendo sinistramente.) La seconda volta in mia vita! Quale destino ridicolo! Ma dimmi un po', Augusto: Che cosa ci ho io nella mia figura di turpe o di ridicolo, perché le migliori donne sieno irresistibilmente portate a tradirmi?
AUGUSTO. Ma noi della signora Bice non sappiamo nulla. La deposizione di una sua nemica non prova nulla.
FEDERICO. E le lettere che mi furono consegnate?
AUGUSTO. Se ho avuto tale desiderio di parlarle è per metterla in guardia proprio a proposito di quelle lettere. Le parole della signora Arianna erano tanto strane! Non si sapeva più se fosse lieta o disperata di aver consegnate quelle lettere. Si frugava il petto cercando. Vedendo ch'essa non riusciva a trovare quello che cercava, le domandai che cosa cercasse. Ella mi rispose: Le lettere. Poi, chiaramente ma molto chiaramente, aggiunse: Non voglio dargliele; sarebbe un'infamia. Perciò è evidente che quelle lettere sono falsificate.
FEDERICO. Oh! non crederlo! Io so le ragioni per cui Arianna parlava così! Ogni qualvolta essa poté farmi del male, ne ebbe subito rimorso.
AUGUSTO. Quale caso strano che quelle lettere, se autentiche, abbiano da cadere in mano della signora Arianna. È da non credersi che sieno vere.
FEDERICO. Eppure sono vere! Ne riconobbi il carattere e il modo d'esprimersi di Bice e persino la carta e l'inchiostro di cui si serve.
AUGUSTO (ostinato). Possono essere state falsificate molto bene. Madonna Santissima! Le cose non sono mai sicure. Vede! Un giorno mi furono date delle lettere che mi dissero essere di mia moglie. Parevano proprio scritte da lei. Avevano il carattere suo e contenevano persino gli errori di grammatica in cui essa incorre di solito. Indagai per bene le cose e si trovò poi che non erano sue.
FEDERICO (intensamente attento). E come giungesti a un tanto?
AUGUSTO. Essa stessa m'assicurò che non erano sue, ma con accento di tale sincerità che non ho potuto dubitarne un istante.
FEDERICO (lo guarda lungamente). E queste furono le tue indagini?
AUGUSTO. Sì!
FEDERICO (convinto che Augusto parla seriamente). Sta bene! Ognuno indaga a modo suo!
AUGUSTO. Ma io credo che il modo mio sia il giusto. Se Lei prende queste lettere, va dalla signora Bice e le domanda se sieno sue o no, quello che a Lei, signor avvocato, non sarà rivelato dalla bocca della signora, Le sarà rivelato dai suoi occhi. (Tutto con qualche vivacità.)
FEDERICO (con l'intenzione di rabbonirlo). Capisco! Capisco! Ma io non posso seguire il tuo esempio. Le lettere stesse - le ho studiate - non provano ancora abbastanza. Non contengono una parola che equivalga ad una confessione. Io debbo sorvegliare, spiare, sorprendere! Ma è tale una tortura quest'ufficio da morirne. Perciò silenzio! Assoluto silenzio! Una parola imprudente potrebbe prolungare la mia agonia! Poi la risoluzione s'imporrà da sé! (Cammina agitato, poi si ferma esaminandosi.) Eccomi ritrovato intero. Ho la forza, la risoluzione e l'ira. (Ad Augusto.) Però le lettere non provano nulla e nulla posso fare.
AUGUSTO. Ma io sono beato che le cose stieno così.
FEDERICO. Ed io no! Le lettere provano già una colpa se sono sue. Sconciamente spiritose, rivelano un'intimità non permessa con la persona cui sono indirizzate. In tutti i casi la mia felicità domestica è ruinata. (Torvo.) Arianna riconoscerà d'aver avuto torto credendo di trovarmi più vile con altra di quanto lo sia stato con sua figlia.
AUGUSTO. Oh! ci pensi prima! Lungamente ci pensi!
FEDERICO. E dimmi un po'! Se a tua moglie non fosse riuscito di convincerti della sua innocenza, che cosa avresti fatto, tu? Che cosa avresti fatto se tu l'avessi sorpresa in colpa?
AUGUSTO (imbarazzato). Io? Sa, io non sono mica un uomo di società! Io sono un uomo semplice che non può dare norma.
FEDERICO (lo guarda lungamente). Un uomo semplice che somiglia molto ad un uomo complicato. Mi pare di sentire Reali. Io non ti domando di servirmi di norma. Che c'è di comune fra me e te? Per una semplice curiosità di osservatore, ti domando di dirmi quello che allora avresti fatto.
AUGUSTO. Sono anche molto vecchio io per saper dire quello che avrei fatto quando mi correva per le vene tutt'altro sangue.
FEDERICO (spazientito). E ancora! Non ti rammenti le idee di vendetta che avesti allora? Fa uno sforzo di memoria.
AUGUSTO. È vero! Mi passarono dei bagliori rossi dinanzi agli occhi! Pensai anch'io di uccidere! Ma ora, ora (con grande slancio) ringrazio il cielo che m'abbia fatto credere a quanto mia moglie mi disse e m'abbia impedito d'uccidere quella ch'è ora la mia buona, la mia dolce infermiera.
FEDERICO. Insomma per essere esatti nell'idea e nella parola: Tu non avresti ucciso e tu non uccideresti!
AUGUSTO (con sorriso mite). Sono paralitico a metà! Come potrei uccidere?
FEDERICO (iroso). La parola esatta! Eccoci di nuovo nella piena menzogna! Dunque a me non si può dire la verità pura, intera, in faccia? Ma lasciamo stare. Vi rinunzio!
AUGUSTO (chiedendo indulgenza). Signor Federico!
FEDERICO. Non spaventarti! Non ti chiederò più che quelle cose che potrai dirmi con parola franca. E le altre che non hai potuto dirmi, le ho già intese; ti dirò anzi una cosa, oh! uomo semplice!, una cosa che deve servire di risposta alle cose che tu non mi dicesti. Vedi, con lieve sforzo, io posso comprenderti e… scusarti. Voglio dire che il fatto che tu non avresti ucciso una moglie colpevole non eccita il mio disdegno. Io ti stimo e ti amo come prima. Saresti tu altrettanto intelligente d'intendere me che ho ucciso e che ucciderò?
AUGUSTO. Speriamo di no! (Con fervore.)
FEDERICO (con disdegno). Speriamolo! Ma rispondi a quanto ti domando. Puoi intendere me come io intendo te?
AUGUSTO (bonariamente). Oh! io so che in certi casi bisogna uccidere… Io non ho voluto perché… io sono fatto così e poi perché si provò che mia moglie era innocente.
FEDERICO (iroso). C’è fra me e te un abisso, un intero profondo abisso che non si può varcare. (Ravvedendosi.) Del resto capisco. Il torto è mio; ho finito col tirarti con le domande proprio dove avevo già capito di non poter trovare da te una risposta franca. Lasciamo stare!
AUGUSTO (domandando indulgenza). Signor Federico!
FEDERICO. Ma se ti dico che la colpa è mia! Senti! Io voglio servirmi di te proprio per quei servigi che la tua mite natura può dare. Donde proviene la mia inquietudine? Ho paura di me stesso! Ho paura di essere troppo pronto. E tu frenami! A te l'intera libertà di parola! Il nostro sia anzi un patto formale dal quale io non mi riterrò libero che quando tu non avrai più la più lieve obbiezione da fare.
AUGUSTO (spaventato). Ma in tale modo finirò coll'essere io colui che uccide.
FEDERICO (lo guarda studiandolo). Capisco! Fra noi due non ci può essere relazione di sorta!
AUGUSTO. Oh! signore! Sì! Ci può essere relazione fra noi. Ella è un uomo onesto e anch'io lo sono. Può essere che io non sarei stato tanto sensibile a certe offese ma tuttavia io merito la Sua fiducia. Ecco! Mi permetta di suggerirle i passi che io farei al posto suo; perché non comincerebbe col fare quello che farei io al posto Suo? Io che ho il sangue tanto freddo? Oh! Si lasci consigliare da me e non avrà a pentirsene. Perché vuole soffrire tanto? Vada dalla signora Bice, le faccia vedere quelle lettere ed essa, forse, con una sola parola saprà ridarle la pace.
FEDERICO. Ma non ti pare che avvisandola la metto in guardia e mi tolgo la possibilità d'arrivare più presto ad una soluzione?
AUGUSTO. Oh! signore! Io sono vecchio e ho dimenticata la gioventù, ma una cosa ricordo: In certe circostanze non è mica vero il detto che uomo avvisato è mezzo salvato!
FEDERICO (subito convinto). In fondo è questa l'indagine più facile! Mi salvo dallo spionaggio vigliacco e vado innanzi, diritto, diritto al mio scopo.
AUGUSTO. È quello che Le dicevo io.
FEDERICO (con un sorriso). No! No! Non è come la intendi tu. Io voglio la verità, non la calma. La verità e caschi il mondo. (Va alla porta a sinistra.) Bice! (Ad Augusto che s'avvia) No! Anzi! Aspettami! Va nella mia stanza e magari ascolta; io non te lo proibisco! (Inquietissimo.) Non viene ancora! Bice! (Attende ancora e s'inquieta.) Bice! Bice!