Italo Svevo: Raccolta di opere
Italo Svevo
I racconti

III NOVELLE MURANESI

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

III
NOVELLE MURANESI

              

               MARIANNO

                   I

Quando si domandavano a Marianno particolari della sua gioventù egli ben poco ne sapeva dire. Del suo soggiorno all'Ospizio egli poco ricordava. La mente dovette aprirglisi il giorno in cui lasciò l'Ospizio. Alessandro il suo futuro padrone vestito a festa era venuto a prenderlo ed egli lo ricordava come prometteva di aver cura di lui con quel suo sorriso bonario e affettuoso. Poi di quello stesso giorno ricordava qualche cosa d'altro ma come parlarne quando non sapeva di chi si trattava? Ecco! Qualcuno staccandosi da lui aveva pianto. Egli che anelava di esser fuori di quel povero luogo era stato stupito al sentirsi bagnare la faccia da lagrime. Chi poteva aver pianto per lui? Egli stesso subito si mise a piangere e perciò ricordò con tanta precisione la sua partenza dall'Ospizio e perciò dimenticò anche di guardare bene chi aveva pianto per lui. All'Osteria facilmente si inventa e parlando di quel giorno della sua uscita dall'Ospizio, Marianno raccontava che gli era stata consegnata una medaglia d'oro che avrebbe servito a farlo riconoscere da sua madre. Egli poi l'aveva venduta. Non c'era di vero una parola. Vero era invece che quel giorno atteso con tanta impazienza aveva finito coll'essere un giorno di lagrime.

Poi venne una lunga epoca grigia. Mamma Berta gli voleva bene ma nella casa non ricca egli occupava uno stanzino privo di finestre ove d'estate si soffocava, nido di zanzare e d'altri insetti. Mangiava polenta a sazietà condita da brodo di pesce o accompagnata da qualche pezzo di cacio. Il padrone Alessandro che aveva preso Marianno per farsi aiutare nella sua bottega di bottaio lo trattava con abbastanza umanità. Gli permetteva di venir a bottega più tardi ed anche nella giornata gli permetteva di prendersi qualche svago nella Calle con altri ragazzi della sua età. Nella bottega era solo col botte. Alessandro era un uomo sorridente che amava di raccontare barzellette e Marianno inconsciamente lo adulava fermando il lavoro e standolo ad ascoltare. Era bello cessare di squadrare doghe! Il coltellaccio gli pesava nella piccola mano! E del mestiere di bottaio non gli fu insegnato altro che squadrare doghe e segarle. Ne squadrò e segò a montagne di quelle grezze e nodose di resina. Alessandro era quarantenne e si vedeva invecchiare. Non avendo che una figlia aveva pensato di andarsi a cercare un aiuto all'Ospizio. S'era innamorato dei riccioli biondi e dei buoni occhi azzurri di Marianno. L'aveva scelto come al mercato. Poi anche Berta per varii anni volle bene al fanciullo. E molti anni dopo Marianno ricordò una sua malattia e le cure che gli furono prodigate. Si rivedeva giacere esausto in un letto bianco nella stanza più luminosa della casa. Mamma Berta gli faceva degli impacchi alla testa scottante e Alessandro correva su ad ogni tratto da bottega a vedere come andava. Gli veniva accanto al letto col traversone di lavoro e gli raccontava barzellette per incuorarlo. Anche nella febbre Marianno sorrideva ma ogni parola che gli si diceva batteva sulla sua testa come il coltellaccio sulle doghe. Ma sorrideva e Alessandro chiamò Berta per farle vedere come sorrideva e Berta lo baciava dalla contentezza. Poi finalmente se ne andarono e Marianno veniva lasciato solo col suo delirio. Vogava solo in un sandolo popparino di quelli che esigono dal vogatore tanta forza e tanto equilibrio. Usciva da un rio stretto e arrivava al Canalazzo che il sole inondava di luce e di calore. E il suo sandolo correva come se egli gli avesse dato un impulso troppo forte o che l'acqua lo trascinasse; egli sciava ma i suoi sforzi non servivano e presto gli sarebbe scappato di mano il remo. Un vaporino s'avanzava proprio verso di lui e accanto al suo sandolo un gondoliere eretto e calmo sul suo remo diceva: «El voga inveze de tetàr». Marianno si mise ad urlare dallo spavento e dalla vergogna. Berta pronta si chinava a lui e per molti anni in famiglia si rise delle parole che Marianno aveva dette: «Aiuto! El remo me scampa de man!». A convalescenza finita Alessandro gli disse: «Mola el remo e tol el cortelazo!». Proprio dopo questa malattia ci fu una piccola ombra fra lui e la sua famiglia adottiva. Il ragazzino avrebbe amato di vedersi continuare le cure che gli erano state prodigate durante la sua malattia. Ma Alessandro aveva bisogno di lavoro. Il ragazzino che in dicembre al tramonto avrebbe voluto andare a casa aveva abbandonato la doga su cui lavorava e, copertasi la faccia con ambedue le mani, s'era messo a piangere. Oh! com'era bella la malattia e come i sani erano infelici perché dovevano lavorare. Anche Alessandro cessò di lavorare per tenergli una predica che non voleva finire più. Marianno era stato accolto in casa loro per pietà. Che cosa sarebbe avvenuto di lui se loro non ne avessero avuto pietà? Poi s'era ammalato e loro lo avevano curato: Il medico aveva costato... tanto, le medicine... tanto e poi per tutto quel tempo Alessandro aveva dovuto squadrarsi le doghe da solo. È vero ch'egli le squadrava meglio perché dopo due anni di pratica Marianno ancora non aveva capito di tener giuste le misure. E Alessandro tirava fuori un barile fatto con le doghe squadrate da Marianno prima della sua malattia e dimostrava che le doghe erano state segate fuori di posto così che la pancia del barile non risultava al centro.

Il ragazzino mostrò di comprendere e ritornò al lavoro. Della romanzina non serbò rancore; soltanto era stato un po' istruito sul proprio essere. In conclusione gli era rimasto nella coscienza l'avvertimento che doveva lavorare per non farsi mandar via.

Egli amava Alessandro. Accanto a lui si sentiva sicuro nella sua debolezza infantile. Alessandro era tanto buono che diveniva anche più buono quand'era ubriaco. Secondo la tradizione dei bottegai ciò avveniva al lunedì. Alessandro spariva nella mattina dalla bottega per una mezz'ora. Parlava di aver bevuto un quintino ma a giudicare dall'effetto doveva essere stato un quintino abbondante. Poi lavorava ancora per un paio d'ore ma non sapeva tacere e Marianno per rispetto stava ad ascoltarlo col coltellaccio sospeso per aria sulla doga che non era mai finita. Alessandro raccontava della sua gioventù e come era stato per sei anni nella stessa classe. Aveva dunque studiato. Eppoi della sua mancanza di forza per cui era stato tutta la sua vita un uomo tanto pacifico. Gli era stato proposto una volta di metterlo in aceto perché acquistasse vigoria ma egli aveva rifiutato perché l'uomo forte corre di grandi rischi. E giù tutta la sua esperienza di tutte le persone forti che aveva visto in pericolo trascinatevi dalla coscienza della loro forza. Quando c'era una baruffa sulla strada i forti accorrevano mentre egli correva in casa ove era meglio protetto di tutti i forti di questa terra. E precisamente in quello stato di ebrietà Alessandro aveva costantemente sul labbro un sorriso di uomo sicuro e superiore. E la sua piccola faccina imbruttita da un paio di mustacchi radi neri e grigi arrossata dal vino diventava tutta malizia.

Adele la figlia di Berta era di qualche anno più vecchia di Marianno. Era carina tanto nel suo scialle nero troppo grande e pesante sulle spalle esili di quattordicenne. Marianno ch'era entrato in casa a 12 anni s'attaccò a lei di un grande affetto. Il suo visetto rotondo contorno dalla capigliatura ancora piccola fulva nereggiante coi piccoli occhi bruni di suo padre ma meglio tagliati di quelli era dolce a baciarsi. Dapprima essa si mise a proteggere il piccolo collaboratore di suo padre con arie di mammina pretenziosa, e talvolta tale protezione gli giovò. Così quando essa ammalò poco dopo la guarigione di Marianno e con manifestazioni che al dottore parvero simili a quelle del malore avuto dal giovinetto, ciò che gli fece credere che essa avesse preso la febbre da lui, mamma Berta sentì nel suo cuore materno un bisogno imperioso di vendetta e, in presenza dell'ammalata, gli lasciò andare un ceffone seguito da un calcio che lo fece rotolare fuori della stanza. Egli se ne sarebbe andato grattandosi la parte lesa conscio della sua colpa, e senza lagrime, lieto che l'ultimo colpo lo avesse portato al sicuro. Ma Adele febbricitante si mise a strillare come se i colpi li avesse ricevuti lei e bisognò che mamma Berta corresse in cerca di Marianno che s'era nascosto e, con promesse di non fargli dell'altro male, lo facesse uscire da un armadione vuoto in cui s'era nascosto. Berta poi non tenne la parola data perché lo prese con tanta violenza per il braccio da lasciargli dei segni e lo gettò sul letto di Adele. E i due giovinetti piansero insieme. Adele agitata dalla febbre non arrivava più a fermarsi; supina, con una manina nei ricci di Marianno si vuotava addirittura di lagrime. Marianno poi che così restava scoperto ad altri colpi esagerava il suo pianto ma questo era prodotto proprio dal rimorso di aver fatto tanto del male alla sua piccola mammina.

Lo fece ricredersi Alessandro che arrivò a casa un po' brillo e perciò ancora più buono del solito. Fu dapprima commosso della bontà di sua figlia eppoi enormemente irritato dalla brutalità di sua moglie. E non la finiva più! Quando era ubriaco parlava per via di esempi. Proponeva alla moglie di figurarsi che la malattia avrebbe còlta lei invece di Marianno. Chi l'avrebbe picchiata allora? E se ne fosse stato colto lui chi avrebbe picchiato lui? Lui che non si lasciava picchiare da nessuno.

Era un impeto di bontà che lo rendeva eroico perché di solito e specialmente quando era cibato soleva usare dei grandi riguardi a mamma Berta tanto più che costei con certi affarucci di pegni rappresentava una parte abbastanza importante del reddito della famiglia.

Stizzita mamma Berta uscì dalla stanza e nell'uscire lo spinse in modo ch'egli traballò e finì seduto su una sedia che per fortuna gli era vicina. – per prudenza – stette ma non tacque. E così Marianno fu reso edotto per lungo e per largo del grande torto che gli era stato fatto ciò che lo commosse profondamente. E pianse ancora sul petto di Adele: «Io non avevo voluto farle del male. Se lo avessi saputo non avrei mai accettato ch'ella venisse accanto al mio letto». E Alessandro che aveva trovato uno sfogo al suo vino s'intenerì sulla bontà di sua figlia e sull'innocenza di Marianno.

La giornata terminò bene. Il dottore disse di trovar Adele priva di febbre. Era giusto che Marianno ch'era stato punito per la malattia di Adele fosse anche premiato per la sua guarigione. Mamma Berta con l'aspetto di cedere alle preghiere di Alessandro e di Adele si chinò su Marianno e gli diede un bacio. Gelido bacio! E Marianno pensò: "Ho vinto io, ma tu non mi vuoi bene!".

La vita lascia solchi meno profondi di quanto si creda, o almeno essa procede come l'aratro; il solco nuovo cancella l'antico. Quel giorno mamma Berta non gli aveva voluto bene ma essa gli dava il soldino quando aveva bisogno di lui per correre fuori d'ora per un acquisto o per un'ambasciata. Alessandro invece gli voleva bene ma i pochi soldini che aveva in tasca li beveva tutti. Ora finché durò quel suo affetto infantile e sommesso per Adele i soldini che gli venivano dati da Adele erano tutti impiegati col massimo entusiasmo per comperarle dei dolci. E questo egli ricordava anche negli anni più tardi. Ricordava la lunga calle tortuosa ch'egli percorreva col piccolo passo rumoroso dei zoccoletti. Aveva 15 cent. in tasca e calcolava che avrebbe potuto spenderne 10 e conservarne 5 per girarli per qualche giorno nella sua tasca. La venditrice nella piccola botteguccia, inforcava gli occhiali e metteva sulla stadera un minuscolo mucchietto di dolci. Già voleva metterli in una carta quando Marianno rapidamente deciso tirava fuori gli ultimi suoi cinque centesimi e faceva aumentare la quantità di dolci. La vecchia stizzita aggiungeva meno di quanto, secondo Marianno, gli sarebbe stato dovuto e allora Marianno discuteva: Dieci centesimi avevano prodotto tanto; cinque dovevano dare la metà in più. La vecchietta aggiungeva qualche altro pezzetto di zucchero e allora Marianno volava a casa aspettandosi a una esplosione di gioia della sua mammina. Essa era la più assennata: Dava qualche pezzettino di zucchero a Marianno e si limitava anche lei a mangiarne pochissimi. Lo slancio di generosità e d'affetto che aveva indotto Marianno all'acquisto dei dolci, nei prossimi giorni diminuiva. Due o tre volte riceveva un pezzettino di zucchero e presto non ce n'era più. Con una certa amarezza Marianno constatava che la sua amica doveva aver finiti i dolci da sola. Poi la mammina s'era abituata sull'esempio della madre a menar anch'essa le mani e Marianno si ribellò. Gli schiaffi che provenivano da mamma Berta gli sembravano abbastanza legittimi; quelli di Adele lo indignavano ed un giorno li restituì con usura. Mai Adele avrebbe supposto tanta forza a Marianno cui l'uso continuo del coltellaccio aveva reso muscoloso il braccio. Adele ebbe per varii giorni una guancia enfiata. Berta naturalmente intervenne a tutto danno di Marianno ciò che spiacque ad Adele che amava di picchiarlo ma non di farlo picchiare da altri. E il suo pianto riconciliò i due giovini. In complesso non c'era nulla da rilevare nei loro rapporti. Già nella prima infanzia il sesso getta la sua grande ombra ed essi non seppero perché tanto di frequente si mettevano le mani addosso. Adele ricordò di aver picchiato con piacere colui ch'ella riteneva un intruso in casa. Marianno raccontò a chi voleva starlo a sentire che aveva sofferto di orribili persecuzioni in casa Perdini. Era stato picchiato persino dalla piccola Adele.

Perché divenuto grandicello nella mente di Marianno nacque infine il concetto ch'egli era una vittima. Nella calle ove abitava conobbe un giovinetto della sua età certo Menina il quale lo condusse a casa sua da sua madre. Costei aveva certo desiderato di conoscere il nuovo amico di suo figlio. Lo aveva visto passare per la Calle ed era rimasta stupita di vederlo tanto biondo e bianco. Marianno non era ancora entrato nella cucina a piano terra che già la Teresa abbandonato il suo bucato e il suo mastello s'era messa a compiangerlo perché non aveva conosciutopadremadre. «Poveretto! Mai non aveva vista sua madre, proprio mai?». E il piccolo Menina (questo era il nomignolo che si eredita dal padre come il nome di famiglia) s'intenerì anche lui. La faccia oblunga e gialla con due occhietti da giapponese contornati da rughe prodotte da quello sforzo per vedere per cui vengono tesi dei muscoli vicini che non servono, i capelli ricci come quelli dei mori, il corpicino esile, Menina non avrebbe dovuto compiangere il forte e bel Marianno. Ma come si fa a non compiangere chi non aveva neppur conosciuta la propria madre? E Menina aveva un'aria di protezione che commoveva Marianno. Si battevano qualche volta per quistioni di giuoco sulla via e regolarmente Marianno lo stendeva a terra e lo picchiava come se fosse stato un cerchio di barile. E il povero Menina si rialzava diceva di non aver visto, di essere scivolato e così via. Ma poi concludeva con un'aria di comica ragionevolezza: «Già il torto l'ho io che ho voluto picchiare te che non hai madre». E affettuosamente tirava a sé il bel giovinetto biondo della cui amicizia andava superbo. Certo l'influenza di Menina non fu buona perché mise in bocca a Marianno delle parole che resero più fredde le sue relazioni con mamma Berta. Ma questa mancanza di madre non fu sentita che quando egli si trovava accanto ad Adele la quale per avere una madre aveva anche un destino migliore del suo. Infatti Adele passò la convalescenza per metà della giornata nel suo lettino addobbata degli ori della madre, il manin, di oro di zecchino al collo, i grandi orecchini di oro alle orecchie, tutta lucciante insomma come una Madonnina. E Marianno in un momento in cui voleva meno bene ad Adele disse a Berta di ricordare che la propria convalescenza era stata altra. Mamma Berta infuriò contro il piccolo sfacciato concorrente di sua figlia e con la sua lingua viperina confermava le teorie dei Menina. Alessandro a bottega lo rabbonì. Non si trattava di avere madre o di non averla. Si trattava di nascere maschio o femmina. Gli uomini facevano la convalescenza in bottega e le babe in letto. Guardasse Menina che ritornava ogni sera a casa coperto di catrame dal piccolo cantiere ove era impiegato; anzi di quel catrame non arrivava a liberarsi mai. Il loro mestiere era ben migliore perché almeno le doghe non andavano a coricarsi con loro e restavano ad aspettarli in bottega. Marianno non era tanto d'accordo nell'elogio del loro mestiere e guardava sconsolato il monte di doghe che lo aspettava e che non voleva andar via. Ce n'erano di quelle piene di nodi sui quali il coltellaccio sonava come sulla pietra, altre avevano la venatura alternata e abbisognavano di colpi ripetuti in tutti i versi per assottigliarle e ce n'erano di quelle che parevano regolari e invece il coltellaccio le divideva fuori di posto lasciando Marianno che pur aveva calcolato il colpo stupito e malcontento. E del resto quand'erano battute emettevano una polvere di resina che impiastricciava la faccia e metteva in bocca un sapore amaro da cui era difficile liberarsi. Il mestiere di Menina doveva essere più gradevole. Certo più bello di tutti era il mestiere del frittolino ed egli giacché non aveva madre avrebbe voluto nascere figlio di quella che aveva la bottega vicino alla loro Calle e smerciava ogni giorno quintali di polenta e quintali di pesce fritto.

Ma insomma mamma Berta gli dava poco da fare tutt'al più qualche boccaccia quando gli volgeva le spalle. Ricordò invece un problema che lo occupò intensamente per qualche giorno tanto che non dimenticò più l'ansietà con la quale lo studiò. Mamma Berta gli diceva sempre ch'egli era cattivo mentre Alessandro e Adele gli dicevano ora ch'era cattivo ed ora ch'era buono. Un giorno fra doga e doga egli si domandò: "Sono io cattivo o buono?". Non pensò neppure per sogno ch'egli avrebbe potuto essere quello ch'egli voleva. No! Si era cattivi o buoni come si era cane o gatto. Il curioso era ch'egli non pensò di esaminare alcuna sua azione per vedere se era cattivo o buono. Teneva il coltellaccio inerte nella destra e pensava. Tentava di guardare se stesso come ci si guarda in uno specchio. Naturalmente vedeva di sé la grandezza, la grossezza e il colore ma non altro. «Vuoi andare avanti?» gli gridò Alessandro. E allora Marianno con gravità infantile gli disse esattamente i suoi pensieri: «Mamma Berta dice sempre che sono cattivo, Adele e tu lo dite talvolta. Sono io cattivo o buono?». Alessandro si mise a ridere: «Quando uno è arrabbiato con te e ti dice cattivo, non devi credergli. E se ti dice buono quando gli hai fatto un favore, non devi credergli neppure». Poi Marianno lavorò in silenzio su varie doghe e finalmente scoperse che non gli era stata data una risposta precisa: «Ma io sono cattivo o buono?». Alessandro si stizzì perché vide che il lavoro non procedeva: «Sarai buono se arrivi a tagliare molte doghe!». E Marianno dovette sorridere. Nella prima gioventù ogni sorriso pervade le più intime fibre e qualunque pensiero ne viene interrotto. Poi, a casa, a cena, Alessandro infocato e reso più geniale per il vino, ritornò sull'argomento. «Quando mamma ti dice cattivo devi crederle e devi credere quando io ti dico che sei buono! Devi vedere con chi parli. E quando io cambio di parere e ti dico che sei cattivo devi credermi pure! Si è cattivi o buoni anche secondo l'orologio. Devi guardare anche quello!». E tirò fuori il suo orologio d'argento di cui andava superbo. «Ecco! Ora che mangi sei buono! E quando dormi, poi!». Ma Marianno col naso nel piatto al problema non ci pensava più. Trascorsero molti anni prima ch'egli arrivasse a comprendere l'importanza della domanda ch'egli si era rivolta.

E ci furono altri istanti di serietà nella sua piccola mente che doveva intorpidirsi nel lavoro manuale. La piccola Adele passava la giornata insieme ad altre sue coetanee presso una maestra che le insegnava a cucire ma anche leggere, scrivere e far di conti. Mamma Berta pagò per un anno intero quindici lire al mese per compiere l'educazione della figlia; e se ne vantava dimenticando di dire che in quelle quindici lire era compresa anche la spesa per la colazione. Ma insomma così venne qualche libro in casa e Marianno non dimenticò quel poco che aveva appreso all'Ospizio. Ricordò sempre l'impressione che gli aveva fatto un libro di lettura che Adele e lui lessero da capo a fondo più volte. Era la storia di un ragazzo che aveva dato grandi dispiaceri a suo padre e che poi aveva voluto avere prontamente la sua parte d'eredità e con quella s'era allontanato dalla casa paterna. In poco tempo a forza di giuoco e di altre cose che il libro non diceva, era rimasto privo di tutto. Poi col dolore era venuto il pentimento ed egli s'era dato al lavoro indefessamente. Prima come manuale; poi inventò una macchina e con quella guadagnò milioni. Naturalmente quando ritornò con tutti quei denari al padre, costui lo accolse molto bene. E tutti furono felici. Questo fu il libro che si convertì nella mente giovanile di Marianno in tanto sangue. Perché la carta stampata racconta la vita ma ne crea una e del tutto diversa ed è per essa in primo luogo che accanto alla vita di tutti, comune, grigia, c'è la vita del più importante uomo dell'universo, se stesso. E l'occhio giovanile che toglieva dalla carta stampata il puerile racconto brillava come se assistesse alle vicende dell'eroe. Quelle lettere allineate con tanta regolarità procedevano come il tempo, inesorabili; e si arrivava lentamente a sentire come il giovine si fosse ingiustamente ribellato al vecchio e come poi col lavoro l'ingiustizia fosse stata cancellata. E quando si tornava a leggere era doloroso di non poter intervenire e gridare al giovane: «Bada, ti pentirai!». Una pagina seguiva all'altra e non si poteva influire sugli avvenimenti quantunque mai appartenessero al passato. Diventavano passato solo quando il libro era finito e chiuso.

Così il piccolo operaio che fino ad allora aveva fantasticato sulle storielle che gli aveva raccontato Alessandro, piccole storielle che correvano le Calli, di tiri bricconi fatti ai vigili o di risposte salaci che il bottaio con tutta ingenuità attribuiva a se stesso anche quando le aveva sentite da altri, ora non contava più le doghe che tagliava per arrivare a sera. Quell'uomo di cui aveva lette le avventure egli lo amava più che non amasse il Menina o lo stesso Alessandro o persino Adele. Perché quell'uomo di cui aveva letto poteva essere lui stesso. Perché non avrebbe potuto andare da suo padre e carico di milioni farsi amare e ricevere con feste? Fu da quel libro ch'egli per la prima volta apprese a dolersi del proprio destino. Gli pareva che l'unico ostacolo per fantasticarsi con qualche fondatezza nella posizione di quel suo eroe era il fatto ch'egli non conosceva il proprio padre. Come faceva a immaginare quel padre?

E come al solito smise di battere doghe per indirizzarsi ad Alessandro: «Chissà che mestiere fa mio padrerifletté. «Sarà un poltrone come te!» scherzò Alessandro. Ma vedendo che Marianno, deluso di non trovare un appoggio in lui per le sue fantasticherie, faceva un viso triste esclamò: «Una figura ludra el deve esser de zerto». Una figura ludra era già una descrizione e Marianno che si raccontava il proprio futuro vedeva come dopo conquistato il milione andasse a portarlo a quella figura ludra di suo padre, un ubriacone come il padre di Menina. Tanto lui che il milione venivano accolti molto bene e il padre anzi smetteva subito la figura ludra.

Un'altra volta e sempre suggerita da quel libro Marianno ebbe un'altra idea: «Perché non inventiamo una macchina per tagliare doghe?». Alessandro lo guardò stupito dall'originalità dell'idea. Poi protestò: Tutto a questo mondo si poteva fare a macchina ma tagliare quella sorta di doghe non poteva altra macchina che quella che ha occhi e senno. (Vedi che tu non ne hai abbastanza.) E i bitorzoli e la venatura? Chi la vedrebbe e come sarebbe corretta? Sì! Si deve fare non una macchina ma centinaia di macchine per tagliare doghe. Bisognerebbe prima guardare la doga e poi scegliere la macchina. Dapprima esitante Alessandro aveva finito col convincersi che l'idea di Marianno era balorda. E lo seccò per varii giorni anche a casa per quell'idea di costruire una macchina che lo esonerasse di far altro a questo mondo. Mamma Berta gli dava dello stupido; Adele ne rideva come di uno che avesse pensato di asciugare il mare. Finì che Marianno si vergognò e protestò di aver parlato per ischerzo. Ma non trovò grazia. Ed anzi la sua macchina ch'era stata intesa a tagliare delle doghe resistenti, finì coll'essere una macchina per creare le doghe. E quando Alessandro prendeva da sua moglie i denari per andar a comperare le doghe, diceva sempre a Marianno: «Peccato che non c'è la tua macchina».

L'istruzione che veniva impartita ad Adele gli giovò per altri versi. La sua passione erano i "conti" come egli li chiamava. La matematica era debole in famiglia di Alessandro il quale quando comperava doghe o vendeva barili si aiutava col libro dei conti fatti, sbagliando talvolta di grosso per lo spostamento di una riga. Marianno presto seppe fare le moltiplicazioni ed anche la prova; tanto che il libro dei conti fatti poté esser messo via. E il suo pensiero si giovava del facile trionfo avuto nella bottega del bottaio per nuovi sforzi. Adele era stupita di vederlo sciogliere con facilità i compiti che a lei parevano insolubili, le più lunghe moltipliche e le più complesse divisioni. Ma Marianno sognava anche matematica. Il numero uno egli lo personificava e lo vedeva meno mobile degli altri. Moltiplicava e divideva un numero lasciandolo inalterato; diventava importante solo quand'era lasciato a sé o seguito da zeri o quando si sommava o si deduceva. Il numero due aveva la sua personificazione in una pagina su cui si scriveva un numero con l'inchiostro e si piegava in due per riprodurlo esattamente sull'altra parte. Ma non occorreva un numero, bastava anche una figura e il numero due da quell'operazione nasceva. E nel due egli vedeva l'uno senza del quale non sarebbero esistiti altri numeri. Egli guardava i numeri nelle doghe. Quando arrivava a farne più di quante Alessandro ne consumasse egli le distribuiva bellamente in cubo. Alla base ne metteva dieci e poi lavorava presto per vedere elevarsi il mucchio e contarle. Così, a occhio, finì col saper calcolare la quantità di doghe preparate contando soltanto i tre lati. Era già un bel progresso. Poi egli apprese a fare delle scoperte meravigliose. Intanto quando aveva da moltiplicare per nove sapeva facilitarsi il compito moltiplicando due volte per tre. Si fermò per lungo tempo su tale scoperta ma poi seppe procedere e scomporre qualunque moltiplicatore. E queste scoperte svegliavano la giovine mente ne erano il cibo tanto nutritivo perché accompagnato dallo sforzo della conquista. Adele vedeva le decimali come una cosa nuova che bisognava studiare come se fossero del tutto differenti dalle unità. Egli subito comprese ch'erano la stessa cosa pensata in altro modo e passava con piena facilità dalle frazioni alle decimali. La doga era una unità un po' dura e pesante e più oltre egli non arrivò. Egli presto scoperse di sapere più e meglio di quanti lo contornavano e questa scoperta contribuì a fargli cessare i suoi sforzi. Continuava a baloccarsi con quanto sapeva ma non tentò di procedere. Gli mancava ogni visione della via da percorrere. Neppure la maestra di Adele a quanto raccontava la fanciulla sapeva fare le moltipliche con la rapidità di Marianno; dunque egli era arrivato alla meta.

La monotonia della vita di bottega era interrotta da una o due gite che si facevano ogni mese per andare a prendere doghe e cerchi. Alessandro vogava sulla grossa buria a poppa. Non dirigeva bene la barca e dov'egli passava sorgevano quistioni. Egli che non voleva mai intendere le ferree regole del rio si meravigliava che con lui tutti volessero aver ragione. Già! Lo vedevano debole! In barca si sentiva abbastanza sicuro ed era anche capace di lanciare delle insolenze, un po' masticando ma le diceva. Aveva in certo qual modo la convinzione che nei rii non si potesse procedere senza bestemmiare. Quello che non aveva capito era che per procedere bisognava anche vogare pur essendo a poppa. Egli si spingeva da un palazzo all'altro con le mani o coi piedi e il remo si moveva proprio soltanto quando le sue membra non servivano.

Marianno vogava ma senza troppo affannarsi. Egli non amava quella gita. Preferiva le Calli affollate ai rii deserti e guardava con desiderio la folla di gente che passava sui ponti. Le due città di cui una lieta e affollata e l'altra triste e dura s'incontravano per brevi tratti. Il silenzio del rio era interrotto bruscamente da una fondamenta rumorosa o da un ponte ch'era parte di un'arteria principale e come la barca s'allontanava da quel punto si ritornava al silenzio interrotto dalle bestemmie di qualche gondoliere cui la barca di doghe dava noia.

Poi si arrivava al rio deserto in vicinanza della bottega. Alessandro respirava. Marianno legava la barca e s'improvvisava un ponticello alla riva. Il trasporto delle doghe si faceva su un piccolo carretto a una ruota. Quand'era colmo, Marianno lo spingeva a bottega traverso una calle stretta e deserta ove i suoni si prolungavano per un'eco. Per far presto, nella bottega, Marianno ribaltava in un canto il carretto e ritornava alla barca non senza aver avuto il pensiero matematico che ogni catasta di doghe in lui destava: "Quanti lati di una simile catasta dovrei contare per sapere la quantità di doghe?".

A notte la barca era vuota e bisognava riportarla. Una volta accadde che durante lo scarico della barca Alessandro trovò il modo di ubriacarsi. Da uomo prudente anche quando era ubriaco rifiutò di stare a poppa e così avrebbe dovuto starci Marianno che non aveva idea del lavoro tutt'altro che semplice che bisognava fare a poppa di una barca per dirigerla. Per fortuna passò di Menina e i due ragazzetti si misero a vogare. Menina trovava dolce di poter insegnare lui qualche cosa a Marianno e gli dava istruzioni. Alessandro era tutto vivo eccitato, beato di essersi liberato dal remo. Correva da uno all'altro a far confusione. Diceva che se lui fosse stato a poppa la barca sarebbe andata meglio ma lui certo peggio; perciò lasciava che Menina si divertisse. Menina veramente aveva calcolato su qualche centesimo di mancia ma non volle farlo vedere. Tanto più volle compensarsi con istruzioni esagerate a Marianno. Egli sapeva dirigere una barca ma un po' per la sua vista corta e un po' distratto dalle troppe istruzioni che voleva impartire lasciò andare la prora contro un ponte. La corrente fece il resto e la barca andò ad ostruire il passaggio sotto il ponte fermando una gondola ed una barca. Incominciarono a udirsi le solite recriminazioni aumentate perché dall'alto del ponte alcuni buontemponi si misero a gridare contro i due fanciulli che, svergognati, facevano del loro meglio per liberare la barca. Alessandro non fermava mai la sua chiacchiera. Per calmare il gondoliere gli offriva di andar lui a terra a portare qualunque ambasciata che avesse voluto. L'ubriaco parlava sul serio. Si offriva di andar dalla moglie del gondoliereera certo che dietro di quell'impazienza doveva esserci una moglie furiosa – a testificare che quella gondola era stata fermata in quel Rio dalla barca del bottaio Alessandro Perdini, quel bottaio che aveva bottega in Calle...

Il gondoliere disarmato si mise a ridere e, libero da ogni paura, rise anche Alessandro. Non era mica tanto bruttodiceva – di passare il tempo sotto di quel ponte. Se avesse cominciato a piovere si poteva rifugiarvisi di sotto naturalmente quando la barca del bottaio Perdini fosse andata per la sua strada. Eppoi perché arrabbiarsi che si poteva correre il rischio di avvelenarsi di fiele?

L'unico inferocito era Menina che spingeva la prora di qua e di senza arrivare a liberarsi. «El tasa» gridò ad Alessandro. «No 'l vede che 'l ne fa perder le forze co le so ciacole?».

Alessandro, di Menina poi non aveva paura. Gli disse un paio d'insolenze prima a bassa voce, poi – vedendo che non gli capitava niente di maleaddirittura urlando. E dall'alto del ponte ci si divertiva. «Ciò, fioi, dove mené quel matto?». Alessandro pareva fuori di senno. Aveva levato il berretto perché si sentiva caldo alla testa. Così con la faccia congestionata e i capelli grigi e arruffati pareva una maschera. Spiegava a Menina ch'egli era stato in barca quando lui non aveva ancora neppure aperto un occhio. Ma le interruzioni dall'alto lo lasciarono perplesso. Evidentemente, di lassù gli poteva capitare qualche cosa sulla testa e non bisognava offendere quelli che occupavano quella posizione favorevole. Spiegò loro che per far piacere a Menina gli aveva ceduto il posto a poppa e che n'era rimeritato così: adesso lasciava che i ragazzi si levassero d'impaccio da soli. Così avrebbero imparato. Era strano che la prudenza accompagnasse Alessandro anche nella sbornia. Una giovine donna gli gridò: «No 'l se vergogna de lassar sgobar i fioi?». «Cara, caramormorava Alessandro per rabbonirla e per guadagnare tempo. Poi ebbe un'idea: «Go lassà le done e la vol che me dedica alle barche?». Il riso fu ora tutto in favore di Alessandro il quale s'assise sul banchetto per riposare e, privo d'idee, ripeté pur di non star zitto la sua ultima frase.

Infine la barca si svincolò quando l'altra barca e la gondola si ritirarono. Allora procedette attraverso allo stretto Rio con la prora innanzi. Si camminava piano e nel tepore del vino e del giugno Alessandro s'addormentò.

Di quell'epoca a Marianno che passava tutto il suo tempo in bottega e nelle strette Calli non rimase alcuna impressione sia di bellezze naturali che artistiche. Quella sera nella luce crepuscolare sentì la bellezza modesta e persino rustica nella sua serietà del vasto Rio di Noal. Fu un'impressione di pace e di sollievo nel giovinetto cuore. Non parlò mai di quel Rio perché a lui parve che quel sentimento fosse stato ispirato unicamente da un suo speciale, felice stato d'animo. "Come sono bello!" pensò.

Poi lui e Menina decisero di lasciare Alessandro a smaltire la sua sbornia in barca e s'allontanarono rincorrendosi nelle Calli tanto più oscure del vasto Rio.

                   II

Da un giorno all'altro Alessandro restò privo di lavoro. Era una cosa inaspettata perché la bottega che Alessandro aveva ereditata da suo padre non aveva mai mancato di lavoro. In complesso già pel padre il cliente maggiore era stato un grande esportatore di perle di Murano. La bottega poi forniva dei mastelli alle case del rione, lavoro che aveva avuto qualche importanza prima della costruzione dell'Acquedotto ed ora non ne aveva alcuna.

Un giorno capitò da Murano un impiegato della fabbrica ad avvisare Alessandro che intendevano di non prendere altri barili avendo finalmente scoperto che l'impacco buono per le perle era la cassa.

Anche questa scena rimase impressa a Marianno. Il povero Alessandro non arrivava a capire bene. Dubitava della verità della comunicazione. Aveva i sudori freddi alla fronte. Volle mostrarsi disinvolto e ironico: «Gavé trovà el modo de far rodolar le casse?». Poi però sentendo che gli minacciava un colpo andò ai suoi ordigni in fondo alla bottega e disse a Marianno di parlar lui perché egli cominciava a non capire più niente. «No segàr quella doga perché no ghe ne gavemo più bisogno!».

Marianno che aveva allora quattordici anni si mise di buona volontà a parlare con l'impiegato. Egli non intendeva bene l'importanza che Alessandro attribuiva alla comunicazione del loro cliente. Si figurava che a questo mondo si sarebbero fatti sempre dei barili, nel modo che li facevano loro; anzi il difetto era che il mondo ne domandava troppi di barili.

L'impiegato, un giovinotto cortesissimo però più disposto a ridere che a piangere ripeté volentieri la sua missiva a Marianno che sorrideva anche lui incantato di vedersi divenuto uomo d'affari.

Marianno aveva capito e gli pareva che non ci fosse nulla a ridire. La ditta di Murano non voleva altri barili; perciò non bisognava dargliene altri. Si rivolse al padrone per vedere se volesse suggerirgli qualche cosa.

Alessandro sentì il bisogno di arrabbiarsi e se la prese con Marianno che non intendeva quale torto enorme fosse fatto alla bottega. Dopo ch'egli aveva servita la fabbrica per più di mezzo secolo veniva gettato in disparte come un ferro consumato. E chi avrebbe pagato l'affitto della bottega per i varii mesi che l'affittanza durava?

L'impiegato alzò le spalle. Bisognava discutere col suo principale. Egli non c'entravapunto né poco. E se ne andò.

Alessandro corse a casa a consultarsi con la moglie. Mamma Berta era la sola in casa che potesse dare un buon consiglio. Si vestì, si addobbò e accompagnò il marito a Murano dopo di aver contati i barili già fatti, le doghe tagliate e – separatamente – quelle non ancora tocche. Prima di lasciare la bottega diede ordine a Marianno di continuare a lavorare ad onta che Alessandro pretendesse che la doga tagliata non si poteva più vendere. Essa ottenne infatti che la fabbrica avrebbe preso tutto il materiale ch'era in bottega e seppe nella giornata stessa far venire una bella colma barca di doghe così che il lavoro si prolungò per un mese intero.

Un mese intero! Mamma Berta lo passò vantandosi del suo successo, Alessandro lavorò come prima non omettendo di far festa ogni lunedì. A Marianno parve interminabile. Era pieno di curiosità di sapere quello che avrebbe fatto quando avrebbe finito di tagliare l'ultima doga.

Un bel giorno Alessandro venne a bottega e trovò che Marianno gettatosi supino sul mucchio di doghe cantava a gola spiegata. «Perché non lavori?» gli domandò stupito.

«Non ho più doghedisse Marianno.

Alessandro si congestionò come quando quell'impiegato era venuto a dargli la grave notizia. Era un nuovo, nuovissimo colpo.

«Andiamo da Berta» disse risoluto.

Mamma Berta fu anche lei stupita di vedersi così presto fuori del suo successo. Essa aveva calcolato su un mese intero di tempo non ricordando che il lavoro di Marianno precedeva di molti giorni quello di Alessandro. Si rimandò la decisione a qualche giorno appresso. Intanto Marianno avrebbe aiutato Alessandro nel suo lavoro. Era però difficile di aiutare Alessandro che con la sua piccola mente era incapace di deviare di un solo movimento dal suo lavoro solito. Finì ch'egli intendeva la collaborazione così: Dava i suoi ordini a Marianno e poi usciva di bottega ma non sempre andava a bere perché Berta non gli lasciava i denari necessari. Così lavorava sempre uno o l'altro in bottega. Ora soltanto Marianno apprese a mettere insieme un barile. Alessandro cercava di dargli delle istruzioni teoriche ma le interrompeva arrabbiandosi con se stesso: «Insomma i barili non devono spandere o almeno non avere dei buchi pei quali possano passare delle collane di perle». E, cessando da ogni istruzione, si metteva a rifare il barile intero. Così passarono gli altri 15 giorni e Alessandro di nuovo apparve di essere colto alla sprovvista. Si congestionò e corse da mamma Berta. Mamma Berta non volle prendere subito una decisione e andò a consultarsi con una sua comare che abitava in una calle vicina. Poi ritornò in bottega ove i due uomini l'aspettavano e comunicò quanto aveva deciso: Per Marianno si sarebbe cercato un altro impiego e Alessandro sarebbe rimasto a bottega a tentare di guadagnarsi "el polentin" facendo dei mastelloni per bucato. Intanto Alessandro e Marianno dovevano andar a comperare un paio di quei barili da petrolio che si segavano in due per fare di quei mastelloni. Alessandro fu subito tranquillo.

               CIMUTTI

Era una calda giornata di Luglio. La mattina tanto di buon'ora era già soffocante. Il signor Perini fece un giro nel deposito prima che alcun operaio vi fosse entrato e quando ne uscì s'imbatté in Giuseppe Cimutti che, primo fra gli operai, vi entrava. «Senti» gli disse «dimenticai di dirti iersera che oggi bisognava imbarcare queste scatole di panno per Genova. È meglio che tu parta subito prima di colazione. Chiama Bortolo e preparate la barca». Giuseppe chinò la piccola testa in segno d'assenso e s'avviava. Si fermò un istante: «Il vapore è in Marittima, già sotto carico?». Era esitante il povero Giuseppe. Avrebbe dato qualche cosa per risparmiarsi quella vogata attraverso tanta laguna sotto quel sole. Il signor Perini si eccitò subito: «Se parti presto arrivi sotto il battello quando non c'è tanta ressa e ritorni a casa prima di sera; altrimenti corri il rischio di passare la notte in battello come la settimana scorsa». «La settimana passata» disse Giuseppe «avrei potuto risparmiare una giornata e una nottata; partire il martedì di buon'ora e arrivare sotto il battello proprio al momento debito». «Sì» disse il signor Perini, e la sua piccola figura tondeggiante di uomo inerte e buono si sconvolse in un gesto di sdegno sprezzante «adesso rischierò di perdere l'imbarco per fare il comodo tuo!». L'altro lo guardò e poi scosse la testa dall'alto in basso dandogli ragione soggiungendo però subito: «Non bisogna però perdere la pazienza se non ritorno prima di domani. Non ci ho mica colpa io se a bordo ci chiamano per turno». «Io non ho detto niente» protestò il signor Perini, «ma certo che ogni volta che mando te in Marittima non ti rivedo che passate le trentasei ore». Sul volto di Giuseppe passò un lampo breve, breve, impercettibile di malizia. Al signor Perini parve e non parve e quando guardò meglio Giuseppe lo scoperse con l'occhio scintillante d'indignazione. «E perché non viene una volta a sorprendermi in Marittima? Fa male, sa, fare il proprio dovere e vedere che si è sospettato di non averlo fatto. Perciò, solo perciò, io vorrei non lasciare mai Murano e lavorare il giorno intero nel deposito». Cimutti condì la sua risposta anche di qualche bestemmia che nel suo dolce vernacolo veneziano non risultava offensiva e si fondeva in un ossequio generale, non diretta a nessuno. Già tutti sapevano che il signor Perini non sarebbe mai più andato in Marittima con quel caldo. La battella era a posto al pontile e Cimutti, Bravin e Andrea si accinsero a caricarla. Il signor Perini stava immobile a guardare. Avrebbe voluto dire ancora qualche cosa ma non trovava; le parole di Cimutti non lo avevano offeso ma lo aveva offeso quel sorriso di scherno che aveva creduto di veder passare su quella faccia di uomo in cui l'intelligenza si era attenuata nello sviluppo dei muscoli e tenue così s'era convertita in una lieta furberia. Ma non trovò. Si grattò la testa ripensò lo stato in cui Cimutti era entrato in casa, povero, privo di un cencio e si sentì pieno di rancore per tanta sconoscenza. Salì in casa sulle punte dei piedi per non destare la moglie e si mise al tavolo vicino alla finestra nella stanzuccia che gli serviva di ufficio per fare il lasciapassare. E quando dovette scrivere il nome di Cimutti quale suo mandatario, la sua penna si mosse irosa: "Furfante! Non merita la fiducia che ripongo in lui!". Ritornò con la carta in mano al pontile. L'acqua era alta; copriva la palude al di del canale di fronte al deposito. Le Fondamenta Nuove si specchiavano nell'acqua tersa e il riflesso dei ponti bianchi era visibile anche a tanta distanza. Il signor Perini guardava e non fiatava; cercava ancora parole mentre Cimutti dalla barca s'affaticava a ricevere in barca le casse che gli altri due gli porgevano. Era solo per lo sforzo fisico che la fronte dell'operaio s'era talmente increspata? Il signor Perini guardò quella fronte e conchiuse che non c'era bisogno di cercare altre parole perché l'operaio doveva aver capito. Si sentì subito più buono. Mitigatosi trovò subito qualche cosa da dire e, scherzosamente, osservò: «Sarebbe bella che quest'oggi tu capitassi a casa alle quattro». L'altro fu tanto stupito da tale espressione che restò in piedi con una cassa fra le braccia. Poi, curvatosi più di quanto fosse necessario per riporla e celando così del tutto la faccia, disse con voce sonora: «Potrebbe anche essere». E dopo qualche istante di riflessione, la sua furberia gli fece soggiungere: «Magari. Alle quattro verrei subito all'ombra». Il signor Perini fu contento di tale espressione e pensò che Cimutti alle quattro – se le circostanze glielo avessero permesso – sarebbe stato di ritorno. Eh! bastava saper trattare con gli operai! Ricordò che anzi alle quattro avrebbe avuto bisogno di Cimutti. Bravin doveva andare ad incassare, Andrea usciva nel pomeriggio con la gondola. Restava perciò in casa il solo Bortolo il falegname e c'era bisogno di spostare delle pezze di panni, lavoro che non si poteva fare che in due. Cimutti disse: «Vado a prendere in casa una goccia di caffè e poi parto subito». Il signor Perini sempre col lasciapassare in mano gli camminò da canto ed ebbe una nuova idea: «Senti» gli disse «se sei qui per le quattro ti pago sei ore di lavoro di più». Furbo era il signor Perini perché se Cimutti doveva passare la notte in Marittima allora il signor Perini avrebbe dovuto pagargli una giornata e mezza. Cimutti ebbe un sorriso che poteva apparire riconoscente e disse: «La ringrazio! Per quanto sta in me, io farò del mio meglio!». E per aggiungere vigore alla sua assicurazione, si ripeté: "Magari!". Si avviarono così uno accanto all'altro alla casa di Cimutti posta di fronte alla casa padronale più piccola ma bella e spaziosa. Era rimasta a Cimutti perché non si sapeva darle un uso migliore. Anticamente il deposito di stoffe era stato ben più grande e in quella casa c'era stato un ufficio complesso. Poi la casa madre s'era trasferita a Roma pur convenendole di lasciare il deposito a Murano ove uno dei soci – il signor Perinidesiderava di rimanere. Il signor Perini aveva passati varii anni su quella parte deserta dell'isola. Nei primi tempi quel soggiorno aveva costituito per lui un sacrificio. Orapassata la maturità – gli sarebbe stato un grande dolore di dover abbandonare quel luogo ove la sua inerzia trovava un impiego tanto vantaggioso. Egli sorvegliava il deposito – faceva in tutto e per tutto il vantaggio della casa – e passava le giornate intere in ozio completo studiando i movimenti dell'acqua intorno all'isola, sognando che il mondo fosse quietato come era quieto lui. V'erano dei posti all'aperto dietro il deposito sull'antico grande canale di Murano ove in epoche più ricche – ma non più felici, diceva il Periniera affluito tutto il lusso di Italia, mentre ora in pieno meriggio si sentiva battere il proprio cuore nel grande silenzio. C'era una parte dell'anno in cui il signor Perini perdeva la calma e il riposo: L'epoca dell'inventario! Bisognava smuovere tutte le balle; prendere degli operai avventizii, notare, registrare, fare conti. Ma tale breve periodo serviva per fargli sentire meglio la sua felicità quando questo periodo era passato. «È prontodomandò Cimutti brevemente a sua moglie. La sora Lisa alzò la testa dal mastello ove lavava della biancheria. «Mariadisse alla figliuoletta di 12 anni al più che le stava accanto appiccicata alle gonne, « a papà il caffè ch'è nella tazza accanto al fuoco». La Maria si avviò un po' malsicura perché la poverina era quasi cieca e Cimutti la precedette mentre Lisa era piombata al suo lavoro. Il signor Perini la guardava con compiacenza. Come era bello veder lavorare con tanto gusto. Quella, sì, se fosse stata un uomo avrebbe dato un operaio come sarebbe piaciuto al signor Perini. Come lavorava e come era sempre lieta e serena; tanto lieta e serenadiceva il signor Perini – come se avesse riposato il giorno intero. Era del resto affare d'abitudine perché il lavoro occupava nella sua giornata il tempo che nell'altrui occupava la quiete. S'alzava alle 5 del mattino e andava avanti a lavorare fino alle 9 della sera. Aveva tre figliuoli di cui uno, la Maria, con la sua malattia agli occhi le costava un occhio della testa. La paga di Cimutti non bastava perciò e Lisa aveva accettato di lavare per il signor Perini e di prestare dei servizii in sua casa verso una mite retribuzione. Cimutti era un buon lavoratore, vogatore di barche grosse conosciuto a Venezia ma aveva bisogno di una parte della sua paga per tenersi vivo... come diceva lui. Così l'impiego della Lisa era divenuto una necessità ed ella s'era messa di tutta lena a guadagnarsi l'affetto e la fiducia dei signori Perini. Marito e moglie passavano a lei i vestiti smessi e quelli di Arturo il figliuolo ch'era agli studii e che ben di rado veniva a Murano. Non era molto perché tanto il signore che la signora Perini restavano molto in casa e consumavano i loro indumenti fino all'ultimo ma tutto veniva accettato dalla Lisa con tanta riconoscenza che faceva piacere riservarle ogni straccio per vederla subito lieta della sua sorte. Era una donna ancora giovane ben al disotto dei 40 anni dal corpo deformato, la pancia molto ingrossata ma la faccia ancora fresca, negli occhi azzurri una luce di gioventù e di bontà. E come il signor Perini le diede il saluto della mattina, essa alzò anche una volta gli occhi dal mastello per rispondere con un sorriso. E il signor Perini che restava alla sua idea fissa le chiese: «E a te non piacerebbe di veder Cimutti a casa alle quattro pomeridiane?». Essa sorrise di nuovo: « alla Marittima si perde tanto tempo...». Aveva una grande paura di compromettere il marito. Prima di entrare dal signor Perini, Cimutti aveva lavorato per molto tempo quale avventizio alla Marittima. Lui aveva lavorato meno ma la Lisa doveva aver passato un gran brutto periodo perché non finiva di benedire il giorno in cui era venuta a Murano. «Digli» insisté il signor Perini «che hai desiderio di rivederlo alle quattro». Essa non esitò un istante. Si alzò, si rasciugò le mani al grembiule ed entrò in casa a parlare col marito. Si sentì subito Cimutti che, con la bocca piena, le diceva: «Ma sì, ma sì! se posso!». La Lisa uscì dalla casa e passando dinanzi al padrone piegando con certa grazia il capo ora su una spalla ora sull'altra e contraendo la bocca per dire che la sua missione era stata inutile: «Dice che proverà. Ma si capisce che sarà difficile perché egli sa il lavoro che c'è a tenersi sotto bordo il primo». E ripiombò al suo lavoro come se avesse voluto guadagnare il tempo perduto. Il signor Perini non fu ancora soddisfatto e consegnando il lasciapassare a Cimutti gli disse: «Arrivederci in Marittima. Vengo sicuramente a trovarti!». La sua faccia rotonda parve divenir muscolosa, tanto volle esprimere una risoluzione. Cimutti disse semplicemente la parola che meglio lo difendeva: «Magari!» ma dopo di aver guardato per un istante in faccia il padrone come per studiare se avesse detto sul serio. Il padrone perciò si volse al suo studio lieto dell'effetto prodotto. Ma se il remo avesse potuto parlare avrebbe raccontato che mentre Cimutti lo moveva con tutta energia mormorava: «E adesso all'osteria!» in puro italiano come sogliono spesso i veneziani quando abbisognano di tutte le consonanti per segnare meglio il loro pensiero.

A colazione il signor Perini disse a sua moglie di quanto gli era successo con Cimutti e parlandone s'animava ricordando con quanta benevolenza e con quanta abilità egli aveva saputo trattare. La moglie che aveva passata come lui la cinquantina ma era tuttavia bionda e rosea lo guardava sorridente lieta di vederlo tanto animato. Quei quattro operai unici abitanti come loro sul canale di Serenella rappresentavano molta parte della loro vita. Li conoscevano tutti, conoscevano i loro bambini, le loro mogli, le loro qualità e i loro difetti. Il lungo e vecchio Bravin era il più sodo e più coscienzioso di tutti. Cimutti e Andrea il gondoliere erano buoni e destri ma beoni. AndreaDio sa come – prima di entrare da loro – aveva bevuta tutta una bottega di pesce e poi una d'indoratore che aveva ereditata. Perciò lo chiamavano bevi-botteghe ciò ch'egli sopportava con rassegnazione sapendo ch'era vero. Del resto buon ragazzo e si diceva anzi a sua lode che quando era ubbriaco era molto più divertente che quand'era sobrio. Infatti quando non aveva bevuto era di poche parole e in corte raccontavano che sua moglie Nina una bionda giovine alquanto appassita amava di sapere che a suo marito non mancasse il bicchiere di vino anche se non fosse suo destino di berlo di frequente con lui. Bortolo, il falegname, debole come operaio e come beone (il vino gli produceva il male di schiena) era il più veneziano di tutti, da Castello, e sapeva declamare i versi di Arlecchino. Era il buffone della corte ma non abitava in Serenella e apparteneva perciò meno intimamente alla famiglia; abitava ben lungi. Aveva lavorato a contratto e – salvo rarissime eccezioni – poteva andare e venire all'ora che gli fosse piaciuta.

Anche la signora Perini abbandonava ben di rado Serenella per fare delle corse in città. Aveva la gondola ma quella passava inerte le sue giornate nella vecchia cavana. A colazione, regolarmente, la signora Perini, s'informava dal marito se avrebbe potuto avere il gondoliere. Il signor Perini incominciava a fare i suoi calcoli. La poca carne umana messa a sua disposizione veniva vagliata: Una spedizione importante costava due uomini, restavano due in casa (computato Andrea) e di uno non si sapeva che fare perché per spostare delle balle di panno o per pesarle occorrevano due uomini. Altri giorni la spedizione era piccola e bastava un uomo ma Bravin doveva andare in città per incassi o pagamenti e allora restavano di nuovo due soli. Perciò Andrea non poteva partire. E avvenne talvolta che si aveva il gondoliere ma non la gondola perché l'acqua aveva calato e non c'era abbastanza braccia per trarla dalla secca nella vecchia cavana. Ma l'orgoglio del signor Perini era precisamente di aver risparmiato tante spese alla sua casa e ciò senz'aver diminuite le paghe degli operai, anzi al contrario. Era bastato di sorvegliarli coscienziosamente e di dirigere il loro lavoro. Il signor Perini fra' suoi soci era il più debole e aveva accettata una mansione che dispiaceva a tutti gli altri più intraprendenti e più vivi di lui. La signora poi per essere lieta non aveva bisogno che di una lettera al giorno dal figlio. Non s'adirava quando già vestita per uscire doveva rinunziarvi causa la secca o perché s'era levato un vento tale che quel pusillo di Andrea non osava di uscire senza l'aiuto di un secondo uomo o infine perché era arrivato un dispaccio con un forte ordine di spedizione e Andrea doveva partire subito in cerca di una peatta per il giorno appresso. Essa si spogliava calmamente sedeva al finestrone che guardava il grande mare lagunare tanto spesso mutato in una palude enorme subito leggermente inverdita ai raggi del sole, aurea al tramonto, popolata dai gabbiani gracchianti in assemblea, in un'immobilità di essere riflessivi. E agucchiava e guardava la laguna, la palude, le bestie e la città lontana asserendo di aver perduto molto per la caduta del campanile che essa vedeva lontano e piccolo ma che le era servito d'orientamento. Era premiata della sua pazienza dalla gioia del marito che amava di veder mitigata la sua solitudine dalla presenza della moglie. Egli abbandonava ad ogni tratto il deposito per venir a fumare una sigaretta presso di lei. E le portava su fresca, fresca, qualche barzelletta di Bortolo del quale il dialetto puro, veneziano, costituiva per loro che non erano veneti una fonte di liete risate. Quanto tempo non si rise in quella casa di una piccola sventura toccata al povero Bortolo. Avvenne cioè che suo zénero el fravo non poté andare in fràvica perché aveva la freve. In casa c'era un'altra persona: La Nilda una ragazzina venuta da poco di campagna, un'ingenua che avrebbe dovuto cucinare ma che bisognava per ogni piatto dell'assistenza assidua della signora. E anche quella allegrava la casa colla sua ingenuità, con le sue grida di meraviglia ad ogni cosa nuova che vedeva o udiva ed ella ne trovava molte anche in quella solitudine di Serenella. Tante ne aveva trovate che nei primi giorni ne fu molto confusa. Si doveva fare un arrosto. La signora a un dato punto aggiunse dell'acqua e andandosene disse: «Ritorno subito. Intanto puoi aggiungere un po' di carbone». Quando la signora ritornò trovò nell'arrosto una quantità discreta di carbone. La Nilda coi grandi occhioni neri guardava dubbiosa la signora perché sapeva di aver obbedito ad un ordine stranissimo ma rimproverata, si scusò: «Cucinano tanto strambamente loro signori che non si può mai sapere». Non fu sgridata. L'arrosto fu salvo tuttavia e dell'ingenuità della Nilda si rise in casa, in deposito e in corte per molti giorni. Chi lavorava più di tutti in casa era la Lisa che incominciava la mattina a lustrare le camere e finiva dopo cena col lavare i piatti. Le toccava inoltre una volta alla settimana di fare il bucato. Essa non aveva tempo per far ridere la gente. Lavorava lieta ed era molto rispettosa. Così, ad onta che Cimutti non le avesse passato tutta la paga la sua casa negli anni precedenti s'era arricchita di mobili, di coperte e di utensili da cucina. Ora la casa tendeva piuttosto a vuotarsi dacché la Maria s'era ammalata d'occhi.

Dopo colazione il signor Perini mandò in città Bravin ad effettuare degl'incassi e così restavano in deposito i soli Andrea e Bortolo a smuovere delle balle. Durante la mattina il signor Perini passò un dieci o venti volte la corte per andare a fumare la sigaretta accanto alla moglie. Lisa aveva abbandonato per il momento il mastello e si vedeva nella cucina posta a pianterreno a mescolare con le sue braccia grasse e forti la polenta. Il signor Perini si fermò un momento a guardarla. La debole fiamma del focolare le illuminava la veste dimessa ma pulita. La testa invece si proiettava sulla finestra di fronte che dava sull'orto inondato di sole. Essa s'avvide del signor Perini e abbandonando la polenta a rischio di bruciarla, corse a lui: «Comanda, padrone?». «Nulla, nulla» disse il signor Perini avviandosi verso casa sua; poi si fermò, e sorridendo, le chiese: «Credi che Cimutti sarà qui per le quattro?». Ella si confuse, ma subito, sorridendo, disse guardando il cielo: «Chi lo può sapere?». Subito dopo pranzato arrivò un dispaccio che ordinava un'altra piccola spedizione per il giorno appresso. Bisognava mandare subito Bortolo in città per fare la polizza e si restava di nuovo soli con un operaio. Date le condizioni degli operai nel deposito la cosa diventava grave. Cimutti era il solo fra gli operai che sapesse numerare e marcare delle casse. Se egli non veniva in tempo il signor Perini avrebbe dovuto assistere per un paio d'ore a tale numerazione, porgere all'operaio numero per numero, e vedere se fosse applicato dalla parte diritta: Un lavoro che toglieva al signor Perini la gioia di vivere. Il lavoro principale consisteva nella preparazione delle casse. La pesatura si sarebbe fatta in un istante non appena Bravin fosse venuto a casa e quello non mancava di sicuro. Il signor Perini discusse la questione con la moglie e questa giudiziosamente lo consigliò di attendere fino alle quattro. Forse Cimutti sarebbe venuto e il signor Perini avrebbe potuto risparmiarsi tanto disturbo. Il signor Perini accettò il consiglio ma se ne trovò male. Dalle due alle quattro camminò

              

               IN SERENELLA

                   I

La luce veniva lenta a destare i colori della palude, del canale, della spiaggia verde dell'isola. L'enorme piano s'era illuminato gradatamente tutto nello stesso tempo. Il sole non si vedeva ancora ma la luce che riverberava dal cielo si diffondeva senz'ostacoli dappertutto nello stesso tempo. Al di della palude appariva la città con l'aspetto modesto ch'essa ha da quella parte, pareva un alveare disabitato. I profili delle case si scorgevano netti, limpidi, come se la notte li avesse lavati. In tanta estensione l'immobilità, il silenzio appariva grande sorprendente. La palude era rossigna a quell'ora; vista da vicino appariva sucida, desolata, abbandonata com'era da varie ore dall'acqua che ancora calava. Il canale che divideva la palude dall'isola già sorrideva, trasformando in colore ben deciso la luce ancora sbiadita ed era trasparente e azzurro e poi ancora giallo e rosso dove meno profondo lambiva la palude. Alla spiaggia la casa padronale che all'esterno pareva una lunga tettoia in varie sezioni dai tetti appuntiti era chiusa ancora e silenziosa. A questa di faccia lontana dalla riva invece la casa dell'operaio Cimutti dava qualche indizio di vitalità. A pianterra ardeva una fioca lucerna e sul focolare stentava ad accendersi il fuoco.

Poi la porta s'aperse e ne uscì Cimutti un uomo ancora giovine, magro, dalla piccola testa coperta fittamente di capelli neri, corti. Con lui entrò nel panorama il freddo. Batteva – per scaldarsi – i piedi, e lanciava in croce le braccia.

Doveva avere l'abitudine di parlare ad alta voce. Gettò un'occhiata d'antipatia alla casa padronale e disse: «Se quell'impiastro fosse alzà se poderave averzer el magazzen e stivar i barili». In quella chetamente la porta dell'abitazione padronale si aperse senza cigolare e ne uscì il signor Giulio. Doveva essere sulla quarantina, alquanto grasso e floscio, una faccia rotondetta, mite, con due buoni occhi azzurri un po' incerti. Cimutti lo salutò sorpreso di vederlo alzato e gli disse: «Giusto pensavo che gaveria podesto pensar a stivar i barili nel magazzen...». L'altro lo interruppe: «Altro che stivare i barili! Mi sono ricordato che l'acqua cala e che iersera abbiamo dimenticato di tirar fuori la barca. Se ritardiamo ancora ci avviene come un mese fa che fino alle 10 siamo rimasti senza barca». Cimutti che aveva benché rispettosamente sempre una tendenza all'obbiezione: «Oh! l'acqua cresce!». Il freddo e il dispiacere di aver dovuto abbandonare sì di buon'ora il letto resero impaziente il signor Giulio. Divenne parolaio perché uso a vincere la lieve resistenza che sempre incontrava in Cimutti: «Andiamo! Va subito alla cavana! Che cosa parli dell'acqua che non l'hai ancora vista? sei sempre fatto così, tu! Se avessi potuto fidarmi di te avrei potuto dormire tranquillamente! Ma adesso, poi, che ti ho avvertito, non perdere tempo». E s'infuriò vedendo che Cimutti si dirigeva dalla parte opposta della cavana. «Ebbene! Se non vuoi tirare fuori la barca tu, la tirerò io!». E s'avviava! Cimutti, fu alla riscossa: «Vado a tor el remo sotto la tesa! Nol vorrà miga che voga con le man!». Il signor Giulio fu interdetto: Aveva dato prova di tanta previdenza ed ora gli veniva giustamente rinfacciato di obliare che per movere una barca ci voleva il remo! Cimutti ritornava già dalla tesa col remo sulla spalla col suo passo breve e veloce. Il signor Giulio lo seguì. Era il suo lavoro principale quello di star a vedere il lavoro altrui. Inoltre doveva ora guadagnare tempo. Non voleva destare né la moglie, la signora Anna, né i figliuoli prima delle sette. Egli doveva perdere tempo. Poi ricordò che bisognava levare anche la gondola dalla cavana perché ce n'era bisogno alle 8. Seguì più lentamente Cimutti attraverso il lungo prato popolato da alberelli alquanto deboli. Trovò che Cimutti aveva deviato dalla cavana e s'era recato alla spiaggia. Stava a guardare l'acqua. Vi gettò un fuscello di paglia per vederlo trasportare. «Cala! Cala infatti! Ma come?» e si fece meditabondo quasi avesse voluto provare che il torto era dell'acqua. «Geri sera alle otto la calava...». Il signor Giulio ci si divertiva ai conteggi di Cimutti: «Già, tu hai il calendario dell'acqua in testa!». «Ma no!» protestò Cimutti. «El ga razon! El ga fatto benissimo de svegiarse». Sulla cavana correva un piccolo ponticello che abbreviava la via alla prossima calle. Era coperta da un tetto fatto di sottile lamerino guadagnato da involti di certa merce che arrivava nel deposito. Cimutti volse la schiena all'acqua con un grido: «Ma era l'altr'ieri che l'acqua calava alle 8... Non alle 8, alle 9». E fra giorni e ore fece una confusione tale che per schiarirla esclamò: «Ora capisco, ora capisco!» e scese nella cavana. Il signor Giulio lo seguì per la scaletta fatta di pietre smosse. Cimutti era arrivato giù in un balzo. Il signor Giulio per quanto si trovasse in laguna da quattr'anni, poco pratico di cavane e di barche andava adagino. Quando arrivò giù trovò Cimutti che aveva già slegata la barca. Poi andò a poppa e si spinse fuori. Il punto più secco della cavana era all'uscita e la barca attraversandolo produsse quello sfregamento che in laguna è un rumore ben sgradevole. Annuncia al navigante ore di lavoro. Il malcauto è andato in secca. «Vedi ch'era tempodisse il signor Giulio. Poi Cimutti cominciò a vogare contro corrente per portare la barca al pontile ove doveva essere caricata. «Vieni poi a prendere anche la gondola» avvertì il signor Giulio che s'era arrampicato fuori della cavana. Il sole non aveva ancora varcato l'orizzonte ma la luce era oramai ben decisa. La chiesa di S. Micel elegante, candida, guardava la palude solo per il signor Giulio che vedeva questa in iscorcio. Di a poco i vaporini sarebbero passati sull'enorme canale fra la chiesa e la palude. Il cimitero celato dal muro di cinta avrebbe potuto secondo il signor Giulio celare qualche cosa di più lieto: Egli non ci aveva nessuno dei suoi che riposavano tutti all'asciutto a S. Anna di Trieste. Egli aspirò con voluttà la fredda aria mattutina. Quelle cose: La palude, i canali, il battisterio bianco di S. Micel e anche quel muro rosso che s'ergeva dall'acqua o dal fango erano i suoi cari compagni da quattr'anni. Il suo principale lavoro era stato di guardarli e studiarli ed anche di sognarvi su. Come sarebbe stato bello che tutta la chiesa avesse avuto il colore del battisterio, di marmo bianco. L'oasi di disegno umano sarebbe stata imponente ed importante come l'enorme palude che ad acqua bassa arrivava fino al lontano ponte ferroviario. Ed alla moglie che lo stava ad ascoltare sorridente egli diceva: «Già, è certo che gli antichi Veneziani fecero la chiesa tutta bianca. Quando si trattava di cose simili essi non risparmiavano!». E non sapeva nulla della storia del paese che tanto amava. C'erano in casa dei libri che la signora Anna si procurava per far piacere al marito ma egli non aveva il tempo di leggerli. Non s'era levato tanto di buon'ora per lavorare? Guardò verso Venezia oltre la palude. sulla palude proprio – se egli fosse stato milionario – avrebbe fatto costruire una enorme Pietà in marmo pario che avrebbe riepilogato il tempio magnifico di marmo... che – forse – c'era stato una volta a S. Micel. La Pietà egli l'aveva vista a Trieste ma doveva essere riprodotta in forme colossali tali che alla distanza di un chilometro cioè dalle Fondamenta Nuove si avrebbe potuto percepire le due figure della Donna che consola l'Uomo inginocchiato e riposante nel suo grembo. L'acqua salendo avrebbe dovuto poter coprire il piedestallo e lambire i piedi delle due figure. Certo il monumento doveva essere rivolto al Cimitero e così anche dalla spiaggia sua il signor Giulio avrebbe potuto vederlo tutto, immoto nell'acqua sempre nuova e viva.

Cimutti ritornò a prendere la gondola. Al suo solito, camminando col suo passo svelto, parlava a voce alta. Parlava tuttavia dell'acqua che calava così fuor di proposito. «E bisogna fare anche presto perché di qui a mezz'ora non sarebbe più tempo! Buono che lei ci ha pensatodisse al padrone. E per ingraziarselo aggiunse: «E poi dicono ch'ella non lavora. Guai se non ci fosse». Il signor Giulio che stava facendosi una sigaretta a queste parole fece quel piccolo movimento inevitabile in chi si sente penetrare nella carne uno spillo. Qualcuno doveva aver detto ch'egli non lavorava. E guardando la sigaretta le labbra che dovevano presto lasciar passare la lingua per umettare la carta fine si atteggiarono a rancore. Lo avevano mandato a quel posto – i suoi fratelli Nino ed Ugo – come ad una sinecura. Egli sapeva bene, accettando, che non sarebbero stati tanto buoni e poi lui non era uomo da accettare una sinecura. Arrivato qui s'era messo a lavorare a tutt'uomo. Era in piedi da mattina a sera. Ci si trovava benissimo a patto non avessero detto ch'egli non lavorava. Si trovava in grande dipendenza dal fratello maggiore e dal minore due persone che avevano assorbite tutte le qualità di intraprendenza ch'erano state disponibili per la famiglia Linelli. A lui non ne era rimasto niente. Ed essi erano stati la colpa della sua rovina perché fino ad un certo punto egli s'era limitato a condurre avanti la baracchetta ereditata dal padre ricavandone quel piccolo utile che gli occorreva. Ma intanto essi avevano scovato fuori affari inauditi con l'America, il Giappone, la China e che so io ed egli volendo far vedere che valeva quanto loro s'era messo anche lui nelle cose grandi che lo avevano subito subito schiacciato. «Ebbi sfortunadiceva alla moglie. «Perché di attività non mancai mai. Come lavoro ora, lavorai sempre». E la buona signora stava attenta di non lasciar trasparire il sorriso che le faceva il solletico su tutta la faccia. Ella, ora che gli era vicina tutto il giorno, sapeva com'egli solesse lavorare. Stava a guardare gli operai che stivavano casse e barili facendoli chiacchierare e ripetendo i loro motti abbelliti dalla loro loquela natia. Poi andava a vedere la chiesa di S. Micel e la laguna e la palude e girava poi dall'altra parte a contemplare la chiesa degli Angeli e il grande canale di Murano e la palude da quella parte più alta e più sconsolata ancora. Egli dalla vita non domandava altro. Di domenica andava in sandolino vogato dal giovine Sandro sotto poppa d'inverno una bottiglia di rum, d'estate un'aranciata fresca. Avevano lo schioppo a bordo e la licenza di caccia ma era proibito di tirare e il sandolino passava per i canali più lievi. Ad acqua alta varcava la palude ed il signor Giulio stava sognando attività, ricchezze, monumenti e preoccupato dall'equilibrio. Talvolta portò con sé la sua piccola Maria ma al ritorno trovavano al pontile tutta sconvolta dall'ansia la signora Anna che non si fidava troppo della sua salvaguardia per la bambina.

Intanto Cimutti con una spinta vigorosa era uscito dalla cavana e vogava in mezzo al canale. Adesso era chiaro abbastanza per scorgere ogni movimento della sua fine nervosa figura compiente l'opera paziente del remo. E, fumando, a passo lento il signor Giulio si avviò verso la casa. Oramai la casa di Cimutti era viva del tutto. Lisa la moglie era già al mastello mentre i figliuoli Maria, Tonin e la Nilda erano ancora nella cucina scarsamente illuminata a mangiare della polenta fredda avanzata dal giorno prima con un po' di caffè caldo. Il signor Giulio era tanto abituato ad assistere al lavoro altrui che si fermò anche dinanzi al mastello della siora Lisa. «Bel tempo» fece per avviare conversazione e guardava il fuoco che la Lisa aveva acceso sotto due vasi quadri pieni di acqua. Il fuoco faceva ancora un grande fumo e poco calore. Lisa carponi lo stizzava. Poi da un cesto cominciò ad estrarre la biancheria sucida. Essa guardò il cielo: «Magari durasse!». Pensava a quando avrebbe avuto bisogno di secco e di sole dopo lavata la biancheria. La Lisa aveva una faccina gradevole ancora quantunque sfiorita per gli stenti. Erano da quattr'anni a quel posto e ci erano arrivati nudi e crudi come Dio li aveva fatti. Ora, invece, mangiavano tutto il santo giorno polenta in varie forme condita con quello che restava della tavola padronale ma avevano tutto il necessario per coprirsi e scaldarsi. Cimutti – così correva voce in Serenella – faceva una vita meglio che discreta. Guadagnava con le ore straordinarie poco sotto la trentina di lire alla settimana ma ne mangiava quasi la metà per sé. La famiglia sarebbe rimasta perciò veramente povera se la Lisa non avesse lavorato per suo conto. Lavava e cuciva per i padroni e passava parecchie ore del giorno nella casa padronale a prestare servizii. A forza di lavoro la sua faccina diventava sempre più piccola mentre il suo corpo – cosa stranadiventava più grosso. Ora, coperta di cenci, di nuovo china ad attizzare il fuoco, pareva una botticella. Il fazzoletto in testa legato sotto il mento le rendeva anche più piccola la faccina esangue. E il signor Giulio vedendola perché ella, per rispetto, subito non appena lasciato il fuoco, alzava a lui il capo, ricordò l'ultima malattia della Lisa. Indisposta essa s'era trascinata per una settimana fra mastello e scafa, poi una mattina s'era messa ad urlare dal male e l'avevano portata all'ospedale. Ci era rimasta per un paio di settimane e ne era ritornata la faccia un po' più colorita e il corpo un po' più magro. «E state sempre bene, ora, Lisadomandò il signor Giulio. «Sì, signore, sempre!» disse essa con un mite sorriso che pareva di soddisfazione. Egli volle anche sapere se dacché aveva abbandonato l'ospitale si sentisse meglio o peggio. Ella rispose di non saperlo bene; era indecisa. Le pareva poco di sua convenienza di raccontare al padrone di sentirsi meno bene. Anche Cimutti aveva perduto il servizio anteriore in seguito ad una malattia. Essa aveva potuto vedere che i Linelli eran fatti altrimenti ma pur era meglio guardarsi. L'esitazione non fu percepita dal signor Giulio. Egli era sempre alla ricerca del buono e del meglio ed anche quando non c'era lo ritrovava. Dunque siora Lisa stava bene e alla sua famiglia erano garantiti tutti quei denari ch'essa sapeva guadagnare e alla signora Anna era assicurato un aiuto che rendeva loro tanto più facile il soggiorno in quel luogo deserto. Ed egli non disse più nulla per non interromperla nel suo lavoro. Ella levava dal canestro la biancheria sucida ed egli guardava fantasticando: Ecco le calzine della sua bambina Olga. Parevano quelle di un'adulta mentre quattr'anni prima quando erano venuti in laguna erano state tanto più piccole. Le calze e la camiciuola del piccolo Nino. Quelle sarebbero cresciute e di a pochi anni avrebbero avute le dimensioni delle cose di Olga che ora andava a scuola... alla scuola promiscua... che non si poteva ancora sapere se era una buona cosa... ed era bene ch'egli si fosse levato a far trarre la gondola dalla secca... ed in complesso Cimutti non era molto intelligente. E così quando il signor Giulio si volse per andare a prendere il caffè in casa il giorno era fatto. I primi raggi del sole avevano nettato la palude che oramai appariva pura gialla e azzurra, pura quanto i canali d'argento che la circondavano, quanto la città colorita nella quale a quella distanza l'unico segno di vitalità percettibile era il fumo mobile di alcuni fumaioli e camini.

                   II

L'abitazione di un piano solo in quella che all'esterno pareva una baracca era priva di eleganza ma molto comoda. Dalla porta d'ingresso con poche scale si giungeva ad una vasta anticamera intorno alla quale stavano tre stanze da letto la camera da bagno la cucina e la camera da pranzo. Nell'anticamera ardeva già un'enorme stufa che sarebbe bastata a scaldare tutto l'appartamento. Il signor Giulio saliva le scale con prudenza per non destare i bambini ma dalla stanza a destra fu un vociare lieto che gli ridiede la libertà di movimento. Olga disse che aspettava il babbo da parecchio tempo. Giulio entrò nella stanza e andò a spalancare la finestra. Olga era ben desta e salutò il babbo gettandogli le braccia al collo con un abbandono che benché innocente pur forse preludeva alla futura madre alla futura sposa. Il bambino Nino era stato invece destato dalla luce e si sforzava di tener aperti gli occhi mentre il sonno ancora lo teneva i braccini abbandonati sul guanciale. Al signor Giulio dispiacque di averlo destato e avrebbe volentieri rinchiuso di nuovo la finestra per ridar la pace al piccolo organismo che ancora ne abbisognava. Ma il bambino non poteva ritornare alla pace del sonno. Subito quando capì che il padre voleva rinchiudere le persiane si mise a piangere e la bocca spalancata e gli occhi sonnolenti chiusi piangeva il dolore di essere stato destato o dall'ira che si voleva dormisse ancora. Il signor Giulio andò ad accarezzarlo l'anima piena di sorrisi davanti a tutta quella carne rosea. Il Nini aveva dato in passato delle preoccupazioni ai genitori; la laguna lo aveva rinvigorito ed era agli occhi del signor Giulio uno dei meriti di quell'acqua che andava e veniva la salute di quel bambino. E tanto lo riconosceva figlio della laguna che scherzosamente lo chiamava "masinetta". Finalmente il Nini trovò la parola al suo pianto: Voleva il caffè. La piccola Olga era saltata nel letto del Nini e lo consolava come sapeva. E tutti urlavano il nome della cameriera "Italia". Nel pianto lo diceva il Nini, lo diceva con lui la Olga e il signor Giulio e lo diceva dall'altra stanza la signora Anna che aveva ben capito che cosa significasse tutto quel rumore perché era una scena che si ripeteva giornalmente all'ora del caffè. Italia accorse con un vassoio e le due tazze di caffè per il Nini e per la Olga. Ecco un'altra che rendeva più facile la vita in quel deserto. La signora Anna l'aveva conosciuta a Venezia sarta di qualche talento ma non di grande clientela. Viveva allora con una sorella che poi si sposò e con la madre che morì. La signora Anna che per aver passate tante giornate a lavorare insieme all'Italia nella solitudine di Serenella le si era affezionata le disse un giorno scherzosamente: «Sa che la mia cameriera se ne è andata? Perché non verrebbe lei a prendere il posto suo?». Italia senz'altro accettò a grande sorpresa della signora Anna e a suo non piccolo imbarazzo perché ella non pensava di fare un tanto buon affare come si vide poi. Italia aveva accettato anch'essa quasi per ischerzo ma in pochi istanti la sua determinazione era presa. Ella che amava la sua arte di sarta non poteva lasciarla con piacere per quella di cameriera ma come si fa per orgoglio continuare a vivere sola del tutto a questo mondo? Pochi anni prima ella aveva avuto una disillusione d'amore oramai dimenticata ma di amore per lei non si parlava più. Ella si vedeva con tutta sincerità abbastanza brutta e a certe cose non ci pensava più. Era magra, alta, la schiena un po' piegata, due occhi dolci grigi e i capelli ch'erano stati di colore castano già molto bianchi ad onta della sua età giovanile. Ella aveva accettato prima di tutto per amore alla piccola Olga e al piccolissimo Nini, poi per amore alla grande signora Anna e infine per simpatia a quel buon sognatore del signor Giulio. Dunque in quella casa c'era molto da fare ma in compenso anche molto calore, un agglomeramento di vita di cui Italia sentiva il bisogno e di cui voleva fare parte. Ed ora i giorni trascorrevano veloci, tutto il giorno occupata, gran parte della giornata in gondola ad accompagnare a scuola e a casa la piccola Olga, poi a sorvegliare Nilda l'insempia, l'altra serva, che non sapevacucinarepulire ma che pur doveva cucinare e pulire perché altrimenti nessuno l'avrebbe fatto; però cucinava e puliva sotto l'immediata sorveglianza d'Italia che per ambedue le cose aveva un talento speciale. Ed Italia corrompendo un noto stornello cantava: Io son la cameriera... con apparente amarezza ma in fondo con soddisfazione e senz'alcun rimpianto. La signora Anna sempre un pochino indisposta le lasciava volontieri quasi il posto di padrona di casa. Olga era più attaccata alla mamma da cui aveva avute le prime cure in gioventù ma il Nini era tutto di Italia. Ed ella se lo teneva bene tutto per sé. La gelosia le usciva dagli occhi quando lo vedeva in braccio altrui. Si tratteneva rispettosamente dal portarlo via alla madre ma glielo avrebbe strappato con tanta violenza da fargli male. Invece al padre lo lasciava volontieri e si associava a lui quando egli si metteva intorno al bambino. Non confessata attorno al bimbo si faceva una lotta per ottenerne i favori e così egli veniva guastato quanto la famiglia poteva. Ora aveva due anni ma in Serenella il vero padrone era lui. Bortolo il bottaio ch'era malizioso fu domandato un giorno dal signor Giulio quale tempo era da attendersi per il giorno appresso. Lo si derideva perché egli non aveva nulla del marinaio e non sapeva nulla del tempo. Rispose che bisognava domandarlo al Nini perché da lui dipendeva il tempo in Serenella. Italia aveva oltre che le qualità di lavoro e d'ordine altre qualità che la rendevano preziosa in Serenella. Era attrice nata; aveva tutto il talento che in laguna è diffuso doviziosamente. Le sere erano lunghe in Serenella quando il tempo non era bello e Italia aiutava a passarle. Il suo repertorio non era vasto ma per i bambini bastava. Tant'è vero che domandavano sempre la ripetizione delle stesse cose. Anzi quasi sempre quando si era soli nella stanza da pranzo, domandavano una alla volta la ripetizione di tutte le cose ch'essa sapeva delle rappresentazioni di tipi di maestrine di classi inferiori o di ragazze al ballo o imitazioni di tipi della famiglia come la moglie del vero padrone del luogo cioè il fratello maggiore del signor Giulio, una signora alquanto imperiosa e impaziente e sempre in corsa attraverso la vita. Quando veniva in Serenella, di Serenella non si poteva più parlare. La piccola Olga faceva docilmente la seconda parte in tutte le commediole di Italia e ci si divertiva un mondo. Anche il Nini sapeva all'occasione collaborare con certi suoi lazzetti che finivano sempre col farlo capitombolare sul tappeto.

La signora Anna chiamava ora il caffè e il marito. Essa usava prendere il caffè in letto e il signor Giulio andava ogni mattina ad aprirle le persiane e a mettersi poscia accanto al suo letto per prendere insieme il caffè. Dopo la nascita del Nini la signora Anna non era stata più bene e fra le altre molteplici cure che le erano state imposte c'era anche quella di restare in letto circa metà della giornata. Era stata una buona donna di casa la signora Anna ed ora non le serviva più che il suo occhio. I due fratelli del signor Giulio facevano una grande stima di lei mentre avevano un sincero disprezzo per lui quale uomo d'affari. Lo celavano appena, appena tale disprezzo. Prenderlo con loro in ufficio non avrebbero voluto perché persone vive e attive non potevano sopportare accanto a loro un sognatore eterno come quello, affetto anche da una specie di follia del dubbio che faceva di ogni affare una ridda di affari perché – si sa – ogni affare può dar luogo a dieci dubbi. E non lo celavano neppure alla signora Anna che quella posizione a Murano era stata creata in riguardo a lei piuttosto che in riguardo a lui. La signora Anna dunque non poteva farsi illusioni sulle capacità commerciali del marito ma ciò non che il suo affetto, non diminuiva neppure la considerazione in cui essa lo teneva. Perché in complesso anche i sogni del signor Giulio erano cosa che rendeva più lieta e facile la vita solitaria in Serenella. E poi la coscienza che in quel luogo solitario s'era finalmente trovato il luogo dove il signor Giulio inerte e buono era e si sentiva felice rendeva quel soggiorno ben aggradevole. Poi l'inerzia tanto favorita da quella solitudine era favorevole anche a lei che aveva le gambe malate. Tutti a Trieste furono stupiti di vedere i due coniugi adattarsi tanto bene alla nuova vita. Nessuno lo avrebbe creduto neppure loro. La solitudine era grande continuavano a dire i coniugi Linelli e i loro congiunti ma vi era tanta gente buona e servizievole che questa solitudine attenuava... Certo questa buona e servizievole gente non bastava ad annullare la solitudine.

Il signor Giulio se fosse stato sincero avrebbe dovuto confessare che l'unico e solo male di Serenella era la dipendenza da Trieste. Levata Trieste Serenella sarebbe stata un soggiorno cui nulla avrebbe mancato. Il fratello Nino ch'era quello che rivedeva i conti che venivano da Serenella inviava di tempo in tempo degli scritti fulminanti in quel luogo tanto tranquillo. S'accorgeva di qualsiasi piccolo aumento di spesa nella gestione e mandava dei brevi scritti con i quali rendeva note le sue conclusioni e nello stesso tempo le sue decisioni. Si avevano una volta delle grandi lavorazioni di sacchi in Serenella per esportare della merce che vi arrivava sciolta con delle barcaccie. Un bel giorno Nino fece una visita al deposito. Girò un paio d'ore per il deposito e assistette al riempimento dei sacchi in verità un po' malagevole visto che un operaio doveva tenere la bocca del sacco mentre un altro lo riempiva. Il signor Nino stette a guardare per un pezzo il grosso uomo adibito ad un lavoro tanto leggero. Propose di mettere al posto del facchino una delle donne che cuciva i sacchi. Il signor Giulio si mise ad obiettare: Le donne adibite alla cucitura dei sacchi erano contate; non si poteva toccarle. «Domani ne prenderai una di più» rispose seccamente Nino. «La stagione non è precisamente favorevole per ingaggiare delle donne a Murano» osservò Giulio con un sorriso di superiorità per chi voleva ingerirsi senz'intendersene negli affari cui egli sovrintendeva. Senza rispondere Nino si rivolse alla donna che teneva il sacco: «Mi occorrerebbe un'altra donna per questo lavoro dei sacchi». La donna lasciò cadere il sacco credendo le fosse stato dato l'ordine di correre a Murano a cercare subito una. «Non occorre mica tanta premura» disse Nino allontanandosi sorridendo e continuò il suo giro. Passò dal bottaio, Bortolo, un uomo sorridente sempre, l'unico veneziano in Serenella, debole e astuto. S'informò da lui sul prezzo delle doghe a Venezia ma subito risultò che si ritiravano in gran parte da Trieste. Nino si fece una notizia nel suo libretto e non ne parlò più. A tavola scherzando parlò ancora della difficoltà di trovare delle donne che vogliano lavorare a Murano. La cognata ascoltava sorridendo finché non arrivò a capire che nello scherzo c'era un rimprovero per il marito. E allora cercò di provare che a Murano non era tanto facile di avere delle donne per quel lavoro dei sacchi. E Nino ad arrabbiarsi: «Quante donne volete da Murano per il dessert?». Aveva ragione. Erano ancora anni in cui il lavoro in Laguna si dava quasi gratis. Ma quella visita di Nino ebbe conseguenze gravi. Da Trieste venne l'ordine di licenziare tutte le donne che facevano i sacchi e di prendere invece altri tre bottai. Se Nino fosse stato in Serenella Giulio avrebbe potuto fargli delle obbiezioni. I bottai costavano più delle donne. La tela da sacchi costava meno delle doghe e dei cerchi di ferro e dei fondi e coperchi. È vero che il barile si maneggiava meglio ma una peata conteneva più sacchi che non barili. «Eppoi chissà quante volte il barile ch'è rotondo non rotolerà in canalediceva il signor Giulio alla moglie. «Loro, a Trieste, non hanno un'idea di questi paesi e danno ordini rovinando tutta la nostra organizzazione». Le donne dovettero andarsene e fu un grande dolore per il signor Giulio perché quel lavoro femminile per quanto poco retribuito era pure un grande aiuto per certe famiglie. Vennero i bottai e arrivarono con delle barche a vela direttamente da Trieste le doghe. Il signor Giulio dovette subito convenire che il lavoro era grandemente facilitato. A lui non furono comunicati i calcoli in base ai quali si era presa la decisione e perciò ebbe per sempre la consolazione di poter dire che i barili erano buoni ma che costavano più dei sacchi. Nino, per quante volte venne in Serenella, con lui non discusse mai la questione. Alla cognata diceva ch'egli con Giulio non amava discutere di affari per non scontrarsi in tanti dubbi. «Eppoi» aggiungeva per indorare la pillola «son dubbi che vengono da mio fratello; son dubbi che vengono dalla mia razza e vi sono troppo accessibile». E gli ordini da Trieste sconvolgevano ad ogni tratto il piccolo posto. Avevano tenuto il primo anno due peate con le quali avevano eseguite da sé le proprie spedizioni. Dopo il primo anno si dovette mandarle in cantiere a ripararle e non appena ricevuto il conto delle spese, Nino diede ordine di vendere le peate perché aveva già dato ordine ad uno spedizioniere per affidargli il lavoro che fino allora avevano fatto con quelle peate. Allora Giulio credette i propri dubbi tanto fondati da poterli comunicare per lettera a Trieste. Sulla rivendita delle peate avrebbero perduto tanto e tanto e il costo di ogni spedizione sarebbe stato di tanto e tanto... La risposta da Trieste fu imperativa e le peate furono vendute per la metà del prezzo che avevano costato. Giulio restò per molto tempo del parere di aver avuto ragione lui e concludeva: «Uno di noi due non sa far di conti». La signora Anna non lo guardava perché egli non leggesse nel suo volto chi ella ritenesse non saper far di conti fra lui e suo fratello. Un giorno Nino spiegò che non si potevano tenere peate in un canale soleggiato da mane a sera come quello di Serenella e quando Giulio ne parlò ad amici di Venezia trovò che tutti s'accordavano nel dar ragione a Nino.

Ed il signor Giulio sentiva un certo avvilimento dalla evidente superiorità di Nino. E la signora Anna per consolarlo gli diceva: «Vedi! Questi uomini d'affari son fatti altrimenti di noi. Anche se tu avessi compreso ch'era più vantaggioso di cessare di usare dei sacchi quale imballaggio, tu non avresti accettate le tue proprie conclusioni perché avresti dovuto cominciare dal gettar su una strada tante poverine». Il signor Giulio non accettava il biasimo neppure in tale forma di lode: «Io sono prima di tutto un uomo di affari» asseriva lui. «Se vedessi che l'interesse della casa esigerebbe la rovina di tutti i suoi addetti io decreterei tale rovina senz'alcuna esitazione». Non c'era verso di dirgli la verità in alcuna forma. Eppure era saputa da molti in casa. Italia, Bortolo e tanti altri trovavano che Giulio era un buon diavolo ma che aveva avuta una bella fortuna di nascere fratello di Nino e di... Nell'intimo di Giulio doveva esserci anche un sospetto di tale verità perché troppo spesso concludeva i suoi calcoli con l'osservazione: «Già, son cose che devono decidere a Trieste perché loro sanno quello che vogliono. Io non ho qui i libri». E perciò la presunzione del signor Giulio non danneggiava nessuno. Non il commercio della casa perché egli, non avendo i libri nulla decideva e non la vita di famiglia perché tutti lo amavano e rispettavano come l'uomo che col suo entusiasmo per la Laguna – il grande divertimento che in Serenella assolutamente non mancavarendeva tutti attenti alla felicità che si godeva di grande vista e di buona aria. Quand'egli scopriva un colore interessante in Laguna la signora Anna si arrampicava alla finestra per vederlo e poi chiamava Italia ad ammirarlo. La veneziana che nella sua passata vita non aveva avuto occasione di ben comprendere e amare le bellezze naturali della propria patria vi si era tanto assuefatta che ora le insegnava spesso lei al signor Giulio. Così fu lei a scoprire che a certe ore in Serenella bastava alzarsi di pochi centimetri per veder cambiarsi lo spettacolo. Occorreva che l'acqua non fossebassaalta; stesse per abbandonare o per invadere la palude. Allora dalla riva bastava montare a un metro di altezza per scoprire i laghetti che si formavano nella palude, limpidi, i contorni capricciosi. Poi il signor Giulio trovò che salvo nelle ore di gran piena a tutte le ore, alzandosi di poco, lo spettacolo mutava. Subito, alzandosi magari sulle punta dei piedi, gli scorci dei canali lontani s'allargavano e ciò non era poco importante in giornata di sole dove ogni striscia di canale equivaleva per luce e colore ad una striscia di cielo.

Con tutto che il signor Giulio vivesse si può dire


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2010. Content in this page is licensed under a Creative Commons License