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– Nello studio (dovrei dire nel santuario o nel cenacolo) – riprese il dottore – si soffocava. I profumi che bruciavano negli incensieri d'argento sospesi alla volta, il fumo delle sigarette consumate dal maestro e dal discepolo durante la lettura dell'Idillio cromatico, avevano già formato una densa nuvola che rendeva indistinti, nella penombra in cui era tenuta la stanza, le stoffe delle pareti, i quadri, gli oggetti di arte, gli armadi finamente intagliati in vecchio stile, e la coppa di cristallo opalino dove languivano in mucchio rose bianche, giacinti e alzalee senza nessuna foglia verde che ne menomasse il simbolico candore.
Il discepolo aveva terminato di leggere, e ansioso attendeva il responso del maestro. Sprofondato nella poltrona di rimpetto, con la bella testa calva rovesciata su la spalliera, gli occhi socchiusi, la sigaretta tra le labbra e le braccia distese sui ginocchi come quelle di un idolo egiziano, egli sembrava assorto in una delle voluttuose contemplazioni che nessuno osava interrompere, neppure nella preziosa intimità accordata a pochissimi e prediletti ammiratori in certe ore della giornata.
Dall'aspetto del discepolo traspariva il tormento dell'attesa. La commozione della lettura lo aveva fatto impallidire; e gli occhi spenti, e il respiro affannato anche per la rarefazione dell'aria, e lo stordimento prodotto dall'acutezza degli odori a cui egli non si era potuto ancora abituare, rendevano piú evidente il doloroso stato di animo di Jello Albulo; che, veramente, si chiamava Nino Bianchi, ma che aveva firmato cosí due volumetti di versi, e non voleva essere chiamato altrimenti.
Improvvisamente il maestro si rizzò: buttò nella rosea grande conchiglia, posata sur uno sgabellino là accanto, il mozzicone della sigaretta, e, grave, con un quasi impercettibile sorriso di benevola commiserazione disse:
«Tutto va bene, caro Jello; ma vi manca l'aggettivo!».
E dopo una breve pausa, continuò:
«L'aggettivo raro, intendo, pittoresco, impreveduto, comprensivo. Idillio cromatico è un bel titolo; promette però piú che non dia. L'aggettivo! L'aggettivo! Tutti i vostri sforzi debbono essere rivolti all'ostinata ricerca di esso. È il signum! Pulsate et aperietur vobis».
Il povero Jello Albulo uscí dallo studio con la morte nel cuore. Dall'invocata severità del maestro egli si aspettava qualunque altra spietata sentenza all'infuori di questa che lo aveva colpito.
Appena l'aria fresca della via lo liberò dallo stordimento che gli opprimeva il cervello, egli cominciò a stupirsi della critica del maestro, pensando che i beoti avversari lo avevano invece sempre deriso per la eccessiva copia di aggettivi da cui erano ingombrati i suoi versi. Infatti non si era mai dato il caso ch'egli ne mettesse meno di tre in fila e ricercati con lungo studio e pazientemente combinati, badando ai contrasti, al rilievo, al colore, evitando con scrupolo i piú evidenti, i piú immediati, i più comuni! Ma il maestro aveva parlato, e doveva aver ragione. Sí, gli mancava l'aggettivo raro, pittoresco, impreveduto, comprensivo specialmente! A questo non aveva pensato mai! E doveva essere il piú squisito, il piú difficile, il piú importante (anche riflettendo aveva messo tre aggettivi uno dietro all'altro) se il maestro, cosí sapiente nella gradazione delle sfumature e dei valori, gli aveva dato l'ultimo posto, che, come nella sentenza evangelica, era poi il primo.
«L'aggettivo comprensivo!».
Non voleva usarne piú altri, fino a che non ne avesse trovato una mezza dozzina di questo genere.
Ricordava la teorica del maestro, predicata ai discepoli tante volte:
«L'aggettivo è insidioso; bisogna diffidarne sempre, se accorre senza che nessuno lo chiami. Sia lo scudiero del nome proprio; e non un Sancio Panza qualunque, in brache e maniche di camicia, ma loricato, con un bell'elmo rifulgente e un fantasioso pennacchio sovr'esso!».
Loricati e impennacchiati, Jello Albulo ne aveva usato molti e n'era orgoglioso. Spesso aveva scritto uno dei suoi poemi – non li chiamava versi, o componimenti come tutti gli altri mortali – spesso aveva scritto uno dei suoi poemi unicamente per collocare, come in artistica vetrina, un bellissimo aggettivo, di quelli che parevano di non avere nessun senso ai beoti, cioè a tutti coloro che non la pensavano come il maestro e come lui; ma che appunto per ciò poteva assumerne parecchi e contradditori, e riuscire supremamente suggestivo.
Ma alla «comprensività» non aveva badato mai. Il maestro non gliene aveva fatto alcun cenno nelle sue estetiche iniziazioni.
Ora, finalmente, lo aveva creduto degno di ricevere l'alta comunicazione che lo riempiva di gioia e di scontento nello stesso tempo! Trovare l'aggettivo raro, pittoresco, impreveduto era già una grande difficoltà; trovare anche il «comprensivo» doveva essere il sommo dell'arte.
Prima di lasciare il maestro, timidamente, egli aveva osato domandare:
«Comprensivo... in che modo?».
«Cercate!» aveva quegli risposto.
Ed egli si era messo a cercare.
Un giorno, in un sonetto alla sua Liliana (l'aveva ribattezzata con questo purissimo nome, ma i parenti di lei continuavano, con vivo sdegno del giovane poeta, a chiamarla borghesemente Giuseppina) in un sonetto alla sua Liliana, egli aveva scritto:
Anima amorfa, che serenamente
e quest' «amorfa», uscitogli dalla penna senza ch'egli vi avesse pensato su, lo aveva colmato di letizia.
«Era comprensivo?...».
Gli pareva; ma credette bene di consultare il maestro.
Fu un grave disappunto per Jello Albulo.
Divenne malinconico, silenzioso; e i suoi amici se n'impensierirono.
«Che hai?».
«Niente».
«Tu stai male e non te n'accorgi».
«Lasciatemi in pace!».
Noi, gente poco spirituale, non possiamo intendere quali guasti sia capace di produrre nella mente di un artista raffinato una fissazione come quella che teneva continuamente alla tortura Jello Albulo.
I grandi fogli di carta a mano, azzurrognoli, ch'egli usava per scrivervi con grossa calligrafia i suoi poemi (cosí grossa che spesso un endecasillabo non poteva essere contenuto in un rigo) ora non ricevevano altro che liste di aggettivi, raramente accoppiati a nomi propri, di mano in mano che l'infelice li andava pescando nel dizionario, in qualche vecchio scrittore dei meno noti, o nei volumi dei poeti stranieri, specialmente francesi, che gli arrivano in regalo da ogni parte. Ed erano liste di proscrizione, piú tremende di quelle di Silla. Aggettivo usato ormai significava per Jello Albulo: aggettivo profanato. Non c'era piú ragione di adoprarlo, se altri se n'era già servito. E pensava che alla gloria del suo nome, all'immortalità di uno dei suoi poemi, sarebbe bastato trovare un aggettivo vergine, da incastonare in quattro, sei versi, non più. Quattro, sei versi che dovevano essere il non plus ultra della perfezione della forma; cioè, venti, trenta parole cosí superbamente allineate e con tale sapiente combinazione e con tale miracoloso impasto, che il ripeterli sotto voce doveva produrre un'estasi deliziosissima, un inebbriamento divino; inno, preghiera, incanto, vera e precisa opera di magia; carmen! E unicamente in grazia di quel vergine aggettivo!
Questo non lo aveva tentato neppure il maestro, che ogni due anni raccoglieva le poesie parsimoniosamente sparse in riviste e giornali, e ne faceva volumi dove il bianco immacolato delle pagine era appena velato da poche strofe distribuite con pensata eleganza tra larghi spazi e margini ancora piú larghi; con in fronte il ritratto che ne aveva fissato, per l'eternità, la faccia accuratamente rasa, secondo la moda di certi poeti francesi.
Non un volume, una sola pagina sarebbe cosí a lui bastata; pagina di bronzo, anzi di diamante limpidissimo, come la verginità dell'aggettivo!
E il maestro e gli amici lo videro arrivare un giorno nel santuario, e non piú silenzioso, concentrato, quasi curvo sotto il peso dell'idea fissa che gli rodeva il cervello, come vi era apparso rade volte in quegli ultimi mesi, ma con gli occhi raggianti di gioia cosí strana da far paura. E gesticolava, balbettando:
«L'aggettivo... comprensivo? No! L'aggettivo vergine!... Ecco il poema eterno, di cui esso è la pietra preziosa... legata nell'oro di quattro versi... eterni! Udite ... Favete linguis!».
E declamava, anzi mugolava suoni incomposti, parole senza senso, povera vittima dell'aggettivo! –